Le radici etrusche di Roma
Stirpe Dardanica
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URBS AETERNA
LE ORIGINI
I Romani elaborarono un complesso racconto mitologico sulle origini della città e dello stato; il racconto c’è giunto con le opere storiche di Tito Livio, Dionigi di Alicarnasso, Plutarco e le opere poetiche di Virgilio e Ovidio, quasi tutti vissuti nell'età augustea. In quest'epoca le leggende, riprese da testi più antichi, vengono e fuse in un racconto unitario, nel quale il passato viene interpretato in funzione delle vicende del presente. Il mito racconta di una fondazione avvenuta per opera di Romolo, discendente dalla stirpe reale di Alba Longa, che a sua volta discendeva da Ascanio, figlio di Creusa e di Enea, giunto nel Lazio dopo la caduta di Troia.
L’Iliade di Omero non fa mai cenno ad un viaggio di Enea in occidente. Una versione che collega Roma con le vicende troiane è stata tramandata da due storici antichi come Ellanico di Lesbo e Damaste di Sigeo. La tradizione antica narra di una prigioniera troiana di nome Rome, segregata a bordo di una delle navi di Ulisse insieme ad altre compagne, e costretta a peregrinare con l’eroe attraverso i mari. Quando una tempesta costrinse le navi ad approdare sulle coste del Lazio, Rome, stanca di viaggiare, incitò alla rivolta le compagne, che incendiarono le navi.
Altri miti narrano che Rome, sarebbe stata, invece, uno dei numerosi figli di Ulisse o addirittura figlia di Telemaco e della maga Circe. Altri ancora narrano che Rome era il nome di una figlia o, forse, della moglie di Ascanio, figlio di Enea che, dopo le vittorie su Turno, re dei Rutuli, fece costruire un tempio alla dea Fede e per questo, alla città che venne poi costruita, fu dato il suo nome.
Del mito di Enea parlarono anche gli scrittori latini Ennio e Nevio, ma fu soprattutto Fabio Pittore che riuscì ad avvicinare la data dell’arrivo di Enea nel Lazio a quella della fondazione della città. Virgilio con la sua “Eneide” narra che Enea un principe troiano, figlio di Anchise, cugino di Priamo, della stirpe di Dardano in seguito alla caduta di Troia con il figlio Ascanio giunse nel Lazio. Dardano e Iasione figli di Zeus ed Elettra secondo la tradizione latina riportata da Virgilio e da Servio, sarebbero partiti dall’umbilicus Italiae, il centro sacro dell’Italia, presso il lago di Cotilia, dall’Etruria, nell’Italia centrale, per giungere il primo in Troade, il secondo in Samotracia. Enea secondo questo mito ritorna alle terre da cui era partito il progenitore. Gli Etruschi secondo questo mito sono anche’essi discendenti di Dardano. Una tradizione latina, narra che il padre di Iasione era il re dei Tirreni, Corito; e il suo gemello, Dardano, era figlio di Zeus e di Elettra. Corito fondò la città di Cortona, da cui Iasione e Dardano emigrarono, dopo aver diviso tra loro le sacre immagini. Iasione andò a Samotracia e Dardano nella Troade.
I GEMELLI FIGLI DI MARTE E DI REA SILVIA
Lo storico romano Tito Livio nel libro I della sua Storia di Roma scrive che un discendente di Enea, Numitore figlio del re Proca, designato dal padre per regnare su Alba Longa, fondata da Ascanio Julio figlio di Enea, avuto dalla prima moglie Creusa. Amulio fratello minore di Numitore usurpò il trono, uccisi i figli maschi del fratello costrinse, l’unica figlia femmina, Rea Silvia, a diventare Vestale e a fare quindi voto di castità, togliendole la speranza di diventare madre. Colta dal sonno sulle sponde del Tevere, in un bosco sacro, dove era andata ad attingere acqua, la giovane vestale vide in sogno un giovane bellissimo circonfuso di luce: era il dio Marte. Svegliatasi corse alla propria capanna e si confidò con la nutrice. Questa la consolò, prevedendo un prodigio nel racconto della fanciulla. Dopo nove mesi Rea Silvia dette alla luce due gemelli che furono chiamati Romolo e Remo. È scritto che l’istituzione delle Vestali risale al secondo re di Roma Numa Pompilio, e poiché la madre dei gemelli era una Vestale, allora questo ordine religioso doveva esistere già prima della fondazione di Roma tra i Latini. L’unico popolo vicino a possedere un antico culto misterico era quello etrusco.
Secondo Livio in realtà essa venne stuprata e dette la colpa al dio Marte. I gemelli sono frutto della rottura di un voto sacerdotale, per quanto né il voto, né la rottura stessa fossero dovuti alla libera scelta di Silvia che, però, vista la sacralità del suo ruolo, si trova comunque a essere colpevole, etichettata e ricordata quindi come Rea colpevole. Forse originariamente, come suggerisce il suo nome, fu una divinità dei boschi e delle selve che coprivano i monti Albani. Non lontano da quei luoghi sorse più tardi la città di Roma.
Per ordine dello zio, Rea Silvia fu seppellita viva, come prevedeva la legge per le Vestali che non rispettavano il voto di castità. Così la vestale Rea Silvia colpevole di aver infranto la regola perde i suoi figli ed il suo sacrificio è necessario perché possa nascere una nuova città.
Rea Silvia, sacerdotessa di Vesta, ha il nome composto da Rea, la Terra Feconda, e da Silvia dal latino silva, “selva”, è l’immagine della Grande Madre Vergine, la Terra Feconda che garantisce il rinnovamento di un nuovo ciclo, nel bosco sacro, per virtù di un Dio concepisce ed emana la realtà, il mondo materiale e dualistico espresso dai Gemelli Romolo e Remo. Un ciclo si è chiuso con la morte di Enea e uno nuovo si apre grazie a Rea Silvia. Nei Fasti, Ovidio narra che Rea Silvia prima di partorire, vide in sogno Romolo e Remo nelle sembianze di palme. Omero fa nascere Apollo mentre Leto abbraccia una palma. Ecco perché questo albero evoca i simboli della vittoria, della gloria e dell’immortalità. I Romani inoltre, come i Greci, usavano offrire ai vincitori un ramo di palma.
All’inizio di un’Età vi sono sempre Due Gemelli[1] divini o semidivini. Zeus e la Pleiade Elettra ebbero in Arcadia[2] due gemelli, Dardano il progenitore dei Troiani e Iasone. In questo mito è Marte che si unisce con una mortale Rea Silvia che partorisce due gemelli Romolo e Remo.
Il re Amulio, in seguito, affidò i bambini a due schiavi con l’ordine di metterli in una cesta, portarli nella parte più alta del fiume, e affidarli alla corrente. Romolo, che insieme al suo gemello non sarebbe dovuto sopravvivere, fu salvato dalle acque del Tevere, né più né meno di come avvenne per Sargon e per Mosè. La cesta nella quale i gemelli erano stati adagiati si arenò in una pozza d’acqua sulla riva, presso la palude del Velabro tra Palatino e Campidoglio in un luogo chiamato Cermalus, ai piedi di fico un fico selvatico che poi i Romani chiameranno ruminalis ficusche, che sfama i gemelli con la sua linfa zuccherina. Fico Ruminale: varie etimologie, come ruma, “mammella” o Rumon, un arcaico nome del Tevere. Adamo ed Eva, scoprendosi nudi, si vestono di foglie di fico. Mithra, nato nudo, si ripara fra i rami di un fico, si nutre dei suoi frutti e si riveste con le sue foglie; Buddha medita per sette anni e ottiene l’illuminazione sotto un fico. I Romani credevano che finché questo fico fosse vissuto, la grandezza di Roma non sarebbe mai declinata. Una leggenda narrava che, per un intervento divino operato dall’augure Atto Navio, il fico sarebbe stato poi trasportato al centro del Foro dove sarebbe vissuto per 830 anni.
Figura 1. Duomo di Siena particolare pavimento - Fico Lupa e i Gemelli.
Altre fonti fanno coincidere il punto dove si fermò la cesta con i gemelli con una grotta collocata alla base del Palatino, detta “Lupercale” perché sacra a Marte e a Fauno Luperco. Una lupa, scesa dai monti al fiume per abbeverarsi, fu attirata dai vagiti dei due bambini, li raggiunse e si mise ad allattarli. Vuole la tradizione che anche un picchio (Pico) portò loro del cibo, sia la lupa che il picchio sono sacri a Marte. La lupa era anche l’animale sacro del dio sabino Mamers, analogo di Marte, ed era anche l’animale tutelare dei latini con il nome di Luperco, mentre per gli etruschi il lupo raffigurava Aita il dio purificatore e fecondatore.
Marte come racconta Virgilio, in età arcaica è raffigurato con un copricapo costituito da un elmo ornato da due penne; i suoi animali sacri sono il picchio e il lupo, il cui aspetto umano è rappresentato da Pico, Re degli Aborigeni e fondatore di Alba, e da Fauno, figlio del re Pico e quindi nipote di Marte.
Marte è il dio del tuono, della pioggia, della folgore e della fertilità. Mistericamente o esotericamente Marte è il simbolo del potere generatore primitivo ed originario, destinato alla procreazione umana. Egli è rosso come Adamo e Brahma-Viraj, ed è identico a Karttikeya, il dio indù della guerra, nato dal sudore di Shiva, che è detto anche Lohita, il Rosso; e come lui è orfano di un genitore. Essere il dio della guerra e lo spargitore di sangue è solo un’idea secondaria, derivata da quel primordiale dello spargimento di sangue che si ha al primo rapporto sessuale. A Marte è sacro il settenario, in quanto Pitagora aveva scelto la distanza fra Marte ed il Sole per stabilire, nella musica delle sfere, la lunghezza di un tono.
In seguito i gemelli furono trovati da un pastore di nome Faustolo (il porcaro di Amulio), il quale insieme alla moglie Acca Larenzia decide di crescerli come suoi figli. Il nome Faustolo ricorda quello di Fauno, e si ricollega alla radice del verbo faveo, “essere favorevole”. Sembra che in epoca classica sul Palatino ancora esistesse la capanna di Faustolo, tugurius Faustoli, onorata come un luogo sacro. Omero narra che Pallade Atena manda Ulisse giunto a Itaca, da Eumeo, il fedele custode dei maiali, un porcaro come Faustolo. Il maiale che si ciba di ghiande, è il simbolo dell’uomo primitivo. Il frutto della quercia di cui si cibano i maiali e gli uomini primitivi è la ghianda. La ghianda, dicevano gli antichi, eccita Venere. La ghianda, è feconda per eccellenza, si riconosce in lei non solo una fecondatrice tra gli alberi, ma la fecondatrice degli uomini. Faustolo morì nello stesso giorno di Romolo, fu sepolto nel Foro sotto il lapis niger, nome che indica la pietra nera di Cibele.
Acca Larentia indicata è chiamata lupa perché Tito Livio scrive: "ac miraculo datum" (per incredibili dicerie) vendeva il suo corpo. Già madre di dodici figli, alla morte di uno di questi, Romolo ne prese il posto ed insieme agli altri diede vita alla confraternita dei cosiddetti Fratres Arvales (Arvali). Acca Larenzia si curò di allattare anche Romolo e Remo, che crebbero, ed una volta venuti a conoscenza della loro origine reale, decisero di vendicarsi. La lupa che allattò Romolo e Remo è, quindi, identificabile con costei. Esiste un’altra Acca Larenzia si tratterebbe di una figura semidivina ereditata dagli Etruschi come prostituta protettrice del popolo umile. Secondo la mitologia romana, in una versione citata da Macrobio, dopo aver trascorso una notte di preghiere nel tempio di Ercole, fu compensata dal dio facendole incontrare e sposare un uomo ricchissimo di origine etrusca, Taruzio.
Quando i due gemelli furono adulti tornarono ad Alba Longa e, ucciso l’usurpatore Amulio, riposero sul trono il nonno Numitore, legittimo sovrano. In seguito lasciarono Alba Longa con il permesso del re decisero di fondare una città lì dove la lupa li aveva allattati.
I bambini crebbero inizialmente in una capanna situata sulla sommità del Palatino. Scrive Tito Livio: “Siccome erano gemelli e il rispetto per la primogenitura non poteva funzionare come criterio elettivo, toccava agli dèi che proteggevano quei luoghi indicare, attraverso gli aruspici, chi avessero scelto per dare il nome alla nuova città e chi vi dovesse regnare dopo la fondazione. Così, per interpretare i segni augurali, Romolo scelse il Palatino e Remo l’Aventino. Il primo presagio, sei avvoltoi, si dice toccò a Remo. Dal momento che a Romolo ne erano apparsi il doppio quando ormai il presagio era stato annunciato,i rispettivi gruppi avevano proclamato re l’uno e l’altro contemporaneamente.”
Secondo la tradizione all’alba il Rex-Sacerdos Romolo compì un sacrificio fuori della sua capanna, poi sul Palatino costruì un Templum per osservare gli uccelli e trarne auspicio al fine di ricevere la benedizione da parte di Giove.
Remo scelse l’Aventino, detto anche Remuria o Remoria, e Romolo il Palatino. Per primo Remo vide venire sei avvoltoi da oriente (considerata “pars infausta” poiché in tal modo gli uccelli si allontanavano dal sole fonte di vita) alla sua destra, quindi volgendo la fronte a nord. Già lo acclamavano fondatore quando Romolo vide provenire dalla sua sinistra, dodici avvoltoi, quindi da occidente stando anche lui con la fronte rivolta a nord, che furono considerati “fausti” nel significato augurale in quanto diretti verso il sole e in numero superiore, e quindi Romolo venne acclamato fondatore. Stando alla testimonianza di Ennio, i gemelli compiono due azioni distinte, ossia un auspicio e un augurio (Annales I fr. 47, 72 - 76). Sia Livio sia Ennio distinguono due atti auspicali: il primo serve a scegliere il luogo su cui far sorgere la nuova città e a individuare il fondatore; il secondo, invece, è garanzia dell’investitura regale. A ben vedere, anche secondo la testimonianza di Dionisio, l’osservazione auspicale avviene in due momenti distinti: la prima osservazione ex avibus è finalizzata alla scelta del sito e del fondatore dell’urbs (I 86, 2 - 4); la seconda osservazione augurale ex caelo, fatta da Romolo sul Cermalo, è finalizzata, piuttosto, alla scelta del futuro imperator (II 5).
Plinio sosteneva che gli avvoltoi avessero la capacità di intuire la morte di una persona con tre giorni di anticipo. Nel mito della fondazione di Roma, Romolo vide dodici avvoltoi volare in alto nel cielo, per simboleggiare che con lui iniziava la prima ora del ciclo delle dodici ore (un ciclo) concesse alla futura nazione. Remo solo sei avvoltoi fu ucciso secondo una versione quando scavalcò il solco sacro che delimitava i confini della città, cioè al suo interno.
[1] Nella Genesi ebraica abbiamo i gemelli Caino ed Abele.
[2] Gli Arcadi si vantavano di essere più antichi della Luna.
RITO DELLA FONDAZIONE DI ROMA
Romolo lanciò una lancia sulla sommità del Cermalo, dove era stato allevato, e decise di fondare lì la sua città. Dopo aver compiuto una serie di riti in onore degli Dèi, sul Palatino, Romolo scende dal colle. Quindi comincia a tracciare quello che è definito il “solco primigenio” intorno e ai piedi del Palatino: il rito di fondazione compiuto da Romolo sul Palatino sarà sempre ripetuto dai Romani quando fonderanno, nei secoli successivi, una città.
Narra Plutarco, una volta ottenuto il responso divino, Romolo prende possesso del luogo indicato da Giove, il Palatino, All’aratro di bronzo Romolo aggioga una vacca ed un toro, tutti e due bianchi, perché bianco è un colore fausto. Dopo di che indossa una toga particolare, bianca, con la quale si copre la testa: è il cintus gabinus. Il toro venne aggiogato in quella che era destinata ad essere la parte esterna del futuro muro, quale elemento propiziatorio di forza per la difesa della città intesa come un piccolo cosmos, mentre la mucca fu aggiogata in corrispondenza della parte interna della costruenda città ad evocare ricchezza e benessere.
Con questo tracciato da Romolo in poi si fissa il percorso delle mura e con una forma sincopata chiamata pomerium, che vuol dire dopo o dietro il muro; dove s’intende mettere una porta, sollevando l’aratro si tira fuori il vomere, e lascia uno spazio per la porta. Per questo motivo gli antichi considerano sacra tutta la cinta muraria ad eccezione delle porte.
Per Plutarco, il solco circolare rappresentava un cosmos, proprio come quello di Troia. Simbolicamente il solco sacro delimita un cosmo ordinato, circondato dalle forze ostili del Caos che premono contro la sua cintura. Come specifica Plutarco, al sulcus viene attribuito lo stesso nome del cielo, ossia mundus, e P. Festo afferma che esso rappresentasse il mondo invisibile dei Mani, mondo che esisteva parallelamente a quello dei mortali.
Dionigi di Alicarnasso dice che dopo la cerimonia i due animali furono sacrificati, concordemente con l’uso di sacrificare il toro che guidava il “Ver sacrum”.
Figura 1. Rito della fondazione di Roma
Nella mitologia greca la potenza delle acque era rappresentata nella duplice forma del cavallo e del toro, e per proteggersi contro tale potenza che i Troiani avevano posto selle mura di Troia figure di tori e di cavalli sulle loro mura, e immolavano tori e cavalli vivi al fiume Scamandro, la potenza delle acque[1] intese anche come quelle del caos.
Varrone rammenta come il fondatore dell’Urbe, conformandosi ad un antico rito etrusco, dopo aver aggiogato in un giorno fausto, un toro e una vacca, una coppia maschile e femminile, avesse tracciato con l’aratro il sulcus primigenius, il perimetro sacro che doveva circoscrivere e difendere magicamente la città. Il solco sarebbe stato circolare, e secondo Varrone Urbs trarrebbe la sua origine da Orbis cerchio.
La tradizionale fondazione di Roma, con la preventiva consultazione degli avvoltoi, e col solco (sulcus) tracciato sul terreno da un giogo, con la mucca all’interno e col toro all’esterno (vitulus, italus), fu fatta da Romolo secondo l’uso etrusco (more etrusco).
Gli autori Latini, così solerti nello scindere la tradizione Romana da quella dei Tusci, riconoscono che il rito di fondazione fu compiuto secondo l’Etrusca Disciplina e ammettono anche che gli auspici degli Auguri cadessero sotto il controllo dagli Aruspici di Tarquinia.
Il rito della fondazione prevedeva che fossero eseguiti una serie di passi. Nell’antica Roma l’àugure, cioè il sacerdote si spostava su un punto centrale prima individuato e scavava una buca, e in essa poneva non solo delle offerte, ma anche un cippo di pietra cubica. Questa nuova buca prendeva il nome di “umbilicus”, cioè ombelico come centro del cerchio il mundus. L’àugure con la sua verga o lituus tracciava per terra una croce, per mezzo di due assi orientati da est verso ovest (decumanus), e da nord verso sud (cardo).
Figura 2. Orientamento In base al Sole
La fondazione di Roma a opera di Romolo e Remo così è stata tramandata dalle leggende è un’applicazione rigorosa del rito etrusco: i Gemelli che osservano il volo degli uccelli per decidere chi dei due dovesse dare il nome alla città, il solco tracciato da Romolo, l'uccisione di Remo che, saltando all'interno del perimetro, profana i sacri confini e ''invade" la nuova fondazione.
Tutto questo faceva parte di quel rito Etrusco di fondazione, del quale gli autori Latini parlano. Plutarco racconta che, anche al momento della fondazione di Roma, fu aperto un mundus e che dentro di esso i compagni di Romolo vi gettarono zolle di terra e primizie che avevano portato con sé dalle loro rispettive zone di provenienza. Romolo dopo avervi elevato un altare (ara), traccia con l’aratro il sulcus della fondazione di Roma eseguito in senso antiorario, toro a destra e vacca a sinistra, quello della precessione degli equinozi, dei grandi cicli temporali. Dionigi di Alicarnasso afferma che il percorso perimetrale era quadrato. In un frammento degli Annali, Ennio afferma che Roma era quadrata. Nel riportarci tale passo Festo lascia intendere, che l’antico storico si riferisse alla pietra quadrangolare che si trovava nel Palatino, nelle vicinanze del tempio di Apollo[2]. Secondo Plutarco[3], Romolo fondò la cosiddetta Roma quadrata, all’interno di un solco circolare.
A Roma nella curia dei Salii si conservava il Lituo[4] (lituus ) un bastone sacro che terminava con una spirale, che si riteneva avesse usato Romolo per ripartire le regioni della città quadrata, Romolo stesso era un Àugure. Il lituus era costituito da un corto bastone senza nodi ricurvo in cima, la forma era simile a quella del pastorale, il bastone curvo del Vescovo. La forma a spirale del bastone sacro era in qualche modo in rapporto con le correnti telluriche della terra (l’odierno campo d’indagine della contestata geobiologia) che con il rito della posa della “prima pietra” erano fissate e canalizzate. Lì sorgevano i templi dedicati alle divinità.
Figura 3. Àugure con Lituus
Un collegio di grande importanza non a caso era proprio quello degli Àuguri. Non stupisce che si trattasse di personaggi di enorme importanza, che trovavano la loro legittimità sia nei risultati della loro opera, sia perfino nella storia della città.
[1] Omero, Iliade,216-239.
[2] Marco Baistrocchi, Arcana Urbis, capitolo terzo.
[3] Plutarco, Rom., 11, 1-5.
[4]Un oggetto rarissimo, il lituo, finora documentato in Italia da soli due esemplari (anche se effigiato in molte rappresentazioni funerarie e monete) che era custodito in una tomba del V secolo a.C. appartenuta ad una dinastia regale. Il lituo era anche una tromba ricurva usata nell’esercito Romano.
ROMOLO LUCUMONE TITO TAZIO
Secondo quanto narrato da Tito Livio in Ab Urbe condita libri (I, 9), Romolo dopo la fondazione di Roma accolse i reietti delle vicine città in un rifugio sull’Asylum, la sella posta tra l’Arx e il Capitolino propriamente detto. Cento fra questi furono i primi Padri Fondatori, i patres o patrizi. Il fatto che l’Asylum fosse riservato agli uomini, spostò l'equilibrio numerico fra i due sessi e i giovani romani, dopo essere stati respinti dai genitori delle fanciulle delle città vicine, organizzarono il ratto delle Sabine. L'organizzazione fu dello stesso Romolo. «Romolo predispose ad arte solenni giochi in onore di Nettuno equestre, giochi cui diede nome di Consuali. [...] Accorse un gran numero di persone, anche per la curiosità di vedere la nuova città, e particolarmente i più vicini: i Ceninesi, i Crustumesi, gli Antemnati. E venne anche, praticamente al completo, con mogli e figli, la popolazione dei Sabini.»
Nel terzo libro dei Fasti (v. 1 78-1 99) Ovidio conferì alla vicenda il medesimo substrato concettuale, ma in forma drammatica; Marte stesso racconta come ispirò al figlio Romolo l’idea di rapire le Sabine. Il rapimento delle fanciulle da parte dei giovani romani scatenò le guerre con i popoli vicini. Mentre i romani sconfiggono i Ceninensi, gli Antemnati e i Crustumini, Tito Tazio che Livio cita per la prima volta come regem Sabinorum trattenne i Sabini facendo mostra di voler risolvere la questione con calma. I Sabini non sono soltanto gli abitanti della città di Cures di Tito Tazio, sono il complesso federato della nazione sabina, sono ciò che più tardi verrà chiamato il nomen sabinum.
Dumézil osserva che da un lato, Romolo: è il figlio di Marte e il protetto di Giove. Ha appena fondato ritualmente la città, ricevuti gli auspici e tracciato il solco sacro. Egli ed i suoi compagni sono splendidi adolescenti, forti e valorosi. Dal lato opposto, Tito Tazio e i ricchi sabini. Certamente non sono vili né irreligiosi, al contrario; ma in questa fase della storia vengono presentati come i ricchi. Inoltre possiedono le donne di cui hanno bisogno Romolo e i suoi compagni. l due partiti sono dunque complementari. Proprio perché essi sono complementari, Romolo, comprendendo che la sua società incompleta non può vivere, fa rapire le Sabine durante la festa rurale di Conso. Agisce così, sia per avere delle donne, sia per costringere i ricchi sabini, nonostante la loro ripugnanza, a entrare i n rapporto con la sua banda selvaggia. Dii e virtus, gli dèi e il coraggio o l’energia virile, definiscono perfettamente il movente delle due prime funzioni; opes, risorse, potenza che consiste in beni e in mezzi d'azione, insieme con sanguis ac genus che designano i mezzi della fecondità e della generazione, caratterizzano con altrettanta precisione la terza funzione.
Romolo, non potendo contare altro che sulla propria condizione di figlio di un dio e sulle promesse di Giove, è costretto o ricorrere a soldati di mestiere e chiama tra gli altri Lucumo di Solonium, “uomo d'azione e illustre in cose di guerra”. Così viene sempre presentata la struttura della vicenda: il bisogno, la tentazione, l'intenzione, l'azione di Romolo, tendono a comporre una società completa, imponendo ai ricchi Sabini, di unirsi ai valorosi Etruschi e ai divini Romani.
La guerra occupa il quadro in due episodi. In ciascuno di essi, uno dei due partiti sta per raggiungere la vittoria, ma ogni volta la situazione all'ultimo momento torna ad equilibrarsi e la conclusione della contesa si allontana.
Tazio seduce con il miraggio dei braccialetti e dei gioielli d'oro che brillano alle braccia dei suoi uomini la figlia del romano incaricato di custodire la posizione importantissima del Campidoglio una vergine Vestale, Tarpeia, una sabina, figlia del comandante della rocca Spurio Tarpeio. Costei si offrì di aprire ai Sabini la porta della cittadella, o quali accettando, le scagliarono addosso sia i monili sia gli scudi uccidendola e precipitandola giù dalla rupe. Questa è una storia mitica che nasconde tecniche misteriche che non si potevano narrare, e dovevano essere mascherate.
«... la ragazza era andata oltre le mura ad attingere acqua per i culti rituali. Dopo averla catturata, la schiacciarono sotto il peso delle loro armi e la uccisero, sia per dare l'idea che la cittadella era stata conquistata più con la forza che con qualsiasi altro mezzo, sia per fornire un esempio in modo che più nessun delatore potesse contare sulla parola data». (Livio, Ab Urbe condita libri, I, 11. Versione Guido Reverdito)
Nel corso della battaglia divampata nella valle del Foro tra i compagni di Romolo, cui è rimasto il Palatino, e i Sabini di Tazio, padroni del Campidoglio, i primi cedono e si ritirano in disordine. Allora Romolo leva le armi al cielo e dice: “Giove, fidando nei tuoi auspici gettai qui sul Palatino le prime fondamenta di Roma. Libera i romani dal terrore e ferma la loro fuga vergognosa. In questo luogo prometto che ti erigerò un tempio, o Giove Stator, per ricordare alla posterità che il tuo soccorso tutelare ha salvato Roma”. E dal dio egli ottenne un intervento mistico o magico immediato, che, contro ogni aspettativa, capovolse il morale dei due eserciti e rovesciò le sorti del combattimento.
Dumézil in “La Religione romanica arcaica” scrive che il capo dei ricchi sabini e il semidio Romolo posseggono ciascuno un proprio mezzo per intervenire nella battaglia e inclinarne le sorti: il ricco ricorre all’oro, allo stratagemma vergognoso della corruzione pagata non ancora in denaro ma già in monili, e della corruzione di un cuore femminile; il semidio ottiene da Giove onnipotente il miracolo gratuito che trasforma la disfatta in vittoria. Per apprezzare la struttura logica di tutto il complesso basta constatare che non ci è possibile immaginare le parti invertite, Romolo che corrompe e Tito Tazio che ottiene il miracolo “diale” da Giove: non vi sarebbe più alcun senso. Tito Tazio e Romolo non agiscono secondo il loro carattere, bensì secondo la funzione che rappresentano.
Ecco allora la conciliazione: le donne si gettano in mezzo, fra i loro padri e i loro rapitori. E tutto finisce così bene che i sabini decidono di fondersi con i compagni di Romolo. Due re, divenuti pari, istituiscono ciascuno determinati culti: Romolo, soltanto il culto di Giove; Tito Tazio, i culti di una serie di Dèi in rapporto con la fecondità e con la terra, tra i quali si trova Quirino. Non si sentirà mai più parlare di dissensi fra la componente sabina e la componente Ialina, albana romulea, di Roma, né durante il duplice regno né in seguito. La società è completa. Ripetendo le parole di Livio: il gruppo di Romolo che da principio aveva dalla sua parte deos et virlutem ha acquisito ciò che gli mancava, opes, e inoltre le donne, pegno della fecondità nazionale.
Virgilio nell’Eneide (VIII, 639, 641) narra la prima grande riconciliazione: quella di Romolo e di Tito Tazio dei Latini e dei Sabini. l due re cessata la lotta, davanti all’altare di Giove, armati e reggendo le patere (coppe) stavano ritti, il patto con sangue di una porca sacrificata stringevano. Quando Romolo e Tito Tazio pongono fine alla guerra, fondano la società romana completa, essi fanno, ciascuno, opera religiosa e istituiscono dei culti, ciascuno secondo la propria funzione. Mentre Romolo, però, istituisce un solo culto, quello di Giove, Tito Tazio ne introduce a Roma tutta una serie, di cui Varrone precisa l'elenco con quattordici divinità.
Tito Tazio regnò assieme a Romolo, e per soli cinque anni, un periodo che dai romani era chiamata indizione. Dopo la sua morte, in seguito a un agguato, il corpo di Tazio fu riportato a Roma e sepolto sul colle Aventino. La sua tomba si trovava all’interno di un bosco sacro di allori (Loretum), situato nell'area dell’attuale piazza Giunone Regina. La figlia di Tito Tazio, Tazia, sposò il successivo re di Roma Numa Pompilio.
La leggenda dei tre capi Romolo Lucumone e Tito Tazio porta alle tre tribù: i compagni di Romolo divengono i Ramnes, quelli di Lucumone i Luceres e quelli di Tito Tazio i Titienses. È lecito pensare che le tre tribù primitive i cui nomi, tra l’altro, mostrano una consonanza etrusca. G. Dumézil interpreta che i Ramnes garantissero la direzione politica e il culto (come i compagni di «Remo» in Properzio, 4, l, 9-26), i Luceres rappresentassero gli specialisti della guerra (come Lucumone nel medesimo testo di Properzio, 26-29), e i Titienses fossero caratterizzati dalla loro ricchezza di greggi (come il Tazio di Properzio, 30)? La questione rimane aperta: ho fornito un certo numero di ragioni per rispondere affermativamente, ma nessuna di esse è costrittiva[1].
[1] La religione arcaica dei Romani p. 156. G. Dumézil.
ROMA CITTÀ ETRUSCA?
Per Orazio, come negli anni successivi per Properzio e per Virgilio, l’origine troiana è collegata con la componente etrusca. In Virgilio, l’Etrusco Tevere e il Palatino Romano, simboli indissociabili di Roma, sono uniti nella preghiera e affidati insieme agli dei della patria: Di patrii indigetes et Romule Vestaque mater | quae Tuscum Tiberini et Romana palatia servas ...
Dionigi di Alicarnasso (circa 60 a.C. - 7 d.C.), si lasciò sfuggire a denti stretti la frase secondo cui «molti degli scrittori sostennero che la stessa Roma era una città Tirrena» (cioè Etrusca). A denti stretti perché anche lui tendeva a dimostrare che Roma non era affatto una «fondazione etrusca», come molti scrittori avevano detto, bensì era una «fondazione greca». Ebbene, esistono numerose e consistenti prove di carattere storico, religioso, culturale e soprattutto di carattere linguistico che dimostrano che effettivamente Roma come città fu fondata, non dai Latini o dai Sabini, bensì dagli Etruschi.
Le città etrusche più vicine al sito dove fu fondata Roma erano Veio e Caere (Cerveteri). L’accertata e sicura presenza nella Roma della dinastia dei Tarquini induce a privilegiare come fondatrice della città di Roma appunto la città etrusca di Tarquinia, che era poco più distante delle altre due dal sito prescelto.
Tito Livio ci spiega che, a quei tempi, i Romani dell’aristocrazia conoscevano alla perfezione la lingua Etrusca, in quanto i giovani delle classi elevate andavano a compiere i loro studi a Caere. Non si trattava semplicemente di comprenderne la lingua, né di sapersi solamente esprimere correttamente, ma di parlarla senza inflessioni straniere, al punto da poter essere scambiati per un Etrusco. Questo ci fa supporre che anche in Roma e nelle loro famiglie i giovani dell’aristocrazia parlassero abitualmente la lingua degli Etruschi, probabilmente perché a Roma, tra la fine della monarchia e gli inizi della repubblica, era in atto un vero e proprio bi-linguismo.
Iscrizioni in lingua etrusca rinvenute nei depositi votivi del Foro Boario e ai piedi del Campidoglio provano che durante il VI secolo a.C. individui di lingua e cultura partecipavano ai culti della religione romana. Un vicus Tuscus, che come eloquentemente indica il nome alludeva alla presenza di una zona "etrusca" nel corpo urbano di Roma, esisteva del resto sul lato sud-occidentale della piazza del futuro Foro, tra il Campidoglio e il Palatino, a poca distanza dall'area sacra di Sant’Omobono.
Gli Etruschi scavarono grotte ad uso funebre, oracolare e sacrale in genere, come mai nessun altro popolo.
Queste grotte furono in seguito riutilizzate dai primi cristiani. A Roma nei sotterranei del Vaticano (il colle dei «vates», cioè dei dispensatori di vaticini e profezie) accanto alla presunta tomba di S. Pietro furono trovate nel 1949 sepolture di epoca precristiana. Un’antica tradizione riporta che in tempi remoti proprio sul Vaticano era un importante oracolo degli Etruschi.
Sull’origine del nome della città esistono le versioni più disparate. Escluso da tutti che possa derivare da Romolo o da Remo, si affaccia l'ipotesi che derivi dal greco "rome" che significa "forza", o da Rumon (antico nome del fiume Tevere) in senso di "fluviale", o da Ruma (mammella) nome di una potente famiglia etrusca, ma anch'esso antico nome del Tevere. Roma, poi, è il nome di una divinità, personificazione della città eterna, diffusasi dapprima in Asia Minore ed in Grecia, con il culto dell'imperatore, poi portata nella capitale ed inserita nel recinto dei santuari famosi. Questo culto si trova a Smirne, Chio, Alabanda, Mileto, Efeso, Atene (associato ad Afrodite). Le feste di questa divinità sono dette Romee.
La romanizzazione degli Etruschi fu processo di assimilazione e acculturazione che portò la civiltà etrusca a fondersi gradualmente con quella romana, sotto vari punti di vista: politico, giuridico, culturale e linguistico.
Il primo episodio che vede Roma prevalere sull’Etruria si ha nell’anno 396 a.C. con la conquista romana di Veio, che diede alla città vincitrice il controllo della foce del Tevere. Lo scontro è stato spesso mitizzato dalle fonti antiche (Tito Livio), che richiamavano all’episodio della presa di Troia.
La differenza principale tra gli Etruschi e i Romani è rappresentata dall’organizzazione del potere. Nel caso degli Etruschi questo non era nelle mani del più forte, né del più ricco, ma del più saggio. I Lucumoni erano i sacerdoti re che prima dei Romani erano degni di guidare e rappresentare il popolo. Prima che la civiltà progredisse verso forme più strutturate di gestione del potere, prima che scoprisse dunque la politica, al centro della vita comunitaria vi era la religione. Nel culto etrusco primeggiava una Grande Dea creatrice, la quale era venerata con servigi e rituali officiati da una rispettata casta femminile.
Ai tempi di Augusto, per il reclutamento dei pretoriani (gli unici reparti armati stanziati in Italia e i custodi della stabilità del principato) sceglievano, come zone preferenziali, l’Etruria e l’Umbria (all’Etruria ormai stabilmente legata anche sul piano religioso, il Latium vetus e le colonie antiquitus Romanae (Tac., Ann. IV, 5, 5) e che, soprattutto, per la milizia pretoriana usavano gli aggettivi fortis e pius (fortiter et pie militia functi), intendendo con fortis, appunto come Virgilio, la forza controllata dell'uomo civile, capace di fermezza e di razionalità, contrapposta alla feritas, la forza selvaggia e primordiale dei primitivi.
Roma non deriva da Romolo, “Ruma” è una parola etrusca che significa foce: la foce del fiume Tevere. La statua di bronzo della lupa[1] che allatta i mitici gemelli Oriolo e Remo, è etrusca; anche il fascio, simbolo del potere romano che diventerà il simbolo del fascismo è etrusco. Gli Etruschi fondavano le città, dove c’erano altre popolazioni che dominavano, nello stesso modo hanno fondato Roma. Un vicus Tuscus, che, come eloquentemente indica il nome alludeva alla presenza di una zona “etrusca” nel corpo urbano di Roma, esisteva del resto sul lato sud-occidentale della piazza del futuro Foro, tra il Campidoglio e il Palatino, a poca distanza dall'area sacra di Sant’Omobono. Virgilio, con l’Eneide volle riallacciare l’origine de Romani a quella dei Troiani e dei Pelasgi cioè agli Etruschi di cui i riti religiosi romani erano intrisi. I Romani, non vollero mai ammettere di essere stati governati dagli Etruschi i loro acerrimi nemici, per tanto descrivono Etruschi solo gli ultimi re.
Il mito narra che Romolo era figlio di padre divino e di madre terrena, allattato da una lupa. Chi si cela dietro il nome di Romolo?
- Il rito della fondazione eseguito da Romolo il primo re di Roma, cioè il tracciamento, del solco primigenio della città è un rito misterico etrusco.
- Numa Pompilio secondo Re di Roma, descritto come un Sabino per il nome Pompilio era probabilmente Etrusco in quanto come Sommo Pontefice inserì nella nuova nazione la sapienza degli antenati Pelagici e come si vedrà in seguito introducendo i segreti riti kabirici.
- Tullo Ostilio fu il terzo re di Roma. Hostis significa ostile, fu un re guerriero. Tullio non era romano e proveniva dalla gens Hostilia e la tribù dei Luceres, cioè degli etruschi. Gli Etruschi erano ottimi guerrieri.
- Anco Marzio (Marcio) fu il quarto re di Roma descritto di origine sabina, ma era il nipote di Numa.
- Servio Tullio fu il quinto re di Roma. Il carattere distintivo del suo regno fu il tentativo di fondere nativi ed etruschi, fece costruire sull'Aventino un tempio dedicato a Diana - Artemis. Servio Tullio fece sposare le sue due figlie con i figli di Tarquinio Prisco. Il maggiore Lucio Tarquinio detto poi Tarquinio il Superbo.
- Tarquinio Prisco di padre greco e di madre etrusca, venne in cerca di fortuna perché a Tarquinia chi non era completamente etrusco veniva limitato nei suoi diritti. E Tarquinio divenne il sesto re di Roma, come prima lo erano stati cittadini di origine latina e sabina.
- Tarquinio il Superbo anch’esso etrusco divenne il settimo re di Roma.
Anco Marzio sarebbe soltanto un duplicato di Numa, come si potrebbe dedurre dal suo secondo nome, Numa Marzio, dal confidente e pontefice di Numa, non essendo nient’altro che Numa Pompilio stesso, rappresentato come sacerdote. L’identificazione con Anco è indicata dalla leggenda che indica quest'ultimo come costruttore di un ponte (pontifex), il costruttore del primo ponte di legno sopra il Tevere. È nell'esercizio delle sue funzioni sacerdotali che la somiglianza è mostrata più chiaramente.
Secondo l’imperatore Claudio[2], Servio Tullio, con il nome di Macstarna, avrebbe avuto un ruolo importante nella storia di Vulci, città etrusca. Amico di Celio e Aulo Vibenna, signori etruschi di Vulci, avrebbe combattuto al loro fianco senza fortuna. Con i resti dell'esercito si sarebbe posto al servizio di Tarquinio, che per ricompensa gli avrebbe permesso di abitare con i suoi compagni sulla collina a cui diede il nome di Celio, in onore del suo capo. Macstarna è che tradisce l’origine etrusca, deriva da magister e significherebbe qualcosa di analogo a “il condottiero”. Il termine servus, non di origine indoeuropea e forse etrusco, significava straniero senza diritti, apolide. In sostanza il sesto re di Roma sarebbe stato conosciuto con un nome etrusco a Roma ed uno latino in Etruria.
La storia di Macstarna risaliva alle saghe etrusche, come dimostrano gli affreschi della Tomba François nella necropoli di Ponte Rotto a Vulci (340-330 a.C.), appartenente alla famiglia aristocratica dei Saties. n questi affreschi vi sono sia scene riferibili al mito della conquista di Troia.
Servio Tullio fece costruire sull’Aventino un tempio dedicato a Diana, o Artemis, fu un atto sia religioso e sia politico perché mirava a riunire politicamente e religiosamente Roma, il Lazio e l'Etruria meridionale, a somiglianza del sistema federale etrusco dei Dodici Popoli. Artemis era venerata in uno dei santuari più nascosti fra le foreste vergini dell’antichità: la Diana del Lago di Nemi. Era mistericamente “La Dama dei Cigni” cioè delle cicogne pelasgiche, i discendenti di Dardano. Nel Bosco Sacro di Nemi veniva praticata una doppia iniziazione, sacerdotale e guerriera. Fanum Voltumnae, il Bosco Sacro, era la zona sacra consacrata al dio Veltha (Vulcano), cuore geografico e spirituale dell'Etruria e centro di riunione dei massimi capi etruschi, i Lucumoni.
Gli studiosi sono concordi nell’attribuire al primo dei Tarquini l’istituzione dei simboli della regalità Romana. (l’aquila, la corona, la veste di porpora, la sedia curule). Regnante ancora Anco Marzio, Tarquinio, il Prisco, si trasferì in Roma con i suoi servi e la sua famiglia. Arrivato ai confini della città, esattamente sul mitico colle di Giano, si verificò un portento: un’aquila apparve nel cielo e con le grandi ali prese a librarsi al di sopra del futuro re, poi improvvisamente discese fino a Tarquinio e, veloce come un fulmine, afferrò il suo pilleus, lo tenne per un attimo stretto tra gli artigli, quindi glielo rimise sul capo. I presenti restarono sgomenti ed impauriti, ma Thanaquil, moglie di Tarquinio, sorrise: ella spiegò che quello era il segno di un’incoronazione sacra.
Secondo lo scrittore Macrobio il re Lucio Tarquinio Prisco (Primo), fu iniziato ai Misteri di Samotracia e portò in Roma il culto di Cibele. Nell’isola egea di Samotracia la dea aveva un suo santuario, celebre in tutto il mondo antico. Là venne iniziata la famiglia reale macedone, Alessandro Magno, il padre Filippo e la madre Olimpia, là si recavano per esse re iniziati uomini e donne provenienti dalle più lontane terre. Lucio era l’abbreviativo di Lucumone in lingua etrusca, Lucumone significa re: un nome che non si addice al figlio emarginato di un mercante greco esule a Tarquinia. La tradizione romana e, soprattutto, la versione di Tito Livio, che attribuisce a Prisco un padre greco e di madre nobile etrusca, sembra dunque viziata.
Ai Tarquini è dovuto l’avvento di moltissimi elementi culturali Tirrenici, a partire dalla sacra Triade. A conferma di ciò Vitruvio scrive che i templi a tre celle, dedicati a Giove, Giunone e Minerva, erano propri alla sfera religiosa del mondo Etrusco. Furono i re Etruschi a volere il tempio grandioso della Triade, commissionando a Vulca, il più famoso coroplasta d’Etruria, la Quadriga (divenuta poi una dei sette pignora) che ornava l’acroterio e la statua in terracotta policroma del dio. Tra le divinità di origine Tyrrenica spiccano gli enigmatici Dèi Consenti, che Varrone identifica con i Penati.
Con i re Tarquini giunsero in Roma anche i Ludi Scenici ed Equestri, e per questi ultimi Tarquinio fece sistemare ed ampliare il Circo Massimo ed istituì i Ludi Maximi, che ai nostri occhi sembrano essere solamente semplici anche se grandiosi spettacoli, ma che per i Romani avevano un risvolto sacrale e magico. Ricordiamo per inciso l’importanza giochi rituali nell’Iliade e nell’Eneide.
I Ludi Taurii (giochi taurini, anche noti come Ludi Taurei e più raramente Taurilia) si tenevano in onore degli dèi inferi, gli dei del mondo dei morti. Nella tradizione registrata da Festo, i giochi furono istituiti nel periodo regio, quando Tarquinio il Superbo era re. Anche Servio colloca la loro origine sotto il suo regno. Questi giochi non facevano parte di una festa religiosa regolarmente programmata nel calendario, ma si tenevano come riti espiatori religionis causa, provocati cioè da preoccupazioni religiose.
Secondo una tradizione, Tarquinio il Superbo fu cacciato dai Romani e chiese aiuto al lucumone di Chiusi, Porsenna, che venne però sconfitto dagli eroi Orazio Coclite e Muzio Scevola. Secondo il racconto di Tacito invece fu lo stesso Porsenna invece a cacciare l’ultimo re e a imporre ai Romani gravose condizioni di pace. Da allora i Romani presero in odio la monarchia e cominciò a prendere corpo l’ordinamento repubblicano. La fine della mitica monarchia fu dunque opera di un grande Re e condottiero etrusco, Porsenna.
Tutto lascia pensare che il numero sette dei primi Re sia stato creato con la nascita del mito di Roma, per mascherare o nascondere secondo altri le origini etrusche di Roma.
Alla fine del I sec a.C. l’Aruspice Tarquizio Prisco, della famiglia dei Tarchna di Caere, e Aulo Cecina, tradusse dall’Etrusco al Latino parecchi di questi scritti sacri. Di essi vengono particolarmente menzionati gli Ostentoria, tratti dai Libri Fatales, dai quali J. Heurgon ritiene che Virgilio abbia ricavato le nozioni su cui si basano le profezie della IV Egloga. Quando poi Roma si avviava a diventare la padrona del mondo, Augusto volle che questi testi fossero custoditi nel tempio di Apollo Aziaco sul Palatino. Purtroppo, sia i libri dell’Etrusca disciplina come i Libri Vegonici furono fatti distruggere da Teodosio e Onorio. E molti secoli dopo, e siamo già nel IV sec d. C., Macrobio inserisce nei Saturnalia due brani presi l’uno dalla traduzione di Tarquizio Prisco degli Ostentoria e l’altra dal trattato Sui prodigi degli alberi, sempre tradotto da Tarquizio.
Al tempo dei Tarquini, in occasione della costruzione del tempio di Giove Capitolino, il sacello di Terminus, dio dei confini, non solo non fu rimosso ma addirittura fu inglobato in quello di Giove. E’ chiaro che qui ci si trova al cospetto della concezione cosmogonica degli Etruschi, dove Giove vi appare come dio creatore e protettore dei ”termini”, per cui Terminus si configura come uno degli aspetti di Giove medesimo.
A Roma la corporazione dei fabbri, rappresentata da quei Collegia Fabrorum che erano preposti alle iniziazioni relative alle arti e ai mestieri, controllava in modo più o meno diretto, la lavorazione e la produzione di armi e delle monete. I numi protettori dei Collegia Fabrorum erano Minerva e Vulcano. L’antico nome di Minerva, dall'etrusco Minerua o Menerva è etimologicamente in relazione con i “minerali”. La stessa parola «mens» (dalla radice sanscrita men) rivela un altro importante simbolismo associato a questa Dea, la “Sapienza”.
Associato a Minerva era il dio Vulcano, il greco Efesto, l'etrusco Velchan, dio-fabbro zoppo, la cui fucina era in un vulcano,considerato protettore di artigiani, ed in particolare dei fabbri.
[1] Questo animale era sacro a diverse divinità, tra cui lo stesso Marte, padre di Romolo e Remo. Sul Palatino lo ritroviamo insieme al capro, simbolo del dio Fauno, in una associazione mistertica, il Lupercus.
[2] Claudio affascinato dagli Etruschi ed avendo, fra l’altro, sposato una nobile etrusca, sicuramente aveva avuto accesso all’archivio di qualche famiglia etrusca, scrisse i Tirrenika in venti volumi, spariti nel nulla. Stessa sorte subirono gli Annuali Etruschi custoditi nel Tabularium Capitolinum, che narravano la vera origine dei Romani, i Libri Etruschi e i Tusci libelli, conservandosi soltanto qualche frammento negli autori latini. Claudio nel 15 d.C. sposò in prime nozze una donna di origini etrusche, Plautia Urgulanilla (8 a.C. - dopo 28 d.C.), da lui ripudiata pochi anni prima di diventare imperatore. La nonna paterna Urgulanilla era discendente dalla gens etrusca Urgulania; anche sua madre Lartia era di origini etrusche.
NUMA POMPILIO
Si ritiene che Numa Pompilio non sia esistito, o che era un Sabino, ma tutto quello che la tradizione afferma che fece e istituì era misterico ed etrusco. Il nome “Sabini” è stato attribuito a questo popolo dai Romani, mentre gli stessi si chiamavano “Numani” ad indicare la discendenza dal dio NU. Il territorio di Nemi fu celebre al tempo dei Romani per il tempio dedicato a Diana (Artemis) Nemorense. Nemesis è la dea della giusta punizione, e nomos è la legge, il giudice esecutore è nemesis, ovviamente. Numa era re sacerdote e legislatore. La figura di Nemesi è stata paragonata anche a quella forma d’apparizione di Artemis che era venerata in uno dei santuari più nascosti fra le foreste vergini dell’antichità: la Diana del Lago di Nemi.
In età romana venne consacrato a Diana un nuovo tempio sulla collina di Ariccia, anche dedicato al semidio Virbio e alla ninfa Egeria. Quest’ultima era consigliera, ispiratrice e sposa del secondo re e sacerdote di Roma, Numa Pompilio, e si narra che alla morte di lui si sciogliesse in lacrime nel bosco di Ariccia, finché Diana, impietosita dal suo dolore, la trasformò in una fonte.
Numa Pompilio proveniva dalla Sabinia. Uno dei culti più misteriosi del pantheon romano veniva celebrato in Sabinia sul Monte Soratte o Pater Soranus. Sulle pendici orientali del monte si aprivano dei pozzi profondi da cui ancora oggi fuoriescono consistenti nebbie di condensazione che già molti autori romani come Servio descrivevano come vapori propri del culto di Apollo ctonio Sorano. Augusto affidò a Virgilio la sua inclusione nel pantheon romano attraverso la citazione nell'Eneide; l’episodio è quello di Camilla, eroina volsca che viene uccisa dal guerriero etrusco Arunte. Il giovane guerriero si rivolge al Pater Soranus perché lo protegga nella missione difficile di uccidere Camilla.
Nell’antichità, sulle creste di quel monte, un misterioso collegio sacerdotale tramandava riti antichissimi. Erano gli Hirpi Sorani, i Lupi di Sorano, il dio italico che assumeva i tratti apparentemente paradossali di un Apollo ctonio. Come nel caso dei Luperci romani, gli Hirpi Sorani formavano un sodalizio di uomini preposti all’esecuzione di riti purificatori con il fuoco. Il rito degli Hirpi Sorani è stato descritto anche da Varrone che spiega come i sacerdoti riuscivano a farlo dopo essersi sfregati sulla pianta dei piedi “una droga che impediva l’azione del fuoco” anche se poi li descrive come “coloro che sono posseduti da una divinità”.
Gli studi etimologici sembrano poi confermare che il termine “sorani” era proprio usato per designare dei sacerdoti in quanto il termine deriverebbe dalla lingua falisca e sorex sarebbe un titolo sacerdotale che è stato anche individuato nell'iscrizione del lapis niger del Foro Romano … quoi sakros esko sora, riconosciuto come un testo religioso.
La nascita di Numa era avvenuta esattamente nel giorno della fondazione di Roma, particolare questo in cui i Romani vedevano un segno indecifrabile della volontà degli Dèi. Numa fu eletto re quanto aveva 40 anni, un’età misterica. Mosè il Legislatore per 40 anni (nascita compresa!) è stato re nella terra dei mori, 40 anni è stato con Jethro il Sacerdote madianita, 40 anni è stato nel deserto. Mosè va sul monte di Dio e vi dimora per 40 giorni e notti. Regnò per 43 anni. Il numero 43 è il 14° numero primo, Numa scrisse 7+7 libri conservati in un secondo sarcofago accanto al suo. Il Numero 43, scomposto dai numeri 4 e 3 simboleggia, il quadrato (4), e il triangolo (3), la somma dei due è sette (7). A Numa si ascrive pure la costruzione del santuario di Vesta, dov’è custodito il fuoco perenne. Questo edificio a forma circolare riproduce non la figura della terra, con cui è identificata Vesta, ma di tutto l’Universo, nel cui centro i Pitagorici pongono la sede del fuoco, che chiamano Vesta e Unità. Ecco perché Numa era definito l’amico di Pitagora. Pitagora prescriveva una prostrazione ed una posizione circolare durante le ore di contemplazione; Numa si adoperò per diffondere questa usanza nel popolo Romano. Gli stessi sacrifici – ci tramanda Plutarco – risentono in pieno delle forme di culto pitagoriche. In genere non comportavano spargimento di sangue; erano fatti mediante farina (pane), vino, latte, e altri generi di costo minimo, inoltre il Re Numa chiamò uno dei suoi quattro figli Mamerco come il figlio di Pitagora.
Numa dopo la sua elezione come per gli Etruschi continuò comunque a frequentare boschi sacri, e luoghi di devozione, spesso di notte. La Ninfa viveva in una grotta nascosta e occultata alla vista da un impraticabile sentiero nel mezzo di un boschetto ai piedi del Celio. La leggenda narra che in questo bosco sacro Numa incontrasse la Ninfa Egeria che si innamorò di lui e divenne sua sposa celeste (cioè la Sapienza Segreta , Divina), con la quale s’incontrava di nascosto la Sapienza misterica era comunicata da bocca a orecchio. La leggenda narra che la ninfa, al momento del trapasso del Re, distrutta dal dolore, si sciolse in lacrime dando vita alla fonte Egeria, nel bosco di Aricia, sui Monti Albani. Numa Pompilio preso i romani stessi, sia per il suo dialogo con la ninfa Egeria, sia per il suo stile di vita, veniva considerato possessore di poteri magici.
Figura 1. Numa e la Ninfa Egeria Museo Archeologia Roma
Narra la leggenda che Numa Pompilio fosse stato partorito nel tempio di Cerere. Fa pensare a un culto dove la Dea era la Magna Mater che dava la luce, o Dea Lucina. Egli instaurò per ispirazione della Ninfa Egeria il culto di Tacita, Dea del silenzio iniziatico, equiparata ad Iside, colei che richiede il silenzio nei Sacri Misteri.
Appena divenuto re nominò, a fianco del sacerdote dedito al culto di Giove ed a quello dedicato al culto di Marte, un terzo sacerdote dedicato al culto del dio Quirino. Il nome Quirino, deriva da Curia (lancia) e corrisponde proprio al Marte. Riunì poi questi tre sacerdoti in un unico collegio sacerdotale che fu detto dei Flamini cui diede precise regole ed istruzioni.
Istituì il collegio sacerdotale dei Pontefici, presieduti dal Pontefice Massimo, carica che Numa ricoprì per primo e che aveva il compito di vigilare sulle Vestali su cui era capo, e sulla moralità pubblica e privata e sull’applicazione di tutte le prescrizioni di carattere sacro.
A Numa come a Romolo si attribuiscono la consacrazione delle sacerdotesse a Vesta e la venerazione del Fuoco Sacro come principio divino, affidato alla custodia delle sacerdotesse che presero così il nome di Vestali, secondo il culto che Enea avrebbe portato da Troia in Italia, chiamato di Vesta Iliaca, culto antichissimo conosciuto dai Patriarchi. Enea con i pochi sopravvissuti lasciò Troia e dopo l’avventurosa traversata approdò nella feconda “Terra Nera“, la “Terra di Saturno“, Saturnia Tellus come la chiama Virgilio, l’Italia, per fondare le basi di un nuovo centro di manifestazione della luce. Numa dunque, istituì poi il collegio delle vergini Vestali assegnando a queste la cura del tempio in cui era custodito il fuoco sacro della città; le prime furono Gegania, Verenia, Canuleia e Tarpeia (erano dunque quattro, Anco Marzio ne aggiunse altre due portandole a sei).
Numa, il re filosofo, fu iniziato dai sacerdoti etruschi, ed istruito da loro nel segreto di far scendere sulla terra il fulmine, vedi Ovidio, Fasti, I, cap.31. Durante l’ottavo anno del regno, Numa aveva concentrato tutta la devozione sua e del popolo in solenni rituali volti ad allontanare la brutta pestilenza che affliggeva Roma, provocata dai fulmini scagliati da Giove adirato. Numa consultò Egeria e questa gli consigliò di rivolgersi a Pico e Fauno, personaggi della più antica mitologia italica. Questi numi silvestri dalla natura selvatica e poco socievole avrebbero aiutato il re solo se costretti con la forza. Astutamente Numa li attirò con offerte di vino per catturarli addormentati dopo le libagioni e li costrinse a recitare un rituale misterioso (carmina?) che aveva l’arcano potere di far scendere sulla terra le folgori di Giove. Cosa e chi rappresentano Pico e Fauno? Virgilio nell’Eneide ci dice che Fauno è un antico re del Lazio, nipote di Saturno o di Marte, figlio di Pico e Canente o Pomona e, padre di Latino. Secondo dei miti romani, ripresi poi nell'Eneide da Virgilio, Fauno era lo sposo di Marica, divinità delle acque, dalla quale ebbe Latino.
- Pico, figlio di Saturno, primo dei Re Latini, nominati Aborigeni, regnò 37 anni e fondò Albalonga e fondò la città di Laurentum.
- Fauno, suo figlio, regna 44 anni.
- Latino, suo figlio, regna 34 anni.
- Enea, figlio di Venere, con i Troiani sposa Lavinia figlia del Re Latino, al quale succede, regna circa 3 anni.
Pico (Picus) narrano Virgilio e Ovidio, che un giorno, andando a caccia sul monte Circeo, fu scorto dalla maga Circe che se ne innamorò. Avendo rifiutato l’amore di Circe, fu da questa trasformato in un picchio verde, animale sacro al dio Marte. Virgilio descrive il tempio del Dio Mamerte che si trovava in alto su una rocca e che era stato la dimora del Re Pico, qui si riuniva la curia ed i patres vi tenevano i banchetti solenni dopo le cerimonie:
Nel vestibolo in ordine disposte stavan l'effigie degli antichi padri scolpite in cedro: Italo, Sabino (primo cultore della lente vite con la ricurva ronca sotto il busto); ed il vecchio Saturno e il simulacro del Dio bifronte (Giano) e gli altri re aborigeni che per la patria, in guerra, combattendo soffersero ferite. Ai sacri stipiti erano appese l'armi prese in guerra; asce ricurve, cocchi, creste d'elmi, gran serrami di porte, giavellotti, e scudi e rostri svelti alle carene. Col quirinale lituo ivi sedeva, di corta trabea mantellato, Fico, domator di cavalli, e il curvo ancile con la manca reggeva (Eneide Lib. VII – Trad. Adriano Bacchielli)
Fauno (Faunus) era il dio dei pascoli e dell’agricoltura, contrapposto al dio dei boschi, Silvano. Era anche chiamato "Luperco". Si tratta di una delle più antiche divinità italiche, nonché dell'istitutore dei Salii e dei Luperci, le due solidalitates dedicate al culto iniziatico di Marte.
Nell’ottavo anno del suo regno istituì il collegio dei Salii, che secondo sia Plutarco che Livio furono istituiti per custodire l’Ancilia, lo scudo caduto dal cielo inviato da Marte. L’origine di questi sacerdoti non è sicuramente romana, è molto probabile che sacerdoti simili esistessero già presso gli Etruschi. Una prova è il ritrovamento in una necropoli di Veio (necropoli dei 4 fontanili, tomba AA1, VIII sec. a.c.) di un corredo con uno scudo bilobato e una mazza, questi strumenti che si ipotizza appartenessero ad un re connotato per il suo valore nelle istituzioni religiose, sono molto simili agli strumenti utilizzati dai sacerdoti salii. L’origine di questa tradizione oltre ad essere etrusca è molto antica.
"Chi mi racconterà perché i Salii portano le armi divine di Marte e cantano di Mercurio? Dimmi, o ninfa, chi si aggira nel bosco e nel lago di Diana: tu, o ninfa, coniuge di Numa,raccontami le tue azioni! Nella valle di Ariccia è un lago circondato da una selva oscura, sacro per un'antica religione. Qui giace Ippolito fatto a pezzi degli zoccoli dei suoi stessi cavalli; per questo in quel bosco è loro interdetto l'accesso. Il lungo recinto è adornato con drappi appesi e molte tavole attestano i meriti della dea. Spesso donne i cui voti sono stati esauditi portano da Roma torce accese, con ghirlande fra i capelli. Il potere è tenuto da chi è forte di mano e veloce di piede, e ciascuno muore così come ha ucciso."[1]
Il Re-Jerofante Numa istituì il collegio dei Salii di Mars Gradivus, mentre il guerriero e impulsivo Tullo Ostilio, in piena guerra promise di istituire un secondo collegio dei Salii di Mars Tranquillus, se sarà vincitore dei Sabini.
Fra le molte istituzioni religiose attribuite a re Numa Pompilio, Plutarco ricorda ancora quella dei Feziali. I Feziali erano dei magistrati - sacerdoti la cui funzione era quella di trattare con i popoli vicini per evitare la guerra, nonché di aprire le ostilità quando vedevano falliti i propri tentativi di conciliazione. Si credeva che una guerra iniziata senza il consenso dei Feziali o contro la loro volontà sarebbe stata nefasta ed ingiusta.
A Numa non è ascritta alcuna guerra, bensì una serie di riforme tese a consolidare le istituzioni della nuova città, prime tra tutte quelle religiose, raccolte per iscritto nei commentarii Numae o libri Numae, che andarono perduti nel sacco gallico di Roma (387 a. C.).
Figura 2. Moneta raffigurante Numa
A Giano Numa dedica il tempio delle “Porte della guerra” che veniva chiuso solo in tempo di pace. Sotto Numa Pompilio le porte di Giano rimasero chiuse ininterrottamente per tutti i 43 anni del suo regno. Le porte, dopo Numa Pompilio, furono chiuse solo due volte, nel 235 a.c. durante il consolato di Attilio Bulbo e di Tito Manlio Torquato e durante l’impero di Augusto.
La tradizione romana rimanda a Numa Pompilio la definizione dei confini tra le proprietà dei privati, e tra queste e la proprietà pubblica indivisa, statuizione che fu sacralizzata con la dedica dei confini a Jupiter Terminalis, e l'istituzione della festività dei Terminalia.
Etrusco era anche il concetto di sacralizzazione dei confini, e ce ne dà testimonianza un brano, giunto fino a noi ai tempi di Cicerone:
Sappi che il mare è stato separato dal cielo quando Giove rivendicò la terra di Etruria e stabilì che le pianure e i campi fossero limitati e misurati. Conoscendo l’avarizia umana e la passione suscitata in loro dalla terra, volle che tutto fosse definito dai segni dei confini. Questi segni, quando sul finire dell’ottavo secolo verranno da qualcuno rimossi, per questo delitto sarà condannato dagli Dèi. Se sono schiavi, cadranno in servitù peggiore, se padroni, la loro casa sarà abbattuta e la loro stirpe perirà per intero. Coloro che avranno spostato i segni (dei confini) saranno colpiti dalle peggiori malattie, la terra sarà poi scossa da tempeste, i raccolti distrutti. Sappi che queste punizioni avranno luogo quando tali delitti si verificheranno.
Contrariamente al costume locale che era quello di bruciare il cadavere su una pira, il corpo di Numa Pompilio fu sepolto in una tomba sul Gianicolo; due i sarcofagi nel secondo furono depositati i libri, scritti di suo pugno, con cui dava istruzioni ai futuri Pontefici. Tito Livio spiega che, quando alcuni contadini stavano scavando ai piedi del Gianicolo, trovarono i due sarcofagi di pietra con iscrizioni in greco e latino, secondo i quali Numa Pompilio fu sepolto lì con i suoi libri; che una volta si aprì, si scoprì che il corpo era vuoto, ma che l'altro conteneva quattordici libri; sette in latino di diritto pontificale e sette in greco di filosofia, cioè amore per Sophia la Sapienza segreta. Secondo lo stesso autore, il pretore li ha letti e, ritenendoli pericolosi, probabilmente a causa della continua preferenza di Numa Pompilio per la pace e il progresso, che contraddiceva così la tradizione, pensava che avrebbero dovuto essere bruciati. Il caso raggiunse il Senato, il quale confermò l'opinione del pretore, e i primi furono conservati con cura, mentre i secondi furono pubblicamente bruciati. Per contro, Dionigi di Alicarnasso, assicura che il Pontefice Massimo li nascose in un luogo segreto.
Dionisio di Alicarnasso in Antichità Romaniche (II, 66, 6) c’informa sull’obbligo del segreto nei confronti di certi riti su cui vigeva l’assoluto divieto di tramandarli per iscritto. Il sacro timore della rivelazione, che si accompagna alle dee arcaiche del silenzio Tacita Muta e Angerona, è stato alla base anche della separazione all’interno del ricco pantheon romano tra Dèi Consentes (Dodici Dèi di origine etrusca, citati da Quinto Ennio nel suo poema “Annales”) e Dèi dal nome impronunciabile persino dai sacerdoti Salii, dediti al culto del dio Marte, i cosiddetti Dèi involuti (ignoti), di cui non si conoscevano nomi e numero. I riti misterici erano contraddistinti da elementi comuni, il più importante dei quali era la segretezza: l'accesso era vincolato a una cerimonia di iniziazione, rito indispensabile alla piena partecipazione al culto.
Come per i vicini Etruschi, la società dei Romani era così saldamente focalizzata intorno alle pratiche sacre, che gli stessi nomi delle divinità da noi conosciute, probabilmente non furono che epiteti, nomi formali, buoni per il pratico uso quotidiano, ma diversi dai veri nomi divini, che mai dovevano essere pronunciati, se non nei riti e solo dai sacerdoti che ne affidavano il culto. I nomi degli Dèi come per tutte le religioni misteriche, molto verosimilmente non furono che epiteti e non i nomi impronunciabili e sacri.
Tito Livio a proposito delle guerre sannitiche narra di giuramenti terribili imposti ai nobili ed ai guerrieri illustri, cooptazione, armi splendide, abito bianco; è veramente, secondo l'espressione dello storico, una sacrata nobilitas che trascina l’esercito al combattimento. Georges Dumézil scrive che a Roma dei Cesari gli ultimi rappresentanti di queste truppe eroiche e magiche forse esistono, ma non combattono: potrebbero essere i due gruppi di sacerdoti Salii, di Marte e Quirino.
In un momento decisivo in cui si disputava la supremazia nel Lazio tra i Romani ed i Prischi Latini, nel luogo dove si sarebbero celebrati i Ludi Taurii, l’esercito di Roma era sul punto di scontrarsi con quello dei popoli Albani. A quei tempi la zona era un deserto paludoso, ricco di sorgenti calde, dalle quali si sollevavano vapori sulfurei. E proprio lì avvenne il prodigio: ai Romani che erano già pronti a dare battaglia apparve un essere imponente, vestito di una pelle scura, il quale comandò loro di sacrificare agli Dèi inferi o sotterranei. Subito fu scavata una fossa, entro la quale venne eretto e consacrato un altare a Proserpina e Dite. Compiuto il sacrificio, la buca fu chiusa con uno spesso strato di terra. Chiaramente si trattava di un mundus.
Le arti rituali e magiche dei sacerdoti erano reputate capaci di ergersi a protezione delle città e dei suoi abitanti. Minerva fu anche considerata protettrice della città di Roma ed il Palladio, una misteriosa pietra, forse di origine meteoritica, era il simbolo sacro del potere minerviano, il massimo talismano magico a difesa del destino della città eterna e del suo popolo. Nella provenienza troiana del Palladio e nella sua istallazione sul colle Palatino, si deve individuare il passaggio del potere e del primato civilizzatore che, iniziatosi in Asia Minore, proseguito in Atene, trovò il suo culmine in Roma.
Secondo la leggenda, Troia non sarebbe mai caduta finché il Palladio fosse rimasto dentro le sue mura. Allo stesso l’urbe non sarebbe caduta finché il Palladio portato in Italia da Enea sarebbe rimasto in Roma. Il talismano si trovava nel tempio di Vesta - l’Esta Iliaca - dove fu istituito quel culto vestalico che veniva officiato dal Pontifex Maximus, cioè dalla più alta carica della casta sacerdotale. Il Palladio era uno dei sette talismani magici nell’antica Roma noti come pignus/pignora, cioè pegni.
La Magia è vecchia quanto l’uomo, non la si può più qualificare come ciarlataneria o allucinazione. La Magia è indissolubilmente fusa con la Religione di ogni paese e ne è inseparabile fin dalle origini. La magia è costituita ed acquisita attraverso il culto degli dèi, disse Platone. Frazier, nel suo Ramo d'Oro, dedica alcuni capitoli iniziali (pag. 32 e segg.) alla Magia, dividendola in Teoretica (Magia come pseudo-scienza) e Pratica (Magia come pseudo-arte). La Pratica egli divide ulteriormente in Magia positiva (sortilegio) e Magia negativa (tabù), definendo la prima come "produzione di un evento desiderato" e la seconda come "evitare un evento indesiderato". Ed ancora più sorprendente è il parallelo che egli stabilisce fra magia e scienza. La magia, afferma Frazier, nella sua forma più pura e genuina, parte dal presupposto che in natura ad un evento ne segue necessariamente ed invariabilmente un altro, senza alcun intervento soprannaturale o individuale. La scienza, da parte sua presuppone una successione perfettamente regolare e certa degli eventi, determinata da leggi immutabili, la cui azione è prevedibile e calcolabile con precisione. Esiste, quindi, una stretta analogia fra le concezioni magiche e quelle scientifiche del mondo.
Che la magia fosse naturale e non soprannaturale, e che gli antichi la considerassero tale, è dimostrato da quello che afferma Luciano del “filosofo ridente”, Democrito, che, egli dice ai suoi lettori:
Non credeva in nessun [miracolo] ... ma si applicò a scoprire il metodo con cui i teurgi erano in grado di produrli; in una parola, la sua filosofia lo portò alla conclusione che la magia era limitata all’applicazione e all’imitazione delle leggi e delle opere della natura.
Democrito i Magi lasciati da Serse ad Abdera erano stati i suoi istruttori ed egli, inoltre, aveva studiato magia per un tempo considerevolmente lungo, presso i sacerdoti egizi2.
Luciano in “De dea Syria” (Peri tês Suriês Theou), descrivendo il tempio di Hierapolis, di “Dèi che manifestano la loro presenza liberamente”. Inoltre scrisse che una volta viaggiò con un sacerdote di Memphis, che gli raccontò che aveva trascorso ventitré anni nelle cripte sotterranee del suo tempio, ricevendo istruzioni di Magia dalla stessa Dea Iside. Il passaggio che concerne il sacerdote di Memphis si trova nel “Philopseudes” di Luciano, dove egli viene descritto come uno dei sacri scribi di Memphis, molto versato in tutta la sapienza degli egiziani.
I Romani considerarono sempre il rapporto con il mondo divino essenzialmente come un contratto: il singolo individuo, o un gruppo familiare o sociale, o se vogliamo l’intera comunità, prestavano agli dèi il culto dovuto ma si aspettavano in cambio, e a volte quasi pretendevano, il soddisfacimento delle loro invocazioni. La richiesta, doveva avvenire con un preciso formulario e con riti e sacrifici compiuti secondo un preciso e minuzioso rituale rimasto invariato attraverso i secoli. Nell’antica Roma si praticavano sia cerimonie magiche private, e sia riti teurgici pubblici difensivi e offensivi dell’Urbe.
[1] Ovidio Fasti III, 262-272.
[2] Diog. Laerzio, Vite, etc., “Democritus”, 34, 35.
LE SETTE COSE FATALI DI ROMA
Servio Mario Onorato commentando il Libro VII dell’Eneide, l’origine dell’Ancile caduto dal cielo e della creazione di undici copie identiche da parte del fabbro Mamurio, ci rivela che vi erano custodite a Roma Sette cose fatali, dei talismani, delle garanzie, dalla cui conservazione dipendeva il destino della città. Il commento di Servio all’Eneide è un richiamo a riti, culti, divinità, risalenti ad antichissime ascendenze etrusche poi filtrate nella romanità. Le reliquie fatali erano denominate pignus/pignora, cioè pegni, garanti, ossia assolvevano la funzione di talismani e nell’antica Roma erano i protettori dell’impero, garantivano la sua continuità, il potere e la sua stabile conservazione, nonché l’invincibilità. Il termine pignora conduce all’idea di contratto, alla garanzia riguardo alla protezione di Roma fino a quando essi fossero rimasti custoditi all’interno della città. Sette pignora, sette colli, su cui fu edificata Roma.
Succinctus trabea toga est augurum de cocco et purpura. ancile scutum breve. regnante Numa caelo huius modi scutum lapsum est, et data responsa sunt, illic fore summam imperii, ubi illud esset. quod ne aliquando hostis agnosceret, per Mamurium fabrum multa similia fecerunt: cui et diem consecrarunt, quo pellem virgis feriunt ad artis similitudinem. dicimus autem 'hoc ancile' et 'haec ancilia', anciliorum' vero usurpavit Horatius dicens “anciliorum et nominis et togae oblitus”
“Septem fuerunt pignora, quae Imperium Romanum tenent: Acus Matris Deum, Quadriga fictilis Veientanarum, Cineres Orestis, Sceptrum Priami, Velum Ilionae, Palladium, Ancilia”.[1]
«Ci furono sette garanzie a tenere il potere a Roma: l’Ago della Madre degli Dèi, la Quadriga di argilla dei Veienti, le ceneri di Oreste, lo scettro di Priamo, il Velo di Iliona, il Palladio, gli Ancilia»
Servio Mario Onorato (IV-V sec d.C.) fu maestro di grammatica a Roma, famoso interprete di Virgilio, di cui scrisse un prezioso commento giuntoci in varî mss. dal IX sec. Questo contiene una Vita di Virgilio e il commento all'Eneide, alle Bucoliche e alle Georgiche, condotto con metodo scolastico, dominante nel commento è la presentazione di Virgilio come il "Savio" cioè l’Iniziato, per eccellenza. Nel IV e nel V secolo il grammaticus è un vero e proprio custode della sapienza antica.
Oltre a Servio, Silio Italico in P 1.659; cita i pignora e su uno di essi si sofferma Ovidio in F 3.373 ss. I Romani attraverso Enea ritenevano essere discendenti dei Troiani. Queste difese magiche richiamano alla mente le condizioni per le quali la loro madre Patria fu espugnata, nonostante protetta dalle invincibili mura costruite da Poseidone e Apollo. Era convinzione che Troia non avrebbe potuto essere espugnata se non si fossero verificati certi eventi fatali. Omero non si sofferma ad elencarli. Fu il celebre indovino Calcante a svelare ad Agamennone e agli altri condottieri greci, venuti a consultarlo sulle sorti di Troia, che Ilio non sarebbe stata espugnata se:
- Achille e suo figlio Neottolemo-Pirro non vi avessero partecipato;
- I Greci non si fossero impadroniti delle frecce di Ercole, che erano state lasciate in custodia a Filottete;
- Non si fosse rapito il Palladio, custodito nel tempio di Atena;
- Non si fosse portato a Troia l’osso di Pelope;
- Non si fossero asportate le ceneri di Laomedonte;
- Non si fosse evitato che i cavalli di Reso bevessero nelle acque dello Xanto[2].
Alla tradizione troiana appartenevano il Palladio, il velo di Iliona, figlia maggiore di Priamo, e lo scettro dello stesso Priamo, approdati nel Lazio al seguito di Enea, mentre l’Ago di Cibele era giunto a Roma da Pessinunte, in Frigia; l’Ancile originale era caduto dal cielo, la Quadriga etrusca creata a Veio, e le Ceneri di Oreste che erano state dissepolte nel bosco di Aricia.
Presso i Romani continuava ad essere vincolante il responso dell’oracolo troiano, in conformità del quale Roma, come Troia, avrebbe conservato la sua potenza, fintanto che il Palladio fosse rimasto nell’Urbe. Omero nell’Iliade narra che Enea è destinato da Zeus a garantire un futuro ai Troiani superstiti. Si comprende così il significato semantico e religioso attribuito nella tradizione romana ai pignora.
Perché i pignora imperii erano Sette? Roma fu fondata su sette colli il 21 aprile (3x7), i primi re di Roma furono sette; sette furono le corti dei vigiles che spegnevano gli incendi, quattordici (2x7) le regioni amministrative. Sette erano i magistrati (Septemviri) che amministravano le terre e sette gli Epulones (sacerdoti). Fra le festività ricordiamo il Septimatrus, e che si celebrava il settimo giorno dopo le Idi di marzo e sette i colossi di Roma, statue enormi che Marziale disse che erano così alte da toccare il cielo.
Era indispensabile che i pignora imperii non venissero sottratti dai nemici o profanati da mani empie, in quanto ciò avrebbe significato la rovina di Roma e del suo imperium. Infatti, il furto o la perdita di anche solo uno dei pignora avrebbe infranto le difese magiche dell’Urbe e il suo potere. Essi furono sempre custoditi con grande attenzione, pur attraversando occasionali vicissitudini. Solo dopo l’emanazione dei decreti teodosiani, sul finire del IV secolo, si persero le tracce di questi oggetti sacri, forse nascosti dagli ultimi sacerdoti pagani o distrutti dai cristiani. Con la loro scomparsa, tramontò per sempre anche la potenza di Roma.
[1] Maurus Servius Honoratus, in Vergilii carmina comentarii ad Aen., VII, 188.
[2] M. Baistrocchi, Arcana Urbis, p. 13 - 14.
L’AGO DELLA MADRE DEGLI DÈI
Il primo dei sette pignora elencati da Servio è l’Acus Matris Deum perché è stato elencato per primo, forse per la sua importanza? Tito Livio (Ab Urbe condita, XXIX, 10) racconta che alla fine del III secolo a.C. su Roma si era abbattuta più volte una pioggia di meteoriti, un fenomeno che aveva destato angoscia fra i Romani, peraltro già fortemente provati da una pesante crisi sociale aggravata dalla guerra contro Cartagine che sembrava mettere in pericolo la Repubblica. In tale frangente, gli Auguri consultarono i Libri Sibillini nei quali un’antica profezia così recitava: «Qualora un nemico straniero avesse portato la guerra in Italia si sarebbe potuto cacciarlo e vincere se la Madre Idea fosse stata portata da Pessinunte a Roma», insieme al suo simbolo più sacro, un enorme meteorite nero che si riteneva fosse caduto dal cielo.
Si narra che la Dea Madre era rappresentata dal più grande meteorite ferroso del mondo antico, un enorme oggetto conico dell’altezza di circa 5 metri e mezzo, adorato come il Simulacro di Cibele e del peso di numerose tonnellate. Oltre all’enorme meteorite la Dea aveva incastonata sulla fronte un più piccolo meteorite nero conico, forse la parola acum, ago era riferita al piccolo meteorite.
Fu così inviata in Mesopotamia una delegazione guidata da Publio Cornelio Scipione Nasica (ritenuto il migliore dei Romani). Dal re di Pergamo (Frigia), alleato di Roma. Il re Attalus inizialmente rifiutò l’offerta, la leggenda narra che un terremoto occorse nell’area nel periodo delle negoziazioni, accompagnato dalla voce di Cibele che imponeva l’inizio del suo viaggio: tutto ciò venne prontamente interpretato come un presagio. Publio Cornelio Scipione Nasica ottenne il simulacro di Baba-Kibele.
Il Simulacro di Cibele, il più grande meteorite nero ferroso del mondo ed un numeroso gruppo di sacerdoti ed attendenti partirono quindi dal complesso di templi originario e giunsero a Roma accolti da una grande festa di benvenuto nel 204 avanti Cristo, organizzata dal Senato Romano.
Ovidio nei Fasti narra che quando il simulacro arrivò alle foci del Tevere nei pressi di Ostia la nave che lo trasportava si arenò e fu poi disincagliata grazie all’invocazione alla Dea della vestale Claudia Quinta, ordalia che le permise di dimostrare la sua innocenza circa l’accusa di impudicizia che le era stata rivolta. Da qui l’appellativo di Navisalvia attribuito alla vestale, come risulta da un’iscrizione su un’ara dedicata alla Magna Mater e conservata nei Musei Capitolini a Roma. Le matrone accompagnarono il sacro talismano in una processione da Ostia a Roma dove fu inizialmente collocato nella casa di Scipione Nasica nel 204 a.C. e poi provvisoriamente nel tempio della Vittoria, sul Palatino.
Figura 1. Ara di Cibele e della Vestale Claudia Quinta
Quando Cibele la Grande Dea Madre provenendo da un mondo antico, fece il suo ingresso a Roma, fu chiaro ai Romani che ella giungeva nel nuovo mondo a garantire la vittoria contro Annibale, non per nulla l’iniziale collocazione fu nel Tempio della Vittoria sul colle Palatino.
I Romani disposero che il tempio della Madre Idea fosse elevato sul Colle Vaticano, data la sua prossimità e la particolare relazione geografica con il complesso di templi del Campidoglio situato sul Colle Capitolino e di costruirlo in maniera tale da non inficiare in alcuna maniera il ruolo primario dei templi degli antichi Dèi di Roma.
Il colle Vaticano si trova a circa due chilometri e mezzo a Nord-Ovest del Colle Capitolino (altezza circa 50 metri), tradizionalmente il più alto dei sette colli e sede del Campidoglio, il più grande complesso di templi dedicato agli dei dell’antica Roma, costruito da Lucio Tarquinio Superbo intorno al 520 avanti Cristo. Il Colle Vaticano a partire dal 520 avanti Cristo, la più sacra Necropoli di Roma, in particolare per i nobili e le persone di rilievo della città. Uno dei nomi originali del colle era, infatti “città (colle) del divino” e “Città dei Morti”, rappresentava la più importante e sacra Necropoli di Roma. I romani costruirono un’intelligente serie di livelli di camere aperte o strutture a “catacomba”, come piattaforme nel terreno argilloso, permettendo al peso di essere ridistribuito al meglio ed operando inoltre per l’appiattimento del colle stesso al fine di garantire maggiore spazio alla costruzione. Ciò significava anche che buona parte dell’originaria Necropoli, ivi esistente da più di duecento anni, sarebbe rimasta indisturbata.
Il tempio fu terminato e consacrato il 10 aprile 191, e il simulacro venne trasferito in esso. Il nuovo edificio sacro, a pianta rettangolare aveva un orientamento NE-SO e si elevava su un imponente podio in “opus caementicium” di quasi 9 m. di altezza, al quale si accedeva tramite una grande scalinata. Il tempio era preceduto da un pronao con sei colonne corinzie, senza colonnato ai lati; la cella era lunga 64 metri per 32 di larghezza; all’interno essa era arricchita da un colonnato con capitelli in stile ionico-italico, aggiunto nel II sec. a. C. Una grande platea occupava le aree antistante e laterali e consentiva il transito diretto con il vicino tempio della Vittoria.
Il nuovo tempio fu chiamato Phrygianum, la casa dei Frigi, o meglio della Dea Frigia Cibele. L’edificio principale interno era costituito da cinque navate laterali, un’ampia navata centrale e due navate laterali più piccole, le quali erano caratterizzate ognuna da ventuno colonne di marmo. Alla fine di quest’ultima (Transetto) era collocato un enorme Ciborium (copertura interna) sopra la statua sacra di Cibele dietro alla quale una struttura rinforzata teneva in piedi l’enorme Simulacrum un meteorite nero di Cibele.
L’importanza del luogo era tanta che all’epoca di Papa Vigilius (537 – 555 d. C.), con le grandi epidemie giunte ad infestare l’Europa, il Phrygianum fu ribattezzato San Pietro e la linea di Papi così come riportata nel Liber Pontificalis fu elaborata per la prima volta. Nel 1505, il Tempio di Cibele fu infine demolito per ordine del Papa Giulio II per lasciare il posto al nuovo grande tempio che noi oggi conosciamo con il nome di Basilica di San Pietro.
In questa data, la statua Magna Mater fu posta sul trono come Sacra Protettrice della Città e fregiata di un meteorite conico molto più piccolo del “Simulacrum”, si narra che fosse incastonato sul capo, e condotta tramite una processione verso il Secondo Tempio di Cibele, quest’ultimo collocato tra i santuari degli altri dei romani sul Colle Palatino. In onore di tale occasione, i Ludi Megalenses o Megalesia furono istituiti e festeggiati per la prima volta, per una intera settimana all’inizio di Aprile: periodo riconosciuto come l’anniversario dei giorni di nascita della Dea. Sotto Claudio I (41 – 54 dopo Cristo), il culto di Cibele sul Colle Vaticano andò incontro a notevoli trasformazioni dato che l’Imperatore, assumendo per sé la carica di Pontifex Maximus e le date dei Megalesia furono spostate nei giorni compresi tra il 15 ed il 27 Marzo in modo da coincidere con l’Equinozio di Primavera e si svolsero fino al 389 d.C.
Era anche chiamata Montagna Madre del Monte Ida, ed un’enfasi particolare era posta sul concetto della sua maternità nei confronti della natura selvaggia (Potnia Theron), una divinità ambivalente, simboleggiava la forza creatrice e distruttrice della Natura. Il centro principale del suo culto era il santuario di Pessinunte, nella Frigia. La Dea divenne la Magna Mater o “sacra” Madre di Roma. Era la dea del Monte Ida dove Paride visse da giovanetto tra i pastori ed è da qui che Zeus avrebbe rapito Ganimede e dove fu concepito Enea figlio di Venere e di Anchise.
L’enorme aerolito nero custodito nel tempio di Cibele al tempo dell’imperatore Eliogabalo (218-222) dopo aver profanato il tempio di Vesta, ordinò che il simulacro della Madre Idea un meteorite, una pietra nera conica e gli altri talismani di Roma fossero trasferiti nel tempio che fece costruire sul lato nord-orientale del Palatino un tempio, l’Elagabalium, dedicato al culto del Deus Sol Invictus, vicino alla sua reggia.
Figura 2. Roma - La Pietra sacra conica dell’Elabagalium
L’imperatore fece trasferire nel nuovo tempio il braciere di Vesta, il Palladio e gli Ancili, un sacrilegio per i romani. Il Palladio non doveva essere visibile nemmeno al Pontefice Massimo che non poteva entrare nel Tempio di Vesta, né vedere né toccare il Palladio.
M. Baistrocchi citando Arnobio e Prudenzio, narra che la statua della Dea Madre Idea custodiva un piccolo talismano una pietra in una teca entro la bocca[1]. La piccola pietra di Cibele era chiamata “Ago della Grande Madre”, “Acus Magnae Matris”, per la sua forma conica fosse alquanto allungata, e, secondo quanto riferisce Mauro Servio Onorato nel suo commento all’Eneide di Virgilio (VII, 188), era annoverata tra i sette “Pignora Imperii”. Secondo alcuni il talismano era una pietra nera, che si riteneva caduta dal cielo, che aveva delle caratteristiche comuni al Palladio, anch’esso identificato con materiale caduto da cielo, un meteorite ferroso, un magnete. Le punte di lance sacre fatte con meteoriti, venivano identificate dai Greci come fulmini di Zeus[2]. La dea Cibele secondo Varrone aveva in testa una corona a forma di torre, un timpano in mano, e una coppia di leone mansueto ai lati.
Nel 111 a. C. il tempio fu devastato da un rovinoso incendio, appiccato dall’edile Quinto Memmio, il quali si impadronì della pietra nera di Cibele. Nel 3 d. C. avvenne un secondo incendio in circostanze misteriose, il tempio fu fatto ricostruire da Ottaviano Augusto Il cristiano Arnobio e Prudenzio dicono che la pietra era conservata nella bocca della statua della Dea Arnobio (Adversus gentes, VII, 253) afferma che fosse: “Una pietra di non grandi dimensioni, di ferro, esente da qualsiasi elemento fatto da mano umana, di color nero, diseguale e con protuberanze di materiale grezzo e rude, che tutti noi oggi possiamo vedere nella bocca della statua della dea Cibele“.
[1] Zosimo, V, 38, 3.
[2] Rober Graves, I Miti Greci, 116, 5.
LA QUADRIGA DI ARGILLA DEI VEIENTI
Il secondo talismo era la Quadriga fictilis Veientanarum. L’ultimo re etrusco Tarquinio il Superbo aveva ordinato a Vulca un artista di Veio una quadriga (quattro cavalli) di creta, rappresentante il carro di Giove. Plinio il Vecchio narra che nella cottura il carro si gonfiò tanto che fu necessario rompere il forno. La crescita fu considerata dai sacerdoti di Veio un prodigio favorevole un augurium per la futura grandezza del popolo. Avendo compreso in base alla dottrina dell’augurium l’importanza del prodigium, i Veienti, in un primo si rifiutarono di consegnare la Quadriga. Quando a Veio i cavalli del carro vincitore di una gara equestre si lanciarono imbizzarriti verso Roma, e dopo una triplice lustratio intorno al Campidoglio sbalzarono l’auriga. I Veienti consegnarono la Quadriga di terracotta ai Romani, ed essa fu portata al Campidoglio e infine posta sopra il frontone del tempio capitolino, dal console Marco Orazio.
La Quadriga fu attribuita allo scultore etrusco Vulca. Nel 296 a.C. la quadriga in terracotta fu sostituita con una di bronzo, opera forse dei fratelli Gneo e Quinto Ogulnio, gli stessi cui è attribuita la Lupa capitolina. La quadriga originale fu probabilmente custodita nel recinto del tempio in un deposito di oggetti votivi detto “favissa”, fino a scomparire misteriosamente alla fine del mondo antico.
Sorge una domanda, una semplice creazione di terracotta che si gonfia durante la cottura poteva venire considerata un talismano, anziché scartarla come opera mal riuscita? Cosa si cela dietro questa quadriga?
Con l’arrivo dei re etruschi a Roma, nel 616 a.C., il monte Tarpeo, il Campidoglio, iniziò a trasformarsi nel centro religioso della città. Fu costruito sul colle il primo tempio dell’urbe, consacrato alla triade capitolina, costituita da Giove Ottimo Massimo, dalla sposa Giunone e dalla figlia Minerva. Nella Storia di Roma Tito Livio narra che il primo re etrusco della città, Tarquinio Prisco, si era impegnato con un votum sacro a erigere il tempio se fosse tornato vittorioso dalla guerra contro i Sabini, come poi accadde. I lavori di costruzione iniziarono effettivamente con Tarquinio Prisco, ma fu il figlio Tarquinio il Superbo a portare a termine l’edificio in seguito alla prematura morte del padre.
Per i lavori il Tarquinio Prisco si servì di artigiani anch’essi etruschi, tra cui Vulca di Veio, l’autore dell’Apollo di Veio (conservato nel Museo di Villa Giulia), che realizzò la statua di Giove seduto con le insegne della regalità etrusca: corona scettro, toga purpurea e fascio di fulmini. Il tempio era così importante che il tesoro d’emergenza della repubblica, riservato ai momenti critici, era nascosto sotto il trono di Giove, così come i Libri sibillini, un compendio di profezie in greco che la Sibilla Cumana aveva venduto al re Tarquinio (secondo Varrone, a Tarquinio Prisco; secondo Plinio, a Tarquinio il Superbo). l grammatico latino Servio ricordava che all’interno del tempio si onoravano immagini di tutti gli dei, tra cui Marte, Iuventas (Giovinezza) e Termine. Il culto di quest’ultima divinità impose un’apertura sul tetto del tempio perché i riti in suo onore dovevano realizzarsi a cielo aperto.
Il tempio fu inaugurato nel 509 a.C. dopo la cacciata da Roma dei Tarquini. La consacrazione del santuario toccò quindi alla massima autorità della nuova repubblica, ovvero a due consoli, Publio Valerio Publicola e Marco Orazio Pulvillo. Secondo il racconto di Tito Livio alla fine la sorte toccò a Orazio Pulvillo, mentre Valerio fu costretto ad andare in guerra contro la città di Veio.
Prima di allora Giove era rappresentato con un’scia di selce, una Labrys? La Quadriga era etrusca come i re Tarquini, inoltre fu realizzata dallo stesso maestro etrusco che fece la statua di Giove con le folgori nella mano destra.
Il re Tarquinio il Superbo avrebbe chiesto proprio al “Maestro dell’Apollo”, forse, ben due quadrighe come ornamento del tetto del tempio[1].
Vulca è l’abbreviazione di Vulcano il dio ctonio legato ai fuochi sotterranei e alle folgori. La tradizione romana sosteneva che il dio Vulcano derivasse il proprio nome da alcuni termini latini collegati alla folgore (fulgere, fulgur, fulmen), la quale è in qualche modo collegata al fuoco. Plinio che citava Varrone attribuisce a Vulca la statua di Giove per il tempio di Giove Ottimo Massimo del Campidoglio a Roma, commissionatagli dal re di Roma Tarquinio Prisco, e una statua dell’Ercole fittile. Per essere un potente talismano doveva essere stato realizzato da un Iniziato al culto di Velcan cioè Vulcano, forse utilizzando anche argilla vulcanica, con proprietà magnetiche simili a quelle di taluni meteoriti. La vicenda misterica della realizzazione della quadriga fu abilmente nascosta e attribuita al prodigium.
La Quadriga etrusca di Giove oltre ad avere proprietà misteriose che l’hanno annoverata ai sacri talismani, aveva un significato religioso e simbolico. Giove quadruplice, come il Brahma indù dalle quattro facce, il Dio aereo, folgorante, terrestre e marino, il Signore e padrone dei quattro Elementi, può essere considerato come il rappresentante dei grandi Dèi Cosmici di ogni nazione. Per quanto delegasse ad Efesto - Vulcano il suo potere sul fuoco, a Poseidone - Nettuno quello sul mare, e a Plutone - Aϊdoneus quello sulla terra, il Giove Aëreo li comprendeva tutti, perché l’Ǽther aveva fin dall’inizio la preminenza su tutti gli altri Elementi e ne costituiva la sintesi.
Plutarco spiega che la quadriga con il carro rappresenta il Sole e i suoi quattro tempora: i solstizi e gli equinozi o le quattro stagioni cui essi danno inizio. Le quattro direzioni dello spazio piano, rappresentate dalla croce a bracci uguali. Non a caso era posta sulla cuspide del tempio capitolino, il quale, come è noto, era suddiviso in tre celle.
Figura 1. Giano e Giove su quadriga[2]
Una moneta romana mostra da un lato Giano e dall’altro lato Giove su una quadriga. Giano aveva come sede annuale il solstizio d'inverno, estremo punto settentrionale della parabola solare. Giano, forse la principale divinità dell'Italia antica, era posto a guardia e a protezione delle porte solstiziali. Giano era anche il dio preposto all’Iniziazione, all'ingresso rituale nel mondo del «sacro».
[1] https://www.museoetru.it/opere/apollo-di-veio
[2] Anonimo, Didracma, 225-214 a.C. http://www.tinianumismatica.com/prodotto/cr-301-didracma-giano-giove-su-quadriga/
LE CENERI DI ORESTE
Oreste, secondo il racconto mitico, uccise sua madre Clitemnestra, moglie infedele di Agamennone. Erodoto[1] narra che dopo numerose sconfitte gli Spartani mandarono messi a Delfo e la Pizia profetò che era necessario ricondurre in patria le ossa di Oreste. Le ossa furono scoperte a presso la fucina di un fabbro a Tegea in un’urna di sette cubiti (tre metri) all’interno della quale vi era il corpo di un gigante. Le ossa furono poi seppellite a Sparta. Le ossa dei giganti erano considerate magici talismani che proteggevano la città: così gli Ateniesi, per consiglio di un oracolo ricuperarono a Sciro, quelle che ritenevano essere le ossa di Teseo[2]. Secondo una delle varianti del mito, Oreste dopo il matricidio, per sfuggire alla furia punitiva che il suo gesto aveva scatenato, fu consigliato da Apollo di recarsi nel paese dei Tauri, nella penisola di Crimea, e rubare l'antica statua di Artemide (Diana Taurica) per poi raggiungere un luogo ove scorreva un fiume formato da sette sorgenti, oggi identificato nel Tirreno meridionale; da qui successivamente risalì verso il Lazio.
Il Culto di Diana Nemorensis era un antico culto romano, che aveva il suo centro nel lago di Nemi. Qui, all'interno di un bosco sacro, sorgeva il santuario della dea Diana Nemorensis, la "Diana dei Boschi". Questo culto di origine pre-romana perdurò per tutto l'arco dell'Impero. Il culto di Diana a Nemi si pensa secondo tradizione sarebbe stato istituito da Oreste il quale dopo aver ucciso Toante il re della Tauride si rifugiò in Italia con sua sorella portando con sé il simulacro della Diana Taurica nascosto in una fascina di legna. All'interno del santuario di Nemi cresceva un albero di cui era proibito spezzare i rami, solo ad uno schiavo fuggito era concesso di cogliere una delle sue fronde. Se lo schiavo riusciva nell'impresa acquisiva il diritto di battersi con il sacerdote e se lo uccideva diventava di diritto il Rex Nemorensis. Stando a quanto dicono le leggende antiche la fronda fatale che staccava lo schiavo era la medesima che per ordine della Sibilla, Enea raccolse per affrontare il pericoloso viaggio nel mondo dei morti. La fuga dello schiavo doveva rappresentare la fuga di Oreste mentre il suo combattimento con il sacerdote adombrava il ricordo dei sacrifici umani alla dea Diana Taurica.
Nel mito del re nemorense si ritiene che l’arma con cui l’aspirante re affronta quello ancora in carica fosse un ramo della quercia sacra, ma è molto probabile che si tratti di un elemento puramente simbolico; alcune interpretazioni del culto, infatti, descrivono questo ramo come un ramoscello di vischio. Il "rex nemorensis" presiedeva simbolicamente al ciclo infinito della morte e rigenerazione della vita, del continuo mutamento della natura che si trasforma e rinnova con l’alternarsi delle stagioni. Il rinnovamento del sacerdozio era pertanto un segno della continuità di un’antica tradizione.
Un indizio importante è essere rappresentato dal ritrovamento, avvenuto non molto tempo fa sotto il livello della banchina del lago, di una struttura muraria a forma poligonale tipica della cosiddetta seconda maniera dell’architettura delle mura megalitiche laziali. Di per sé questo elemento potrebbe sembrare insignificante o non pertinente con la relazione tra celtismo e culto di Nemi, in realtà costituisce una prova della presenza nel territorio dell’antico popolo dei Pelasgi.
Le ceneri di Oreste furono seppellite nella località di Ariccia da Ifigenia, sua sorella. Furono poi trasferite a Roma, sotto la soglia del Tempio di Saturno, vicino al tempio della Concordia, nella zona del Foro Romano. Le ossa di Oreste dovevano per i Romani avere lo stesso potere delle ossa di Horos.
LO SCETTRO DI PRIAMO
Gli antichi attribuivano lo scettro a Giove, a Giunone, a Re e Principi. Lo scettro di Giove è connesso intimamente alla folgore: fulmine nella mano destra e scettro nella mano sinistra. È solo in un secondo momento che lo scettro diventa insegna e simbolo dell’autorità regia. Lo scettro è intimamente legato alla bacchetta del mago, di cui si parla altrove. I re etruschi avevano lo scettro eburneo, i Romani avevano lo scettro imperiale o trionfale, mentre gli Egizi simboleggiavano il re con uno scettro sormontato da un occhio, detto occhio del Sole; questo scettro veniva messo in mano al Sole, come emblema della visione di tutto l’universo e del suo giusto governo. Lo scettro di Priamo fu offerto a Cartagine per la prima volta a Didone da Enea.
E ancora uno scettro che Ilione reggeva la figlia maggiore di Priamo … Eneide (I, 655).
In seguito quando i Dardanidi giunsero in Italia lo scettro dell’ultimo re di un piccolo cosmos, Troia, fu offerto da Ilioneo, in nome di Enea, a Latino insieme con altre reliquie portate da Troia. Si tratta di una traslatio imperi simbolica da Troia all’Italia, in quanto i Troiani hanno riconosciuto nelle terre di Latino quelle a loro destinate dal Fato e nei Latini al pari dei Troiani dei discendenti del loro comune antenato Dardano.
Figura 1. Priamo
Virgilio descrive Latino con una corona a 12 raggi, quale simbolo visibile del Sole. Latino secondo il racconto di Virgilio era nipote del re Pico, figlio di Fauno e di Marica divinità della città latina di Minturno. Virgilio descrive mirabilmente il palazzo reale di Latino quale reggia edificata dall’avo Pico.
Grande augusto, il palazzo, alto su cento colonne, era in cima alla rocca, reggia di Pico Laurente: sacro orrore le selve incutevano il culto degli avi. Qui era auspicio per i Re ricever lo scettro, e alzar qui i primi fasci: qui era il tempio per essi e curia. “Hic sceptra accipere et primos attollere fasces regibus omen erat, hoc illis curia templum”. (Eneide, VII, 170-174).
Nel palazzo augusto vi sono le effigi di Saturno e di Giano bifronte e degli avi augusti, Pico il domatore di cavalli, con il suo liuto quirinale vestito con trabea reggeva sulla sinistra un Ancile.
Lui stesso sedeva, con liuto Quirinale, vestito di breve trabea e reggeva con la sinistra l’ancile, Pico domator di cavalli … (Eneide, VII, 187-189).
Pico regge il liuto con la mano destra la sacra verga etrusca, e regge con la sinistra l’ancile lo scudo del tuono poi donato a Numa Pompilio. È descritto domatore di cavalli; il tema dei cavalli caratterizza l’Iliade. Due Cavalli divini causarono la prima distruzione di Troia; la furia di Poseidone è quella dei cavalloni marini; un Cavallo di legno causò la seconda distruzione di Troia che avvenne solo dopo la morte di Ettore, il protettore di Troia, e come Pico era definito domatore di cavalli.
[1] Erodoto, Storie, I, 67.
[2] Rober Graves, I Miti Greci, 117, 3.
IL VELO DI ILIONA
Virgilio nel primo Libro dell’Eneide narra che un velo bianco con il fregio d’acanto fu donato da Leda ad Elena per le sue nozze, e in quell’occasione il velo giunse a Troia, e che in seguito alla caduta di Troia Enea offrì a Didone. Servio annovera fra i sette talismani di Roma un velo “Velum Ilionae”, che attribuisce non di Elena, ma Iliona la figlia maggiore di Ecuba e Priamo, che andò in sposa a Polimestore, crudele re di Tracia. Il mito greco narra che quando Polimestore uccise Polidoro, fratello di Iliona che riuscì a vendicarsi assassinando il marito. Servio ed Igino, raccontano una diversa versione: durante la presa di Troia, i greci chiesero che venisse ucciso il fratello di Iliona, Polidoro, e lo fece Polimestore stesso, che per errore però uccise il proprio figlio Deifilo. Polimestore sarebbe poi stato accecato ed ucciso da Iliona e Polidoro. Virgilio nell’Eneide fa offrire a Didone da Enea, lo scettro, il diadema di Priamo, la collana, la corona e il velo della principessa Iliona.
… pallam signis auroque rigentem, / et circumtextum croceo velamen acantho, / ornatus Argivae Helenae.
Un manto rigido d’aurei ricami, un velo (velamen) intessuto d’un croceo fregio d’acanto d’Elena argiva ornamenti che lei portò da Micene quando a Pergamo venne all’inconcesso imeneo mirabile regalo della madre sua Leda. E ancora uno scettro che Ilione reggeva la figlia maggiore di Priamo … Eneide (I, 648-655).
I commentatori all’Eneide si domandano come Enea abbia potuto prendere questi oggetti simboli della regalità fuggendo da Troia in fiamme. Come il velo attribuito a Ilione, poteva essere annoverato da Servio, tra i pignora provenendo da Elena che aveva causato la rovina di Troia?
Virgilio scrive di un velamen ornato di foglie di acanto che dovrebbe essere simile a un manto, donato da Leda a Elena. Dobbiamo concentrarci su questi quattro informazioni: Velo, acanto, Leda, Elena.
Alcuni commentatori fanno notare come Servio (VII, 188…”velum Ilionae”) non si accorga che nel testo virgiliano il velamen non è di Ilione ma di Leda che lo donò poi ad Elena e non è un “velum” (velo) ma un “velamen” (veste). Servio commentando il verso 649 del I libro, cioè la parola virgiliana “velamen”, specifica: “cycladem significat” cioè “si tratta di una ciclade” (veste pregiata femminile). Per contro osserviamo che Velamen, ha più di un significato, significa in ordine di importanza, velo, velame, copertura, veste. Virgilio scrive di ornamenti, un manto rigido ricamato e un velo con fregi d’acanto … e il manto e il velo intessuto d’un croceo fregio d’acanto. (I, 711). Un velo lungo e ampio copre la testa le spalle e la parte superiore del corpo come una Vestale. I critici affermano che dal momento che Servio è l’unico autore antico a parlarci di questi sette oggetti fatali dell’antica Roma, tale equivoco – un velo al posto di un abito e Leda/Elena al posto di Ilione – getta un’ombra sulla genuinità di tutta questa storia! Servio non era uno scrittore superficiale e un leccapiedi, come avviene ancora oggi, dei potenti, egli era un uomo molto dotto e addentro alle vicende misteriche, come lo era del resto Virgilio.
Elena Figlia di Leda, secondo la tradizione da Omero in poi, è figlia di Zeus che si sarebbe congiunto a Leda trasformandosi in cigno. Leda avrebbe deposto un Uovo da cui sarebbe nata Elena. Secondo la versione pervenutaci dai Kypria era figlia di Zeus e di Nemesi. Il Kypria narrava storie cronologicamente collocate all’inizio del Ciclo Troiano e seguite dall’Iliade, rispetto alla quale è posteriore. La Nemesi del poeta dei Kypria è la vendetta cosmica: essa lo è anche contro se stessa, quando il suo pudore verginale, il pudore di un giovane essere della natura, viene minacciato dalla brama divina. Scrive Karóly Kerényi in Miti e Misteri, che Elena, nacque dalla “possente necessità” di un dio (Zeus) di “sedurre” la Necessità (Nemesi), affinché generasse “la bellezza”. Il frutto nato da questa impresa fu causa di uno dei conflitti più grandi che si verificarono nella storia dell’antichità, la guerra di Troia. Guerra che rimase unica sia per i preparativi, che per l’estensione di tempo, nonché per la grandezza degli Eroi che vi parteciparono, e per gli Dèi che furono coinvolti in una sorta di guerra intestina.
Ma quando essa appare (ai Troiani) accompagnata dalle sue due fanciulle … avvolta in un luminoso velo bianco, gli anziani esclamano tra di loro: non è una Nemesi … essa è, infatti, come una delle dee immortali1 .
Elena nell’Iliade di Omero, avvolta nel luminoso velo bianco, appare bellissima per quello che è, una Dea. Il velo candido è uno strumento di Leda Nemesi. Come la morte cala sul capo come una “nube”, così anche la donna per sposarsi, nubere, per morire come vergine e rinascere come donna doveva velarsi il capo.
Il velo aveva anche un altro significato, in quanto il muro della città aveva un nome speciale ierón krédemnon[2], sacro velo, un sigillo magico, una protezione circolare contro le forze ostili esterne. Un magico cerchio che avvolgeva la città e che doveva essere sciolto, violato o neutralizzato per rendere possibile l’espugnazione della città. Alla morte di Ettore Elena fu costretta a sposarsi con Deifobo fratello di Ettore. Dopo di che cade la nube scura della morte su Troia. Elena Virgilio narra che Enea, che durante la notte della caduta di Troia fu preso da grande sconcerto nel vedere lo spettro di Deifobo. Il principe gli racconta la propria morte, gli rivela il tradimento di Elena che aveva sottratto la sua spada da sotto il cuscino e indicato a Menelao il letto in cui dormiva: era stata lei ad aprire le porte e a chiamare Menelao, a cui si era unito anche Ulisse; tutti e tre hanno fatto strazio del suo corpo.
Un altro velo compare al tempo della prima distruzione di Troia da parte di Ercole, il velo di Esione, sorella maggiore di Priamo. Esione ottenne la salvezza del fratello minore non solo supplicando, ma anche facendo dono ad Eracle di un velo ricamato in oro. La cessione di Esione che rappresenta la città del suo velo a Ercole indica la perdita della protezione e la possibile espugnazione delle non più invincibili mura della città. Ecco perché alcuni commentatori affermano che gli amanuensi che ricopiarono le parole di Servio si sbagliarono scambiando Esione in Iliona. Questa diatriba conta poco ai fini del simbolismo, sciogliere il sacro velo lo ierón krédemnon equivaleva ad aprire le porte della città concedersi, essere conoscibile ed espugnabile.
Il velo sembra avere un valore di emblema sacrificale: la donna greca e romana, e fra queste le Vestali, sacrificavano, infatti, con il capo velato, e doveva essere vergine. Il velo delle Vestali era il velo di Esione o Ilione, perdere la perdita della verginità da parte di una Vestale era equiparata a tradimento come quello della Vestale Tarpeia ai tempi di Romolo. Il velo talismano citato da Servio, poteva essere visto solo dalla Vestale massima, e forse indossato da essa per la celebrazione di riti arcani a protezione della città.
L’abbigliamento delle Vestali consisteva nella stola e in una corta sopravveste di lino chiamata càrbasus, simile al diploide greco. Nelle cerimonie cingevano la fronte con l’infula, un nastro di lana annodato alla nuca. Ponevano in capo il suffìbulum, bianco velo rettangolare ornato ai bordi con ricami in oro.