Le radici etrusche di Roma
Stirpe Dardanica
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URBS AETERNA
LE ORIGINI
I Romani elaborarono un complesso racconto mitologico sulle origini della città e dello stato; il racconto c’è giunto con le opere storiche di Tito Livio, Dionigi di Alicarnasso, Plutarco e le opere poetiche di Virgilio e Ovidio, quasi tutti vissuti nell'età augustea. In quest'epoca le leggende, riprese da testi più antichi, vengono e fuse in un racconto unitario, nel quale il passato viene interpretato in funzione delle vicende del presente. Il mito racconta di una fondazione avvenuta per opera di Romolo, discendente dalla stirpe reale di Alba Longa, che a sua volta discendeva da Ascanio, figlio di Creusa e di Enea, giunto nel Lazio dopo la caduta di Troia.
L’Iliade di Omero non fa mai cenno ad un viaggio di Enea in occidente. Una versione che collega Roma con le vicende troiane è stata tramandata da due storici antichi come Ellanico di Lesbo e Damaste di Sigeo. La tradizione antica narra di una prigioniera troiana di nome Rome, segregata a bordo di una delle navi di Ulisse insieme ad altre compagne, e costretta a peregrinare con l’eroe attraverso i mari. Quando una tempesta costrinse le navi ad approdare sulle coste del Lazio, Rome, stanca di viaggiare, incitò alla rivolta le compagne, che incendiarono le navi.
Altri miti narrano che Rome, sarebbe stata, invece, uno dei numerosi figli di Ulisse o addirittura figlia di Telemaco e della maga Circe. Altri ancora narrano che Rome era il nome di una figlia o, forse, della moglie di Ascanio, figlio di Enea che, dopo le vittorie su Turno, re dei Rutuli, fece costruire un tempio alla dea Fede e per questo, alla città che venne poi costruita, fu dato il suo nome.
Del mito di Enea parlarono anche gli scrittori latini Ennio e Nevio, ma fu soprattutto Fabio Pittore che riuscì ad avvicinare la data dell’arrivo di Enea nel Lazio a quella della fondazione della città. Virgilio con la sua “Eneide” narra che Enea un principe troiano, figlio di Anchise, cugino di Priamo, della stirpe di Dardano in seguito alla caduta di Troia con il figlio Ascanio giunse nel Lazio. Dardano e Iasione figli di Zeus ed Elettra secondo la tradizione latina riportata da Virgilio e da Servio, sarebbero partiti dall’umbilicus Italiae, il centro sacro dell’Italia, presso il lago di Cotilia, dall’Etruria, nell’Italia centrale, per giungere il primo in Troade, il secondo in Samotracia. Enea secondo questo mito ritorna alle terre da cui era partito il progenitore. Gli Etruschi secondo questo mito sono anche’essi discendenti di Dardano. Una tradizione latina, narra che il padre di Iasione era il re dei Tirreni, Corito; e il suo gemello, Dardano, era figlio di Zeus e di Elettra. Corito fondò la città di Cortona, da cui Iasione e Dardano emigrarono, dopo aver diviso tra loro le sacre immagini. Iasione andò a Samotracia e Dardano nella Troade.
I GEMELLI FIGLI DI MARTE E DI REA SILVIA
Lo storico romano Tito Livio nel libro I della sua Storia di Roma scrive che un discendente di Enea, Numitore figlio del re Proca, designato dal padre per regnare su Alba Longa, fondata da Ascanio Julio figlio di Enea, avuto dalla prima moglie Creusa. Amulio fratello minore di Numitore usurpò il trono, uccisi i figli maschi del fratello costrinse, l’unica figlia femmina, Rea Silvia, a diventare Vestale e a fare quindi voto di castità, togliendole la speranza di diventare madre. Colta dal sonno sulle sponde del Tevere, in un bosco sacro, dove era andata ad attingere acqua, la giovane vestale vide in sogno un giovane bellissimo circonfuso di luce: era il dio Marte. Svegliatasi corse alla propria capanna e si confidò con la nutrice. Questa la consolò, prevedendo un prodigio nel racconto della fanciulla. Dopo nove mesi Rea Silvia dette alla luce due gemelli che furono chiamati Romolo e Remo. È scritto che l’istituzione delle Vestali risale al secondo re di Roma Numa Pompilio, e poiché la madre dei gemelli era una Vestale, allora questo ordine religioso doveva esistere già prima della fondazione di Roma tra i Latini. L’unico popolo vicino a possedere un antico culto misterico era quello etrusco.
Secondo Livio in realtà essa venne stuprata e dette la colpa al dio Marte. I gemelli sono frutto della rottura di un voto sacerdotale, per quanto né il voto, né la rottura stessa fossero dovuti alla libera scelta di Silvia che, però, vista la sacralità del suo ruolo, si trova comunque a essere colpevole, etichettata e ricordata quindi come Rea colpevole. Forse originariamente, come suggerisce il suo nome, fu una divinità dei boschi e delle selve che coprivano i monti Albani. Non lontano da quei luoghi sorse più tardi la città di Roma.
Per ordine dello zio, Rea Silvia fu seppellita viva, come prevedeva la legge per le Vestali che non rispettavano il voto di castità. Così la vestale Rea Silvia colpevole di aver infranto la regola perde i suoi figli ed il suo sacrificio è necessario perché possa nascere una nuova città.
Rea Silvia, sacerdotessa di Vesta, ha il nome composto da Rea, la Terra Feconda, e da Silvia dal latino silva, “selva”, è l’immagine della Grande Madre Vergine, la Terra Feconda che garantisce il rinnovamento di un nuovo ciclo, nel bosco sacro, per virtù di un Dio concepisce ed emana la realtà, il mondo materiale e dualistico espresso dai Gemelli Romolo e Remo. Un ciclo si è chiuso con la morte di Enea e uno nuovo si apre grazie a Rea Silvia. Nei Fasti, Ovidio narra che Rea Silvia prima di partorire, vide in sogno Romolo e Remo nelle sembianze di palme. Omero fa nascere Apollo mentre Leto abbraccia una palma. Ecco perché questo albero evoca i simboli della vittoria, della gloria e dell’immortalità. I Romani inoltre, come i Greci, usavano offrire ai vincitori un ramo di palma.
All’inizio di un’Età vi sono sempre Due Gemelli[1] divini o semidivini. Zeus e la Pleiade Elettra ebbero in Arcadia[2] due gemelli, Dardano il progenitore dei Troiani e Iasone. In questo mito è Marte che si unisce con una mortale Rea Silvia che partorisce due gemelli Romolo e Remo.
Il re Amulio, in seguito, affidò i bambini a due schiavi con l’ordine di metterli in una cesta, portarli nella parte più alta del fiume, e affidarli alla corrente. Romolo, che insieme al suo gemello non sarebbe dovuto sopravvivere, fu salvato dalle acque del Tevere, né più né meno di come avvenne per Sargon e per Mosè. La cesta nella quale i gemelli erano stati adagiati si arenò in una pozza d’acqua sulla riva, presso la palude del Velabro tra Palatino e Campidoglio in un luogo chiamato Cermalus, ai piedi di fico un fico selvatico che poi i Romani chiameranno ruminalis ficusche, che sfama i gemelli con la sua linfa zuccherina. Fico Ruminale: varie etimologie, come ruma, “mammella” o Rumon, un arcaico nome del Tevere. Adamo ed Eva, scoprendosi nudi, si vestono di foglie di fico. Mithra, nato nudo, si ripara fra i rami di un fico, si nutre dei suoi frutti e si riveste con le sue foglie; Buddha medita per sette anni e ottiene l’illuminazione sotto un fico. I Romani credevano che finché questo fico fosse vissuto, la grandezza di Roma non sarebbe mai declinata. Una leggenda narrava che, per un intervento divino operato dall’augure Atto Navio, il fico sarebbe stato poi trasportato al centro del Foro dove sarebbe vissuto per 830 anni.
Figura 1. Duomo di Siena particolare pavimento - Fico Lupa e i Gemelli.
Altre fonti fanno coincidere il punto dove si fermò la cesta con i gemelli con una grotta collocata alla base del Palatino, detta “Lupercale” perché sacra a Marte e a Fauno Luperco. Una lupa, scesa dai monti al fiume per abbeverarsi, fu attirata dai vagiti dei due bambini, li raggiunse e si mise ad allattarli. Vuole la tradizione che anche un picchio (Pico) portò loro del cibo, sia la lupa che il picchio sono sacri a Marte. La lupa era anche l’animale sacro del dio sabino Mamers, analogo di Marte, ed era anche l’animale tutelare dei latini con il nome di Luperco, mentre per gli etruschi il lupo raffigurava Aita il dio purificatore e fecondatore.
Marte come racconta Virgilio, in età arcaica è raffigurato con un copricapo costituito da un elmo ornato da due penne; i suoi animali sacri sono il picchio e il lupo, il cui aspetto umano è rappresentato da Pico, Re degli Aborigeni e fondatore di Alba, e da Fauno, figlio del re Pico e quindi nipote di Marte.
Marte è il dio del tuono, della pioggia, della folgore e della fertilità. Mistericamente o esotericamente Marte è il simbolo del potere generatore primitivo ed originario, destinato alla procreazione umana. Egli è rosso come Adamo e Brahma-Viraj, ed è identico a Karttikeya, il dio indù della guerra, nato dal sudore di Shiva, che è detto anche Lohita, il Rosso; e come lui è orfano di un genitore. Essere il dio della guerra e lo spargitore di sangue è solo un’idea secondaria, derivata da quel primordiale dello spargimento di sangue che si ha al primo rapporto sessuale. A Marte è sacro il settenario, in quanto Pitagora aveva scelto la distanza fra Marte ed il Sole per stabilire, nella musica delle sfere, la lunghezza di un tono.
In seguito i gemelli furono trovati da un pastore di nome Faustolo (il porcaro di Amulio), il quale insieme alla moglie Acca Larenzia decide di crescerli come suoi figli. Il nome Faustolo ricorda quello di Fauno, e si ricollega alla radice del verbo faveo, “essere favorevole”. Sembra che in epoca classica sul Palatino ancora esistesse la capanna di Faustolo, tugurius Faustoli, onorata come un luogo sacro. Omero narra che Pallade Atena manda Ulisse giunto a Itaca, da Eumeo, il fedele custode dei maiali, un porcaro come Faustolo. Il maiale che si ciba di ghiande, è il simbolo dell’uomo primitivo. Il frutto della quercia di cui si cibano i maiali e gli uomini primitivi è la ghianda. La ghianda, dicevano gli antichi, eccita Venere. La ghianda, è feconda per eccellenza, si riconosce in lei non solo una fecondatrice tra gli alberi, ma la fecondatrice degli uomini. Faustolo morì nello stesso giorno di Romolo, fu sepolto nel Foro sotto il lapis niger, nome che indica la pietra nera di Cibele.
Acca Larentia indicata è chiamata lupa perché Tito Livio scrive: "ac miraculo datum" (per incredibili dicerie) vendeva il suo corpo. Già madre di dodici figli, alla morte di uno di questi, Romolo ne prese il posto ed insieme agli altri diede vita alla confraternita dei cosiddetti Fratres Arvales (Arvali). Acca Larenzia si curò di allattare anche Romolo e Remo, che crebbero, ed una volta venuti a conoscenza della loro origine reale, decisero di vendicarsi. La lupa che allattò Romolo e Remo è, quindi, identificabile con costei. Esiste un’altra Acca Larenzia si tratterebbe di una figura semidivina ereditata dagli Etruschi come prostituta protettrice del popolo umile. Secondo la mitologia romana, in una versione citata da Macrobio, dopo aver trascorso una notte di preghiere nel tempio di Ercole, fu compensata dal dio facendole incontrare e sposare un uomo ricchissimo di origine etrusca, Taruzio.
Quando i due gemelli furono adulti tornarono ad Alba Longa e, ucciso l’usurpatore Amulio, riposero sul trono il nonno Numitore, legittimo sovrano. In seguito lasciarono Alba Longa con il permesso del re decisero di fondare una città lì dove la lupa li aveva allattati.
I bambini crebbero inizialmente in una capanna situata sulla sommità del Palatino. Scrive Tito Livio: “Siccome erano gemelli e il rispetto per la primogenitura non poteva funzionare come criterio elettivo, toccava agli dèi che proteggevano quei luoghi indicare, attraverso gli aruspici, chi avessero scelto per dare il nome alla nuova città e chi vi dovesse regnare dopo la fondazione. Così, per interpretare i segni augurali, Romolo scelse il Palatino e Remo l’Aventino. Il primo presagio, sei avvoltoi, si dice toccò a Remo. Dal momento che a Romolo ne erano apparsi il doppio quando ormai il presagio era stato annunciato,i rispettivi gruppi avevano proclamato re l’uno e l’altro contemporaneamente.”
Secondo la tradizione all’alba il Rex-Sacerdos Romolo compì un sacrificio fuori della sua capanna, poi sul Palatino costruì un Templum per osservare gli uccelli e trarne auspicio al fine di ricevere la benedizione da parte di Giove.
Remo scelse l’Aventino, detto anche Remuria o Remoria, e Romolo il Palatino. Per primo Remo vide venire sei avvoltoi da oriente (considerata “pars infausta” poiché in tal modo gli uccelli si allontanavano dal sole fonte di vita) alla sua destra, quindi volgendo la fronte a nord. Già lo acclamavano fondatore quando Romolo vide provenire dalla sua sinistra, dodici avvoltoi, quindi da occidente stando anche lui con la fronte rivolta a nord, che furono considerati “fausti” nel significato augurale in quanto diretti verso il sole e in numero superiore, e quindi Romolo venne acclamato fondatore. Stando alla testimonianza di Ennio, i gemelli compiono due azioni distinte, ossia un auspicio e un augurio (Annales I fr. 47, 72 - 76). Sia Livio sia Ennio distinguono due atti auspicali: il primo serve a scegliere il luogo su cui far sorgere la nuova città e a individuare il fondatore; il secondo, invece, è garanzia dell’investitura regale. A ben vedere, anche secondo la testimonianza di Dionisio, l’osservazione auspicale avviene in due momenti distinti: la prima osservazione ex avibus è finalizzata alla scelta del sito e del fondatore dell’urbs (I 86, 2 - 4); la seconda osservazione augurale ex caelo, fatta da Romolo sul Cermalo, è finalizzata, piuttosto, alla scelta del futuro imperator (II 5).
Plinio sosteneva che gli avvoltoi avessero la capacità di intuire la morte di una persona con tre giorni di anticipo. Nel mito della fondazione di Roma, Romolo vide dodici avvoltoi volare in alto nel cielo, per simboleggiare che con lui iniziava la prima ora del ciclo delle dodici ore (un ciclo) concesse alla futura nazione. Remo solo sei avvoltoi fu ucciso secondo una versione quando scavalcò il solco sacro che delimitava i confini della città, cioè al suo interno.
[1] Nella Genesi ebraica abbiamo i gemelli Caino ed Abele.
[2] Gli Arcadi si vantavano di essere più antichi della Luna.
RITO DELLA FONDAZIONE DI ROMA
Romolo lanciò una lancia sulla sommità del Cermalo, dove era stato allevato, e decise di fondare lì la sua città. Dopo aver compiuto una serie di riti in onore degli Dèi, sul Palatino, Romolo scende dal colle. Quindi comincia a tracciare quello che è definito il “solco primigenio” intorno e ai piedi del Palatino: il rito di fondazione compiuto da Romolo sul Palatino sarà sempre ripetuto dai Romani quando fonderanno, nei secoli successivi, una città.
Narra Plutarco, una volta ottenuto il responso divino, Romolo prende possesso del luogo indicato da Giove, il Palatino, All’aratro di bronzo Romolo aggioga una vacca ed un toro, tutti e due bianchi, perché bianco è un colore fausto. Dopo di che indossa una toga particolare, bianca, con la quale si copre la testa: è il cintus gabinus. Il toro venne aggiogato in quella che era destinata ad essere la parte esterna del futuro muro, quale elemento propiziatorio di forza per la difesa della città intesa come un piccolo cosmos, mentre la mucca fu aggiogata in corrispondenza della parte interna della costruenda città ad evocare ricchezza e benessere.
Con questo tracciato da Romolo in poi si fissa il percorso delle mura e con una forma sincopata chiamata pomerium, che vuol dire dopo o dietro il muro; dove s’intende mettere una porta, sollevando l’aratro si tira fuori il vomere, e lascia uno spazio per la porta. Per questo motivo gli antichi considerano sacra tutta la cinta muraria ad eccezione delle porte.
Per Plutarco, il solco circolare rappresentava un cosmos, proprio come quello di Troia. Simbolicamente il solco sacro delimita un cosmo ordinato, circondato dalle forze ostili del Caos che premono contro la sua cintura. Come specifica Plutarco, al sulcus viene attribuito lo stesso nome del cielo, ossia mundus, e P. Festo afferma che esso rappresentasse il mondo invisibile dei Mani, mondo che esisteva parallelamente a quello dei mortali.
Dionigi di Alicarnasso dice che dopo la cerimonia i due animali furono sacrificati, concordemente con l’uso di sacrificare il toro che guidava il “Ver sacrum”.
Figura 1. Rito della fondazione di Roma
Nella mitologia greca la potenza delle acque era rappresentata nella duplice forma del cavallo e del toro, e per proteggersi contro tale potenza che i Troiani avevano posto selle mura di Troia figure di tori e di cavalli sulle loro mura, e immolavano tori e cavalli vivi al fiume Scamandro, la potenza delle acque[1] intese anche come quelle del caos.
Varrone rammenta come il fondatore dell’Urbe, conformandosi ad un antico rito etrusco, dopo aver aggiogato in un giorno fausto, un toro e una vacca, una coppia maschile e femminile, avesse tracciato con l’aratro il sulcus primigenius, il perimetro sacro che doveva circoscrivere e difendere magicamente la città. Il solco sarebbe stato circolare, e secondo Varrone Urbs trarrebbe la sua origine da Orbis cerchio.
La tradizionale fondazione di Roma, con la preventiva consultazione degli avvoltoi, e col solco (sulcus) tracciato sul terreno da un giogo, con la mucca all’interno e col toro all’esterno (vitulus, italus), fu fatta da Romolo secondo l’uso etrusco (more etrusco).
Gli autori Latini, così solerti nello scindere la tradizione Romana da quella dei Tusci, riconoscono che il rito di fondazione fu compiuto secondo l’Etrusca Disciplina e ammettono anche che gli auspici degli Auguri cadessero sotto il controllo dagli Aruspici di Tarquinia.
Il rito della fondazione prevedeva che fossero eseguiti una serie di passi. Nell’antica Roma l’àugure, cioè il sacerdote si spostava su un punto centrale prima individuato e scavava una buca, e in essa poneva non solo delle offerte, ma anche un cippo di pietra cubica. Questa nuova buca prendeva il nome di “umbilicus”, cioè ombelico come centro del cerchio il mundus. L’àugure con la sua verga o lituus tracciava per terra una croce, per mezzo di due assi orientati da est verso ovest (decumanus), e da nord verso sud (cardo).
Figura 2. Orientamento In base al Sole
La fondazione di Roma a opera di Romolo e Remo così è stata tramandata dalle leggende è un’applicazione rigorosa del rito etrusco: i Gemelli che osservano il volo degli uccelli per decidere chi dei due dovesse dare il nome alla città, il solco tracciato da Romolo, l'uccisione di Remo che, saltando all'interno del perimetro, profana i sacri confini e ''invade" la nuova fondazione.
Tutto questo faceva parte di quel rito Etrusco di fondazione, del quale gli autori Latini parlano. Plutarco racconta che, anche al momento della fondazione di Roma, fu aperto un mundus e che dentro di esso i compagni di Romolo vi gettarono zolle di terra e primizie che avevano portato con sé dalle loro rispettive zone di provenienza. Romolo dopo avervi elevato un altare (ara), traccia con l’aratro il sulcus della fondazione di Roma eseguito in senso antiorario, toro a destra e vacca a sinistra, quello della precessione degli equinozi, dei grandi cicli temporali. Dionigi di Alicarnasso afferma che il percorso perimetrale era quadrato. In un frammento degli Annali, Ennio afferma che Roma era quadrata. Nel riportarci tale passo Festo lascia intendere, che l’antico storico si riferisse alla pietra quadrangolare che si trovava nel Palatino, nelle vicinanze del tempio di Apollo[2]. Secondo Plutarco[3], Romolo fondò la cosiddetta Roma quadrata, all’interno di un solco circolare.
A Roma nella curia dei Salii si conservava il Lituo[4] (lituus ) un bastone sacro che terminava con una spirale, che si riteneva avesse usato Romolo per ripartire le regioni della città quadrata, Romolo stesso era un Àugure. Il lituus era costituito da un corto bastone senza nodi ricurvo in cima, la forma era simile a quella del pastorale, il bastone curvo del Vescovo. La forma a spirale del bastone sacro era in qualche modo in rapporto con le correnti telluriche della terra (l’odierno campo d’indagine della contestata geobiologia) che con il rito della posa della “prima pietra” erano fissate e canalizzate. Lì sorgevano i templi dedicati alle divinità.
Figura 3. Àugure con Lituus
Un collegio di grande importanza non a caso era proprio quello degli Àuguri. Non stupisce che si trattasse di personaggi di enorme importanza, che trovavano la loro legittimità sia nei risultati della loro opera, sia perfino nella storia della città.
[1] Omero, Iliade,216-239.
[2] Marco Baistrocchi, Arcana Urbis, capitolo terzo.
[3] Plutarco, Rom., 11, 1-5.
[4]Un oggetto rarissimo, il lituo, finora documentato in Italia da soli due esemplari (anche se effigiato in molte rappresentazioni funerarie e monete) che era custodito in una tomba del V secolo a.C. appartenuta ad una dinastia regale. Il lituo era anche una tromba ricurva usata nell’esercito Romano.
ROMOLO LUCUMONE TITO TAZIO
Secondo quanto narrato da Tito Livio in Ab Urbe condita libri (I, 9), Romolo dopo la fondazione di Roma accolse i reietti delle vicine città in un rifugio sull’Asylum, la sella posta tra l’Arx e il Capitolino propriamente detto. Cento fra questi furono i primi Padri Fondatori, i patres o patrizi. Il fatto che l’Asylum fosse riservato agli uomini, spostò l'equilibrio numerico fra i due sessi e i giovani romani, dopo essere stati respinti dai genitori delle fanciulle delle città vicine, organizzarono il ratto delle Sabine. L'organizzazione fu dello stesso Romolo. «Romolo predispose ad arte solenni giochi in onore di Nettuno equestre, giochi cui diede nome di Consuali. [...] Accorse un gran numero di persone, anche per la curiosità di vedere la nuova città, e particolarmente i più vicini: i Ceninesi, i Crustumesi, gli Antemnati. E venne anche, praticamente al completo, con mogli e figli, la popolazione dei Sabini.»
Nel terzo libro dei Fasti (v. 1 78-1 99) Ovidio conferì alla vicenda il medesimo substrato concettuale, ma in forma drammatica; Marte stesso racconta come ispirò al figlio Romolo l’idea di rapire le Sabine. Il rapimento delle fanciulle da parte dei giovani romani scatenò le guerre con i popoli vicini. Mentre i romani sconfiggono i Ceninensi, gli Antemnati e i Crustumini, Tito Tazio che Livio cita per la prima volta come regem Sabinorum trattenne i Sabini facendo mostra di voler risolvere la questione con calma. I Sabini non sono soltanto gli abitanti della città di Cures di Tito Tazio, sono il complesso federato della nazione sabina, sono ciò che più tardi verrà chiamato il nomen sabinum.
Dumézil osserva che da un lato, Romolo: è il figlio di Marte e il protetto di Giove. Ha appena fondato ritualmente la città, ricevuti gli auspici e tracciato il solco sacro. Egli ed i suoi compagni sono splendidi adolescenti, forti e valorosi. Dal lato opposto, Tito Tazio e i ricchi sabini. Certamente non sono vili né irreligiosi, al contrario; ma in questa fase della storia vengono presentati come i ricchi. Inoltre possiedono le donne di cui hanno bisogno Romolo e i suoi compagni. l due partiti sono dunque complementari. Proprio perché essi sono complementari, Romolo, comprendendo che la sua società incompleta non può vivere, fa rapire le Sabine durante la festa rurale di Conso. Agisce così, sia per avere delle donne, sia per costringere i ricchi sabini, nonostante la loro ripugnanza, a entrare i n rapporto con la sua banda selvaggia. Dii e virtus, gli dèi e il coraggio o l’energia virile, definiscono perfettamente il movente delle due prime funzioni; opes, risorse, potenza che consiste in beni e in mezzi d'azione, insieme con sanguis ac genus che designano i mezzi della fecondità e della generazione, caratterizzano con altrettanta precisione la terza funzione.
Romolo, non potendo contare altro che sulla propria condizione di figlio di un dio e sulle promesse di Giove, è costretto o ricorrere a soldati di mestiere e chiama tra gli altri Lucumo di Solonium, “uomo d'azione e illustre in cose di guerra”. Così viene sempre presentata la struttura della vicenda: il bisogno, la tentazione, l'intenzione, l'azione di Romolo, tendono a comporre una società completa, imponendo ai ricchi Sabini, di unirsi ai valorosi Etruschi e ai divini Romani.
La guerra occupa il quadro in due episodi. In ciascuno di essi, uno dei due partiti sta per raggiungere la vittoria, ma ogni volta la situazione all'ultimo momento torna ad equilibrarsi e la conclusione della contesa si allontana.
Tazio seduce con il miraggio dei braccialetti e dei gioielli d'oro che brillano alle braccia dei suoi uomini la figlia del romano incaricato di custodire la posizione importantissima del Campidoglio una vergine Vestale, Tarpeia, una sabina, figlia del comandante della rocca Spurio Tarpeio. Costei si offrì di aprire ai Sabini la porta della cittadella, o quali accettando, le scagliarono addosso sia i monili sia gli scudi uccidendola e precipitandola giù dalla rupe. Questa è una storia mitica che nasconde tecniche misteriche che non si potevano narrare, e dovevano essere mascherate.
«... la ragazza era andata oltre le mura ad attingere acqua per i culti rituali. Dopo averla catturata, la schiacciarono sotto il peso delle loro armi e la uccisero, sia per dare l'idea che la cittadella era stata conquistata più con la forza che con qualsiasi altro mezzo, sia per fornire un esempio in modo che più nessun delatore potesse contare sulla parola data». (Livio, Ab Urbe condita libri, I, 11. Versione Guido Reverdito)
Nel corso della battaglia divampata nella valle del Foro tra i compagni di Romolo, cui è rimasto il Palatino, e i Sabini di Tazio, padroni del Campidoglio, i primi cedono e si ritirano in disordine. Allora Romolo leva le armi al cielo e dice: “Giove, fidando nei tuoi auspici gettai qui sul Palatino le prime fondamenta di Roma. Libera i romani dal terrore e ferma la loro fuga vergognosa. In questo luogo prometto che ti erigerò un tempio, o Giove Stator, per ricordare alla posterità che il tuo soccorso tutelare ha salvato Roma”. E dal dio egli ottenne un intervento mistico o magico immediato, che, contro ogni aspettativa, capovolse il morale dei due eserciti e rovesciò le sorti del combattimento.
Dumézil in “La Religione romanica arcaica” scrive che il capo dei ricchi sabini e il semidio Romolo posseggono ciascuno un proprio mezzo per intervenire nella battaglia e inclinarne le sorti: il ricco ricorre all’oro, allo stratagemma vergognoso della corruzione pagata non ancora in denaro ma già in monili, e della corruzione di un cuore femminile; il semidio ottiene da Giove onnipotente il miracolo gratuito che trasforma la disfatta in vittoria. Per apprezzare la struttura logica di tutto il complesso basta constatare che non ci è possibile immaginare le parti invertite, Romolo che corrompe e Tito Tazio che ottiene il miracolo “diale” da Giove: non vi sarebbe più alcun senso. Tito Tazio e Romolo non agiscono secondo il loro carattere, bensì secondo la funzione che rappresentano.
Ecco allora la conciliazione: le donne si gettano in mezzo, fra i loro padri e i loro rapitori. E tutto finisce così bene che i sabini decidono di fondersi con i compagni di Romolo. Due re, divenuti pari, istituiscono ciascuno determinati culti: Romolo, soltanto il culto di Giove; Tito Tazio, i culti di una serie di Dèi in rapporto con la fecondità e con la terra, tra i quali si trova Quirino. Non si sentirà mai più parlare di dissensi fra la componente sabina e la componente Ialina, albana romulea, di Roma, né durante il duplice regno né in seguito. La società è completa. Ripetendo le parole di Livio: il gruppo di Romolo che da principio aveva dalla sua parte deos et virlutem ha acquisito ciò che gli mancava, opes, e inoltre le donne, pegno della fecondità nazionale.
Virgilio nell’Eneide (VIII, 639, 641) narra la prima grande riconciliazione: quella di Romolo e di Tito Tazio dei Latini e dei Sabini. l due re cessata la lotta, davanti all’altare di Giove, armati e reggendo le patere (coppe) stavano ritti, il patto con sangue di una porca sacrificata stringevano. Quando Romolo e Tito Tazio pongono fine alla guerra, fondano la società romana completa, essi fanno, ciascuno, opera religiosa e istituiscono dei culti, ciascuno secondo la propria funzione. Mentre Romolo, però, istituisce un solo culto, quello di Giove, Tito Tazio ne introduce a Roma tutta una serie, di cui Varrone precisa l'elenco con quattordici divinità.
Tito Tazio regnò assieme a Romolo, e per soli cinque anni, un periodo che dai romani era chiamata indizione. Dopo la sua morte, in seguito a un agguato, il corpo di Tazio fu riportato a Roma e sepolto sul colle Aventino. La sua tomba si trovava all’interno di un bosco sacro di allori (Loretum), situato nell'area dell’attuale piazza Giunone Regina. La figlia di Tito Tazio, Tazia, sposò il successivo re di Roma Numa Pompilio.
La leggenda dei tre capi Romolo Lucumone e Tito Tazio porta alle tre tribù: i compagni di Romolo divengono i Ramnes, quelli di Lucumone i Luceres e quelli di Tito Tazio i Titienses. È lecito pensare che le tre tribù primitive i cui nomi, tra l’altro, mostrano una consonanza etrusca. G. Dumézil interpreta che i Ramnes garantissero la direzione politica e il culto (come i compagni di «Remo» in Properzio, 4, l, 9-26), i Luceres rappresentassero gli specialisti della guerra (come Lucumone nel medesimo testo di Properzio, 26-29), e i Titienses fossero caratterizzati dalla loro ricchezza di greggi (come il Tazio di Properzio, 30)? La questione rimane aperta: ho fornito un certo numero di ragioni per rispondere affermativamente, ma nessuna di esse è costrittiva[1].
[1] La religione arcaica dei Romani p. 156. G. Dumézil.
ROMA CITTÀ ETRUSCA?
Per Orazio, come negli anni successivi per Properzio e per Virgilio, l’origine troiana è collegata con la componente etrusca. In Virgilio, l’Etrusco Tevere e il Palatino Romano, simboli indissociabili di Roma, sono uniti nella preghiera e affidati insieme agli dei della patria: Di patrii indigetes et Romule Vestaque mater | quae Tuscum Tiberini et Romana palatia servas ...
Dionigi di Alicarnasso (circa 60 a.C. - 7 d.C.), si lasciò sfuggire a denti stretti la frase secondo cui «molti degli scrittori sostennero che la stessa Roma era una città Tirrena» (cioè Etrusca). A denti stretti perché anche lui tendeva a dimostrare che Roma non era affatto una «fondazione etrusca», come molti scrittori avevano detto, bensì era una «fondazione greca». Ebbene, esistono numerose e consistenti prove di carattere storico, religioso, culturale e soprattutto di carattere linguistico che dimostrano che effettivamente Roma come città fu fondata, non dai Latini o dai Sabini, bensì dagli Etruschi.
Le città etrusche più vicine al sito dove fu fondata Roma erano Veio e Caere (Cerveteri). L’accertata e sicura presenza nella Roma della dinastia dei Tarquini induce a privilegiare come fondatrice della città di Roma appunto la città etrusca di Tarquinia, che era poco più distante delle altre due dal sito prescelto.
Tito Livio ci spiega che, a quei tempi, i Romani dell’aristocrazia conoscevano alla perfezione la lingua Etrusca, in quanto i giovani delle classi elevate andavano a compiere i loro studi a Caere. Non si trattava semplicemente di comprenderne la lingua, né di sapersi solamente esprimere correttamente, ma di parlarla senza inflessioni straniere, al punto da poter essere scambiati per un Etrusco. Questo ci fa supporre che anche in Roma e nelle loro famiglie i giovani dell’aristocrazia parlassero abitualmente la lingua degli Etruschi, probabilmente perché a Roma, tra la fine della monarchia e gli inizi della repubblica, era in atto un vero e proprio bi-linguismo.
Iscrizioni in lingua etrusca rinvenute nei depositi votivi del Foro Boario e ai piedi del Campidoglio provano che durante il VI secolo a.C. individui di lingua e cultura partecipavano ai culti della religione romana. Un vicus Tuscus, che come eloquentemente indica il nome alludeva alla presenza di una zona "etrusca" nel corpo urbano di Roma, esisteva del resto sul lato sud-occidentale della piazza del futuro Foro, tra il Campidoglio e il Palatino, a poca distanza dall'area sacra di Sant’Omobono.
Gli Etruschi scavarono grotte ad uso funebre, oracolare e sacrale in genere, come mai nessun altro popolo.
Queste grotte furono in seguito riutilizzate dai primi cristiani. A Roma nei sotterranei del Vaticano (il colle dei «vates», cioè dei dispensatori di vaticini e profezie) accanto alla presunta tomba di S. Pietro furono trovate nel 1949 sepolture di epoca precristiana. Un’antica tradizione riporta che in tempi remoti proprio sul Vaticano era un importante oracolo degli Etruschi.
Sull’origine del nome della città esistono le versioni più disparate. Escluso da tutti che possa derivare da Romolo o da Remo, si affaccia l'ipotesi che derivi dal greco "rome" che significa "forza", o da Rumon (antico nome del fiume Tevere) in senso di "fluviale", o da Ruma (mammella) nome di una potente famiglia etrusca, ma anch'esso antico nome del Tevere. Roma, poi, è il nome di una divinità, personificazione della città eterna, diffusasi dapprima in Asia Minore ed in Grecia, con il culto dell'imperatore, poi portata nella capitale ed inserita nel recinto dei santuari famosi. Questo culto si trova a Smirne, Chio, Alabanda, Mileto, Efeso, Atene (associato ad Afrodite). Le feste di questa divinità sono dette Romee.
La romanizzazione degli Etruschi fu processo di assimilazione e acculturazione che portò la civiltà etrusca a fondersi gradualmente con quella romana, sotto vari punti di vista: politico, giuridico, culturale e linguistico.
Il primo episodio che vede Roma prevalere sull’Etruria si ha nell’anno 396 a.C. con la conquista romana di Veio, che diede alla città vincitrice il controllo della foce del Tevere. Lo scontro è stato spesso mitizzato dalle fonti antiche (Tito Livio), che richiamavano all’episodio della presa di Troia.
La differenza principale tra gli Etruschi e i Romani è rappresentata dall’organizzazione del potere. Nel caso degli Etruschi questo non era nelle mani del più forte, né del più ricco, ma del più saggio. I Lucumoni erano i sacerdoti re che prima dei Romani erano degni di guidare e rappresentare il popolo. Prima che la civiltà progredisse verso forme più strutturate di gestione del potere, prima che scoprisse dunque la politica, al centro della vita comunitaria vi era la religione. Nel culto etrusco primeggiava una Grande Dea creatrice, la quale era venerata con servigi e rituali officiati da una rispettata casta femminile.
Ai tempi di Augusto, per il reclutamento dei pretoriani (gli unici reparti armati stanziati in Italia e i custodi della stabilità del principato) sceglievano, come zone preferenziali, l’Etruria e l’Umbria (all’Etruria ormai stabilmente legata anche sul piano religioso, il Latium vetus e le colonie antiquitus Romanae (Tac., Ann. IV, 5, 5) e che, soprattutto, per la milizia pretoriana usavano gli aggettivi fortis e pius (fortiter et pie militia functi), intendendo con fortis, appunto come Virgilio, la forza controllata dell'uomo civile, capace di fermezza e di razionalità, contrapposta alla feritas, la forza selvaggia e primordiale dei primitivi.
Roma non deriva da Romolo, “Ruma” è una parola etrusca che significa foce: la foce del fiume Tevere. La statua di bronzo della lupa[1] che allatta i mitici gemelli Oriolo e Remo, è etrusca; anche il fascio, simbolo del potere romano che diventerà il simbolo del fascismo è etrusco. Gli Etruschi fondavano le città, dove c’erano altre popolazioni che dominavano, nello stesso modo hanno fondato Roma. Un vicus Tuscus, che, come eloquentemente indica il nome alludeva alla presenza di una zona “etrusca” nel corpo urbano di Roma, esisteva del resto sul lato sud-occidentale della piazza del futuro Foro, tra il Campidoglio e il Palatino, a poca distanza dall'area sacra di Sant’Omobono. Virgilio, con l’Eneide volle riallacciare l’origine de Romani a quella dei Troiani e dei Pelasgi cioè agli Etruschi di cui i riti religiosi romani erano intrisi. I Romani, non vollero mai ammettere di essere stati governati dagli Etruschi i loro acerrimi nemici, per tanto descrivono Etruschi solo gli ultimi re.
Il mito narra che Romolo era figlio di padre divino e di madre terrena, allattato da una lupa. Chi si cela dietro il nome di Romolo?
- Il rito della fondazione eseguito da Romolo il primo re di Roma, cioè il tracciamento, del solco primigenio della città è un rito misterico etrusco.
- Numa Pompilio secondo Re di Roma, descritto come un Sabino per il nome Pompilio era probabilmente Etrusco in quanto come Sommo Pontefice inserì nella nuova nazione la sapienza degli antenati Pelagici e come si vedrà in seguito introducendo i segreti riti kabirici.
- Tullo Ostilio fu il terzo re di Roma. Hostis significa ostile, fu un re guerriero. Tullio non era romano e proveniva dalla gens Hostilia e la tribù dei Luceres, cioè degli etruschi. Gli Etruschi erano ottimi guerrieri.
- Anco Marzio (Marcio) fu il quarto re di Roma descritto di origine sabina, ma era il nipote di Numa.
- Servio Tullio fu il quinto re di Roma. Il carattere distintivo del suo regno fu il tentativo di fondere nativi ed etruschi, fece costruire sull'Aventino un tempio dedicato a Diana - Artemis. Servio Tullio fece sposare le sue due figlie con i figli di Tarquinio Prisco. Il maggiore Lucio Tarquinio detto poi Tarquinio il Superbo.
- Tarquinio Prisco di padre greco e di madre etrusca, venne in cerca di fortuna perché a Tarquinia chi non era completamente etrusco veniva limitato nei suoi diritti. E Tarquinio divenne il sesto re di Roma, come prima lo erano stati cittadini di origine latina e sabina.
- Tarquinio il Superbo anch’esso etrusco divenne il settimo re di Roma.
Anco Marzio sarebbe soltanto un duplicato di Numa, come si potrebbe dedurre dal suo secondo nome, Numa Marzio, dal confidente e pontefice di Numa, non essendo nient’altro che Numa Pompilio stesso, rappresentato come sacerdote. L’identificazione con Anco è indicata dalla leggenda che indica quest'ultimo come costruttore di un ponte (pontifex), il costruttore del primo ponte di legno sopra il Tevere. È nell'esercizio delle sue funzioni sacerdotali che la somiglianza è mostrata più chiaramente.
Secondo l’imperatore Claudio[2], Servio Tullio, con il nome di Macstarna, avrebbe avuto un ruolo importante nella storia di Vulci, città etrusca. Amico di Celio e Aulo Vibenna, signori etruschi di Vulci, avrebbe combattuto al loro fianco senza fortuna. Con i resti dell'esercito si sarebbe posto al servizio di Tarquinio, che per ricompensa gli avrebbe permesso di abitare con i suoi compagni sulla collina a cui diede il nome di Celio, in onore del suo capo. Macstarna è che tradisce l’origine etrusca, deriva da magister e significherebbe qualcosa di analogo a “il condottiero”. Il termine servus, non di origine indoeuropea e forse etrusco, significava straniero senza diritti, apolide. In sostanza il sesto re di Roma sarebbe stato conosciuto con un nome etrusco a Roma ed uno latino in Etruria.
La storia di Macstarna risaliva alle saghe etrusche, come dimostrano gli affreschi della Tomba François nella necropoli di Ponte Rotto a Vulci (340-330 a.C.), appartenente alla famiglia aristocratica dei Saties. n questi affreschi vi sono sia scene riferibili al mito della conquista di Troia.
Servio Tullio fece costruire sull’Aventino un tempio dedicato a Diana, o Artemis, fu un atto sia religioso e sia politico perché mirava a riunire politicamente e religiosamente Roma, il Lazio e l'Etruria meridionale, a somiglianza del sistema federale etrusco dei Dodici Popoli. Artemis era venerata in uno dei santuari più nascosti fra le foreste vergini dell’antichità: la Diana del Lago di Nemi. Era mistericamente “La Dama dei Cigni” cioè delle cicogne pelasgiche, i discendenti di Dardano. Nel Bosco Sacro di Nemi veniva praticata una doppia iniziazione, sacerdotale e guerriera. Fanum Voltumnae, il Bosco Sacro, era la zona sacra consacrata al dio Veltha (Vulcano), cuore geografico e spirituale dell'Etruria e centro di riunione dei massimi capi etruschi, i Lucumoni.
Gli studiosi sono concordi nell’attribuire al primo dei Tarquini l’istituzione dei simboli della regalità Romana. (l’aquila, la corona, la veste di porpora, la sedia curule). Regnante ancora Anco Marzio, Tarquinio, il Prisco, si trasferì in Roma con i suoi servi e la sua famiglia. Arrivato ai confini della città, esattamente sul mitico colle di Giano, si verificò un portento: un’aquila apparve nel cielo e con le grandi ali prese a librarsi al di sopra del futuro re, poi improvvisamente discese fino a Tarquinio e, veloce come un fulmine, afferrò il suo pilleus, lo tenne per un attimo stretto tra gli artigli, quindi glielo rimise sul capo. I presenti restarono sgomenti ed impauriti, ma Thanaquil, moglie di Tarquinio, sorrise: ella spiegò che quello era il segno di un’incoronazione sacra.
Secondo lo scrittore Macrobio il re Lucio Tarquinio Prisco (Primo), fu iniziato ai Misteri di Samotracia e portò in Roma il culto di Cibele. Nell’isola egea di Samotracia la dea aveva un suo santuario, celebre in tutto il mondo antico. Là venne iniziata la famiglia reale macedone, Alessandro Magno, il padre Filippo e la madre Olimpia, là si recavano per esse re iniziati uomini e donne provenienti dalle più lontane terre. Lucio era l’abbreviativo di Lucumone in lingua etrusca, Lucumone significa re: un nome che non si addice al figlio emarginato di un mercante greco esule a Tarquinia. La tradizione romana e, soprattutto, la versione di Tito Livio, che attribuisce a Prisco un padre greco e di madre nobile etrusca, sembra dunque viziata.
Ai Tarquini è dovuto l’avvento di moltissimi elementi culturali Tirrenici, a partire dalla sacra Triade. A conferma di ciò Vitruvio scrive che i templi a tre celle, dedicati a Giove, Giunone e Minerva, erano propri alla sfera religiosa del mondo Etrusco. Furono i re Etruschi a volere il tempio grandioso della Triade, commissionando a Vulca, il più famoso coroplasta d’Etruria, la Quadriga (divenuta poi una dei sette pignora) che ornava l’acroterio e la statua in terracotta policroma del dio. Tra le divinità di origine Tyrrenica spiccano gli enigmatici Dèi Consenti, che Varrone identifica con i Penati.
Con i re Tarquini giunsero in Roma anche i Ludi Scenici ed Equestri, e per questi ultimi Tarquinio fece sistemare ed ampliare il Circo Massimo ed istituì i Ludi Maximi, che ai nostri occhi sembrano essere solamente semplici anche se grandiosi spettacoli, ma che per i Romani avevano un risvolto sacrale e magico. Ricordiamo per inciso l’importanza giochi rituali nell’Iliade e nell’Eneide.
I Ludi Taurii (giochi taurini, anche noti come Ludi Taurei e più raramente Taurilia) si tenevano in onore degli dèi inferi, gli dei del mondo dei morti. Nella tradizione registrata da Festo, i giochi furono istituiti nel periodo regio, quando Tarquinio il Superbo era re. Anche Servio colloca la loro origine sotto il suo regno. Questi giochi non facevano parte di una festa religiosa regolarmente programmata nel calendario, ma si tenevano come riti espiatori religionis causa, provocati cioè da preoccupazioni religiose.
Secondo una tradizione, Tarquinio il Superbo fu cacciato dai Romani e chiese aiuto al lucumone di Chiusi, Porsenna, che venne però sconfitto dagli eroi Orazio Coclite e Muzio Scevola. Secondo il racconto di Tacito invece fu lo stesso Porsenna invece a cacciare l’ultimo re e a imporre ai Romani gravose condizioni di pace. Da allora i Romani presero in odio la monarchia e cominciò a prendere corpo l’ordinamento repubblicano. La fine della mitica monarchia fu dunque opera di un grande Re e condottiero etrusco, Porsenna.
Tutto lascia pensare che il numero sette dei primi Re sia stato creato con la nascita del mito di Roma, per mascherare o nascondere secondo altri le origini etrusche di Roma.
Alla fine del I sec a.C. l’Aruspice Tarquizio Prisco, della famiglia dei Tarchna di Caere, e Aulo Cecina, tradusse dall’Etrusco al Latino parecchi di questi scritti sacri. Di essi vengono particolarmente menzionati gli Ostentoria, tratti dai Libri Fatales, dai quali J. Heurgon ritiene che Virgilio abbia ricavato le nozioni su cui si basano le profezie della IV Egloga. Quando poi Roma si avviava a diventare la padrona del mondo, Augusto volle che questi testi fossero custoditi nel tempio di Apollo Aziaco sul Palatino. Purtroppo, sia i libri dell’Etrusca disciplina come i Libri Vegonici furono fatti distruggere da Teodosio e Onorio. E molti secoli dopo, e siamo già nel IV sec d. C., Macrobio inserisce nei Saturnalia due brani presi l’uno dalla traduzione di Tarquizio Prisco degli Ostentoria e l’altra dal trattato Sui prodigi degli alberi, sempre tradotto da Tarquizio.
Al tempo dei Tarquini, in occasione della costruzione del tempio di Giove Capitolino, il sacello di Terminus, dio dei confini, non solo non fu rimosso ma addirittura fu inglobato in quello di Giove. E’ chiaro che qui ci si trova al cospetto della concezione cosmogonica degli Etruschi, dove Giove vi appare come dio creatore e protettore dei ”termini”, per cui Terminus si configura come uno degli aspetti di Giove medesimo.
A Roma la corporazione dei fabbri, rappresentata da quei Collegia Fabrorum che erano preposti alle iniziazioni relative alle arti e ai mestieri, controllava in modo più o meno diretto, la lavorazione e la produzione di armi e delle monete. I numi protettori dei Collegia Fabrorum erano Minerva e Vulcano. L’antico nome di Minerva, dall'etrusco Minerua o Menerva è etimologicamente in relazione con i “minerali”. La stessa parola «mens» (dalla radice sanscrita men) rivela un altro importante simbolismo associato a questa Dea, la “Sapienza”.
Associato a Minerva era il dio Vulcano, il greco Efesto, l'etrusco Velchan, dio-fabbro zoppo, la cui fucina era in un vulcano,considerato protettore di artigiani, ed in particolare dei fabbri.
[1] Questo animale era sacro a diverse divinità, tra cui lo stesso Marte, padre di Romolo e Remo. Sul Palatino lo ritroviamo insieme al capro, simbolo del dio Fauno, in una associazione mistertica, il Lupercus.
[2] Claudio affascinato dagli Etruschi ed avendo, fra l’altro, sposato una nobile etrusca, sicuramente aveva avuto accesso all’archivio di qualche famiglia etrusca, scrisse i Tirrenika in venti volumi, spariti nel nulla. Stessa sorte subirono gli Annuali Etruschi custoditi nel Tabularium Capitolinum, che narravano la vera origine dei Romani, i Libri Etruschi e i Tusci libelli, conservandosi soltanto qualche frammento negli autori latini. Claudio nel 15 d.C. sposò in prime nozze una donna di origini etrusche, Plautia Urgulanilla (8 a.C. - dopo 28 d.C.), da lui ripudiata pochi anni prima di diventare imperatore. La nonna paterna Urgulanilla era discendente dalla gens etrusca Urgulania; anche sua madre Lartia era di origini etrusche.
NUMA POMPILIO
Si ritiene che Numa Pompilio non sia esistito, o che era un Sabino, ma tutto quello che la tradizione afferma che fece e istituì era misterico ed etrusco. Il nome “Sabini” è stato attribuito a questo popolo dai Romani, mentre gli stessi si chiamavano “Numani” ad indicare la discendenza dal dio NU. Il territorio di Nemi fu celebre al tempo dei Romani per il tempio dedicato a Diana (Artemis) Nemorense. Nemesis è la dea della giusta punizione, e nomos è la legge, il giudice esecutore è nemesis, ovviamente. Numa era re sacerdote e legislatore. La figura di Nemesi è stata paragonata anche a quella forma d’apparizione di Artemis che era venerata in uno dei santuari più nascosti fra le foreste vergini dell’antichità: la Diana del Lago di Nemi.
In età romana venne consacrato a Diana un nuovo tempio sulla collina di Ariccia, anche dedicato al semidio Virbio e alla ninfa Egeria. Quest’ultima era consigliera, ispiratrice e sposa del secondo re e sacerdote di Roma, Numa Pompilio, e si narra che alla morte di lui si sciogliesse in lacrime nel bosco di Ariccia, finché Diana, impietosita dal suo dolore, la trasformò in una fonte.
Numa Pompilio proveniva dalla Sabinia. Uno dei culti più misteriosi del pantheon romano veniva celebrato in Sabinia sul Monte Soratte o Pater Soranus. Sulle pendici orientali del monte si aprivano dei pozzi profondi da cui ancora oggi fuoriescono consistenti nebbie di condensazione che già molti autori romani come Servio descrivevano come vapori propri del culto di Apollo ctonio Sorano. Augusto affidò a Virgilio la sua inclusione nel pantheon romano attraverso la citazione nell'Eneide; l’episodio è quello di Camilla, eroina volsca che viene uccisa dal guerriero etrusco Arunte. Il giovane guerriero si rivolge al Pater Soranus perché lo protegga nella missione difficile di uccidere Camilla.
Nell’antichità, sulle creste di quel monte, un misterioso collegio sacerdotale tramandava riti antichissimi. Erano gli Hirpi Sorani, i Lupi di Sorano, il dio italico che assumeva i tratti apparentemente paradossali di un Apollo ctonio. Come nel caso dei Luperci romani, gli Hirpi Sorani formavano un sodalizio di uomini preposti all’esecuzione di riti purificatori con il fuoco. Il rito degli Hirpi Sorani è stato descritto anche da Varrone che spiega come i sacerdoti riuscivano a farlo dopo essersi sfregati sulla pianta dei piedi “una droga che impediva l’azione del fuoco” anche se poi li descrive come “coloro che sono posseduti da una divinità”.
Gli studi etimologici sembrano poi confermare che il termine “sorani” era proprio usato per designare dei sacerdoti in quanto il termine deriverebbe dalla lingua falisca e sorex sarebbe un titolo sacerdotale che è stato anche individuato nell'iscrizione del lapis niger del Foro Romano … quoi sakros esko sora, riconosciuto come un testo religioso.
La nascita di Numa era avvenuta esattamente nel giorno della fondazione di Roma, particolare questo in cui i Romani vedevano un segno indecifrabile della volontà degli Dèi. Numa fu eletto re quanto aveva 40 anni, un’età misterica. Mosè il Legislatore per 40 anni (nascita compresa!) è stato re nella terra dei mori, 40 anni è stato con Jethro il Sacerdote madianita, 40 anni è stato nel deserto. Mosè va sul monte di Dio e vi dimora per 40 giorni e notti. Regnò per 43 anni. Il numero 43 è il 14° numero primo, Numa scrisse 7+7 libri conservati in un secondo sarcofago accanto al suo. Il Numero 43, scomposto dai numeri 4 e 3 simboleggia, il quadrato (4), e il triangolo (3), la somma dei due è sette (7). A Numa si ascrive pure la costruzione del santuario di Vesta, dov’è custodito il fuoco perenne. Questo edificio a forma circolare riproduce non la figura della terra, con cui è identificata Vesta, ma di tutto l’Universo, nel cui centro i Pitagorici pongono la sede del fuoco, che chiamano Vesta e Unità. Ecco perché Numa era definito l’amico di Pitagora. Pitagora prescriveva una prostrazione ed una posizione circolare durante le ore di contemplazione; Numa si adoperò per diffondere questa usanza nel popolo Romano. Gli stessi sacrifici – ci tramanda Plutarco – risentono in pieno delle forme di culto pitagoriche. In genere non comportavano spargimento di sangue; erano fatti mediante farina (pane), vino, latte, e altri generi di costo minimo, inoltre il Re Numa chiamò uno dei suoi quattro figli Mamerco come il figlio di Pitagora.
Numa dopo la sua elezione come per gli Etruschi continuò comunque a frequentare boschi sacri, e luoghi di devozione, spesso di notte. La Ninfa viveva in una grotta nascosta e occultata alla vista da un impraticabile sentiero nel mezzo di un boschetto ai piedi del Celio. La leggenda narra che in questo bosco sacro Numa incontrasse la Ninfa Egeria che si innamorò di lui e divenne sua sposa celeste (cioè la Sapienza Segreta , Divina), con la quale s’incontrava di nascosto la Sapienza misterica era comunicata da bocca a orecchio. La leggenda narra che la ninfa, al momento del trapasso del Re, distrutta dal dolore, si sciolse in lacrime dando vita alla fonte Egeria, nel bosco di Aricia, sui Monti Albani. Numa Pompilio preso i romani stessi, sia per il suo dialogo con la ninfa Egeria, sia per il suo stile di vita, veniva considerato possessore di poteri magici.
Figura 1. Numa e la Ninfa Egeria Museo Archeologia Roma
Narra la leggenda che Numa Pompilio fosse stato partorito nel tempio di Cerere. Fa pensare a un culto dove la Dea era la Magna Mater che dava la luce, o Dea Lucina. Egli instaurò per ispirazione della Ninfa Egeria il culto di Tacita, Dea del silenzio iniziatico, equiparata ad Iside, colei che richiede il silenzio nei Sacri Misteri.
Appena divenuto re nominò, a fianco del sacerdote dedito al culto di Giove ed a quello dedicato al culto di Marte, un terzo sacerdote dedicato al culto del dio Quirino. Il nome Quirino, deriva da Curia (lancia) e corrisponde proprio al Marte. Riunì poi questi tre sacerdoti in un unico collegio sacerdotale che fu detto dei Flamini cui diede precise regole ed istruzioni.
Istituì il collegio sacerdotale dei Pontefici, presieduti dal Pontefice Massimo, carica che Numa ricoprì per primo e che aveva il compito di vigilare sulle Vestali su cui era capo, e sulla moralità pubblica e privata e sull’applicazione di tutte le prescrizioni di carattere sacro.
A Numa come a Romolo si attribuiscono la consacrazione delle sacerdotesse a Vesta e la venerazione del Fuoco Sacro come principio divino, affidato alla custodia delle sacerdotesse che presero così il nome di Vestali, secondo il culto che Enea avrebbe portato da Troia in Italia, chiamato di Vesta Iliaca, culto antichissimo conosciuto dai Patriarchi. Enea con i pochi sopravvissuti lasciò Troia e dopo l’avventurosa traversata approdò nella feconda “Terra Nera“, la “Terra di Saturno“, Saturnia Tellus come la chiama Virgilio, l’Italia, per fondare le basi di un nuovo centro di manifestazione della luce. Numa dunque, istituì poi il collegio delle vergini Vestali assegnando a queste la cura del tempio in cui era custodito il fuoco sacro della città; le prime furono Gegania, Verenia, Canuleia e Tarpeia (erano dunque quattro, Anco Marzio ne aggiunse altre due portandole a sei).
Numa, il re filosofo, fu iniziato dai sacerdoti etruschi, ed istruito da loro nel segreto di far scendere sulla terra il fulmine, vedi Ovidio, Fasti, I, cap.31. Durante l’ottavo anno del regno, Numa aveva concentrato tutta la devozione sua e del popolo in solenni rituali volti ad allontanare la brutta pestilenza che affliggeva Roma, provocata dai fulmini scagliati da Giove adirato. Numa consultò Egeria e questa gli consigliò di rivolgersi a Pico e Fauno, personaggi della più antica mitologia italica. Questi numi silvestri dalla natura selvatica e poco socievole avrebbero aiutato il re solo se costretti con la forza. Astutamente Numa li attirò con offerte di vino per catturarli addormentati dopo le libagioni e li costrinse a recitare un rituale misterioso (carmina?) che aveva l’arcano potere di far scendere sulla terra le folgori di Giove. Cosa e chi rappresentano Pico e Fauno? Virgilio nell’Eneide ci dice che Fauno è un antico re del Lazio, nipote di Saturno o di Marte, figlio di Pico e Canente o Pomona e, padre di Latino. Secondo dei miti romani, ripresi poi nell'Eneide da Virgilio, Fauno era lo sposo di Marica, divinità delle acque, dalla quale ebbe Latino.
- Pico, figlio di Saturno, primo dei Re Latini, nominati Aborigeni, regnò 37 anni e fondò Albalonga e fondò la città di Laurentum.
- Fauno, suo figlio, regna 44 anni.
- Latino, suo figlio, regna 34 anni.
- Enea, figlio di Venere, con i Troiani sposa Lavinia figlia del Re Latino, al quale succede, regna circa 3 anni.
Pico (Picus) narrano Virgilio e Ovidio, che un giorno, andando a caccia sul monte Circeo, fu scorto dalla maga Circe che se ne innamorò. Avendo rifiutato l’amore di Circe, fu da questa trasformato in un picchio verde, animale sacro al dio Marte. Virgilio descrive il tempio del Dio Mamerte che si trovava in alto su una rocca e che era stato la dimora del Re Pico, qui si riuniva la curia ed i patres vi tenevano i banchetti solenni dopo le cerimonie:
Nel vestibolo in ordine disposte stavan l'effigie degli antichi padri scolpite in cedro: Italo, Sabino (primo cultore della lente vite con la ricurva ronca sotto il busto); ed il vecchio Saturno e il simulacro del Dio bifronte (Giano) e gli altri re aborigeni che per la patria, in guerra, combattendo soffersero ferite. Ai sacri stipiti erano appese l'armi prese in guerra; asce ricurve, cocchi, creste d'elmi, gran serrami di porte, giavellotti, e scudi e rostri svelti alle carene. Col quirinale lituo ivi sedeva, di corta trabea mantellato, Fico, domator di cavalli, e il curvo ancile con la manca reggeva (Eneide Lib. VII – Trad. Adriano Bacchielli)
Fauno (Faunus) era il dio dei pascoli e dell’agricoltura, contrapposto al dio dei boschi, Silvano. Era anche chiamato "Luperco". Si tratta di una delle più antiche divinità italiche, nonché dell'istitutore dei Salii e dei Luperci, le due solidalitates dedicate al culto iniziatico di Marte.
Nell’ottavo anno del suo regno istituì il collegio dei Salii, che secondo sia Plutarco che Livio furono istituiti per custodire l’Ancilia, lo scudo caduto dal cielo inviato da Marte. L’origine di questi sacerdoti non è sicuramente romana, è molto probabile che sacerdoti simili esistessero già presso gli Etruschi. Una prova è il ritrovamento in una necropoli di Veio (necropoli dei 4 fontanili, tomba AA1, VIII sec. a.c.) di un corredo con uno scudo bilobato e una mazza, questi strumenti che si ipotizza appartenessero ad un re connotato per il suo valore nelle istituzioni religiose, sono molto simili agli strumenti utilizzati dai sacerdoti salii. L’origine di questa tradizione oltre ad essere etrusca è molto antica.
"Chi mi racconterà perché i Salii portano le armi divine di Marte e cantano di Mercurio? Dimmi, o ninfa, chi si aggira nel bosco e nel lago di Diana: tu, o ninfa, coniuge di Numa,raccontami le tue azioni! Nella valle di Ariccia è un lago circondato da una selva oscura, sacro per un'antica religione. Qui giace Ippolito fatto a pezzi degli zoccoli dei suoi stessi cavalli; per questo in quel bosco è loro interdetto l'accesso. Il lungo recinto è adornato con drappi appesi e molte tavole attestano i meriti della dea. Spesso donne i cui voti sono stati esauditi portano da Roma torce accese, con ghirlande fra i capelli. Il potere è tenuto da chi è forte di mano e veloce di piede, e ciascuno muore così come ha ucciso."[1]
Il Re-Jerofante Numa istituì il collegio dei Salii di Mars Gradivus, mentre il guerriero e impulsivo Tullo Ostilio, in piena guerra promise di istituire un secondo collegio dei Salii di Mars Tranquillus, se sarà vincitore dei Sabini.
Fra le molte istituzioni religiose attribuite a re Numa Pompilio, Plutarco ricorda ancora quella dei Feziali. I Feziali erano dei magistrati - sacerdoti la cui funzione era quella di trattare con i popoli vicini per evitare la guerra, nonché di aprire le ostilità quando vedevano falliti i propri tentativi di conciliazione. Si credeva che una guerra iniziata senza il consenso dei Feziali o contro la loro volontà sarebbe stata nefasta ed ingiusta.
A Numa non è ascritta alcuna guerra, bensì una serie di riforme tese a consolidare le istituzioni della nuova città, prime tra tutte quelle religiose, raccolte per iscritto nei commentarii Numae o libri Numae, che andarono perduti nel sacco gallico di Roma (387 a. C.).
Figura 2. Moneta raffigurante Numa
A Giano Numa dedica il tempio delle “Porte della guerra” che veniva chiuso solo in tempo di pace. Sotto Numa Pompilio le porte di Giano rimasero chiuse ininterrottamente per tutti i 43 anni del suo regno. Le porte, dopo Numa Pompilio, furono chiuse solo due volte, nel 235 a.c. durante il consolato di Attilio Bulbo e di Tito Manlio Torquato e durante l’impero di Augusto.
La tradizione romana rimanda a Numa Pompilio la definizione dei confini tra le proprietà dei privati, e tra queste e la proprietà pubblica indivisa, statuizione che fu sacralizzata con la dedica dei confini a Jupiter Terminalis, e l'istituzione della festività dei Terminalia.
Etrusco era anche il concetto di sacralizzazione dei confini, e ce ne dà testimonianza un brano, giunto fino a noi ai tempi di Cicerone:
Sappi che il mare è stato separato dal cielo quando Giove rivendicò la terra di Etruria e stabilì che le pianure e i campi fossero limitati e misurati. Conoscendo l’avarizia umana e la passione suscitata in loro dalla terra, volle che tutto fosse definito dai segni dei confini. Questi segni, quando sul finire dell’ottavo secolo verranno da qualcuno rimossi, per questo delitto sarà condannato dagli Dèi. Se sono schiavi, cadranno in servitù peggiore, se padroni, la loro casa sarà abbattuta e la loro stirpe perirà per intero. Coloro che avranno spostato i segni (dei confini) saranno colpiti dalle peggiori malattie, la terra sarà poi scossa da tempeste, i raccolti distrutti. Sappi che queste punizioni avranno luogo quando tali delitti si verificheranno.
Contrariamente al costume locale che era quello di bruciare il cadavere su una pira, il corpo di Numa Pompilio fu sepolto in una tomba sul Gianicolo; due i sarcofagi nel secondo furono depositati i libri, scritti di suo pugno, con cui dava istruzioni ai futuri Pontefici. Tito Livio spiega che, quando alcuni contadini stavano scavando ai piedi del Gianicolo, trovarono i due sarcofagi di pietra con iscrizioni in greco e latino, secondo i quali Numa Pompilio fu sepolto lì con i suoi libri; che una volta si aprì, si scoprì che il corpo era vuoto, ma che l'altro conteneva quattordici libri; sette in latino di diritto pontificale e sette in greco di filosofia, cioè amore per Sophia la Sapienza segreta. Secondo lo stesso autore, il pretore li ha letti e, ritenendoli pericolosi, probabilmente a causa della continua preferenza di Numa Pompilio per la pace e il progresso, che contraddiceva così la tradizione, pensava che avrebbero dovuto essere bruciati. Il caso raggiunse il Senato, il quale confermò l'opinione del pretore, e i primi furono conservati con cura, mentre i secondi furono pubblicamente bruciati. Per contro, Dionigi di Alicarnasso, assicura che il Pontefice Massimo li nascose in un luogo segreto.
Dionisio di Alicarnasso in Antichità Romaniche (II, 66, 6) c’informa sull’obbligo del segreto nei confronti di certi riti su cui vigeva l’assoluto divieto di tramandarli per iscritto. Il sacro timore della rivelazione, che si accompagna alle dee arcaiche del silenzio Tacita Muta e Angerona, è stato alla base anche della separazione all’interno del ricco pantheon romano tra Dèi Consentes (Dodici Dèi di origine etrusca, citati da Quinto Ennio nel suo poema “Annales”) e Dèi dal nome impronunciabile persino dai sacerdoti Salii, dediti al culto del dio Marte, i cosiddetti Dèi involuti (ignoti), di cui non si conoscevano nomi e numero. I riti misterici erano contraddistinti da elementi comuni, il più importante dei quali era la segretezza: l'accesso era vincolato a una cerimonia di iniziazione, rito indispensabile alla piena partecipazione al culto.
Come per i vicini Etruschi, la società dei Romani era così saldamente focalizzata intorno alle pratiche sacre, che gli stessi nomi delle divinità da noi conosciute, probabilmente non furono che epiteti, nomi formali, buoni per il pratico uso quotidiano, ma diversi dai veri nomi divini, che mai dovevano essere pronunciati, se non nei riti e solo dai sacerdoti che ne affidavano il culto. I nomi degli Dèi come per tutte le religioni misteriche, molto verosimilmente non furono che epiteti e non i nomi impronunciabili e sacri.
Tito Livio a proposito delle guerre sannitiche narra di giuramenti terribili imposti ai nobili ed ai guerrieri illustri, cooptazione, armi splendide, abito bianco; è veramente, secondo l'espressione dello storico, una sacrata nobilitas che trascina l’esercito al combattimento. Georges Dumézil scrive che a Roma dei Cesari gli ultimi rappresentanti di queste truppe eroiche e magiche forse esistono, ma non combattono: potrebbero essere i due gruppi di sacerdoti Salii, di Marte e Quirino.
In un momento decisivo in cui si disputava la supremazia nel Lazio tra i Romani ed i Prischi Latini, nel luogo dove si sarebbero celebrati i Ludi Taurii, l’esercito di Roma era sul punto di scontrarsi con quello dei popoli Albani. A quei tempi la zona era un deserto paludoso, ricco di sorgenti calde, dalle quali si sollevavano vapori sulfurei. E proprio lì avvenne il prodigio: ai Romani che erano già pronti a dare battaglia apparve un essere imponente, vestito di una pelle scura, il quale comandò loro di sacrificare agli Dèi inferi o sotterranei. Subito fu scavata una fossa, entro la quale venne eretto e consacrato un altare a Proserpina e Dite. Compiuto il sacrificio, la buca fu chiusa con uno spesso strato di terra. Chiaramente si trattava di un mundus.
Le arti rituali e magiche dei sacerdoti erano reputate capaci di ergersi a protezione delle città e dei suoi abitanti. Minerva fu anche considerata protettrice della città di Roma ed il Palladio, una misteriosa pietra, forse di origine meteoritica, era il simbolo sacro del potere minerviano, il massimo talismano magico a difesa del destino della città eterna e del suo popolo. Nella provenienza troiana del Palladio e nella sua istallazione sul colle Palatino, si deve individuare il passaggio del potere e del primato civilizzatore che, iniziatosi in Asia Minore, proseguito in Atene, trovò il suo culmine in Roma.
Secondo la leggenda, Troia non sarebbe mai caduta finché il Palladio fosse rimasto dentro le sue mura. Allo stesso l’urbe non sarebbe caduta finché il Palladio portato in Italia da Enea sarebbe rimasto in Roma. Il talismano si trovava nel tempio di Vesta - l’Esta Iliaca - dove fu istituito quel culto vestalico che veniva officiato dal Pontifex Maximus, cioè dalla più alta carica della casta sacerdotale. Il Palladio era uno dei sette talismani magici nell’antica Roma noti come pignus/pignora, cioè pegni.
La Magia è vecchia quanto l’uomo, non la si può più qualificare come ciarlataneria o allucinazione. La Magia è indissolubilmente fusa con la Religione di ogni paese e ne è inseparabile fin dalle origini. La magia è costituita ed acquisita attraverso il culto degli dèi, disse Platone. Frazier, nel suo Ramo d'Oro, dedica alcuni capitoli iniziali (pag. 32 e segg.) alla Magia, dividendola in Teoretica (Magia come pseudo-scienza) e Pratica (Magia come pseudo-arte). La Pratica egli divide ulteriormente in Magia positiva (sortilegio) e Magia negativa (tabù), definendo la prima come "produzione di un evento desiderato" e la seconda come "evitare un evento indesiderato". Ed ancora più sorprendente è il parallelo che egli stabilisce fra magia e scienza. La magia, afferma Frazier, nella sua forma più pura e genuina, parte dal presupposto che in natura ad un evento ne segue necessariamente ed invariabilmente un altro, senza alcun intervento soprannaturale o individuale. La scienza, da parte sua presuppone una successione perfettamente regolare e certa degli eventi, determinata da leggi immutabili, la cui azione è prevedibile e calcolabile con precisione. Esiste, quindi, una stretta analogia fra le concezioni magiche e quelle scientifiche del mondo.
Che la magia fosse naturale e non soprannaturale, e che gli antichi la considerassero tale, è dimostrato da quello che afferma Luciano del “filosofo ridente”, Democrito, che, egli dice ai suoi lettori:
Non credeva in nessun [miracolo] ... ma si applicò a scoprire il metodo con cui i teurgi erano in grado di produrli; in una parola, la sua filosofia lo portò alla conclusione che la magia era limitata all’applicazione e all’imitazione delle leggi e delle opere della natura.
Democrito i Magi lasciati da Serse ad Abdera erano stati i suoi istruttori ed egli, inoltre, aveva studiato magia per un tempo considerevolmente lungo, presso i sacerdoti egizi2.
Luciano in “De dea Syria” (Peri tês Suriês Theou), descrivendo il tempio di Hierapolis, di “Dèi che manifestano la loro presenza liberamente”. Inoltre scrisse che una volta viaggiò con un sacerdote di Memphis, che gli raccontò che aveva trascorso ventitré anni nelle cripte sotterranee del suo tempio, ricevendo istruzioni di Magia dalla stessa Dea Iside. Il passaggio che concerne il sacerdote di Memphis si trova nel “Philopseudes” di Luciano, dove egli viene descritto come uno dei sacri scribi di Memphis, molto versato in tutta la sapienza degli egiziani.
I Romani considerarono sempre il rapporto con il mondo divino essenzialmente come un contratto: il singolo individuo, o un gruppo familiare o sociale, o se vogliamo l’intera comunità, prestavano agli dèi il culto dovuto ma si aspettavano in cambio, e a volte quasi pretendevano, il soddisfacimento delle loro invocazioni. La richiesta, doveva avvenire con un preciso formulario e con riti e sacrifici compiuti secondo un preciso e minuzioso rituale rimasto invariato attraverso i secoli. Nell’antica Roma si praticavano sia cerimonie magiche private, e sia riti teurgici pubblici difensivi e offensivi dell’Urbe.
[1] Ovidio Fasti III, 262-272.
[2] Diog. Laerzio, Vite, etc., “Democritus”, 34, 35.
LE SETTE COSE FATALI DI ROMA
Servio Mario Onorato commentando il Libro VII dell’Eneide, l’origine dell’Ancile caduto dal cielo e della creazione di undici copie identiche da parte del fabbro Mamurio, ci rivela che vi erano custodite a Roma Sette cose fatali, dei talismani, delle garanzie, dalla cui conservazione dipendeva il destino della città. Il commento di Servio all’Eneide è un richiamo a riti, culti, divinità, risalenti ad antichissime ascendenze etrusche poi filtrate nella romanità. Le reliquie fatali erano denominate pignus/pignora, cioè pegni, garanti, ossia assolvevano la funzione di talismani e nell’antica Roma erano i protettori dell’impero, garantivano la sua continuità, il potere e la sua stabile conservazione, nonché l’invincibilità. Il termine pignora conduce all’idea di contratto, alla garanzia riguardo alla protezione di Roma fino a quando essi fossero rimasti custoditi all’interno della città. Sette pignora, sette colli, su cui fu edificata Roma.
Succinctus trabea toga est augurum de cocco et purpura. ancile scutum breve. regnante Numa caelo huius modi scutum lapsum est, et data responsa sunt, illic fore summam imperii, ubi illud esset. quod ne aliquando hostis agnosceret, per Mamurium fabrum multa similia fecerunt: cui et diem consecrarunt, quo pellem virgis feriunt ad artis similitudinem. dicimus autem 'hoc ancile' et 'haec ancilia', anciliorum' vero usurpavit Horatius dicens “anciliorum et nominis et togae oblitus”
“Septem fuerunt pignora, quae Imperium Romanum tenent: Acus Matris Deum, Quadriga fictilis Veientanarum, Cineres Orestis, Sceptrum Priami, Velum Ilionae, Palladium, Ancilia”.[1]
«Ci furono sette garanzie a tenere il potere a Roma: l’Ago della Madre degli Dèi, la Quadriga di argilla dei Veienti, le ceneri di Oreste, lo scettro di Priamo, il Velo di Iliona, il Palladio, gli Ancilia»
Servio Mario Onorato (IV-V sec d.C.) fu maestro di grammatica a Roma, famoso interprete di Virgilio, di cui scrisse un prezioso commento giuntoci in varî mss. dal IX sec. Questo contiene una Vita di Virgilio e il commento all'Eneide, alle Bucoliche e alle Georgiche, condotto con metodo scolastico, dominante nel commento è la presentazione di Virgilio come il "Savio" cioè l’Iniziato, per eccellenza. Nel IV e nel V secolo il grammaticus è un vero e proprio custode della sapienza antica.
Oltre a Servio, Silio Italico in P 1.659; cita i pignora e su uno di essi si sofferma Ovidio in F 3.373 ss. I Romani attraverso Enea ritenevano essere discendenti dei Troiani. Queste difese magiche richiamano alla mente le condizioni per le quali la loro madre Patria fu espugnata, nonostante protetta dalle invincibili mura costruite da Poseidone e Apollo. Era convinzione che Troia non avrebbe potuto essere espugnata se non si fossero verificati certi eventi fatali. Omero non si sofferma ad elencarli. Fu il celebre indovino Calcante a svelare ad Agamennone e agli altri condottieri greci, venuti a consultarlo sulle sorti di Troia, che Ilio non sarebbe stata espugnata se:
- Achille e suo figlio Neottolemo-Pirro non vi avessero partecipato;
- I Greci non si fossero impadroniti delle frecce di Ercole, che erano state lasciate in custodia a Filottete;
- Non si fosse rapito il Palladio, custodito nel tempio di Atena;
- Non si fosse portato a Troia l’osso di Pelope;
- Non si fossero asportate le ceneri di Laomedonte;
- Non si fosse evitato che i cavalli di Reso bevessero nelle acque dello Xanto[2].
Alla tradizione troiana appartenevano il Palladio, il velo di Iliona, figlia maggiore di Priamo, e lo scettro dello stesso Priamo, approdati nel Lazio al seguito di Enea, mentre l’Ago di Cibele era giunto a Roma da Pessinunte, in Frigia; l’Ancile originale era caduto dal cielo, la Quadriga etrusca creata a Veio, e le Ceneri di Oreste che erano state dissepolte nel bosco di Aricia.
Presso i Romani continuava ad essere vincolante il responso dell’oracolo troiano, in conformità del quale Roma, come Troia, avrebbe conservato la sua potenza, fintanto che il Palladio fosse rimasto nell’Urbe. Omero nell’Iliade narra che Enea è destinato da Zeus a garantire un futuro ai Troiani superstiti. Si comprende così il significato semantico e religioso attribuito nella tradizione romana ai pignora.
Perché i pignora imperii erano Sette? Roma fu fondata su sette colli il 21 aprile (3x7), i primi re di Roma furono sette; sette furono le corti dei vigiles che spegnevano gli incendi, quattordici (2x7) le regioni amministrative. Sette erano i magistrati (Septemviri) che amministravano le terre e sette gli Epulones (sacerdoti). Fra le festività ricordiamo il Septimatrus, e che si celebrava il settimo giorno dopo le Idi di marzo e sette i colossi di Roma, statue enormi che Marziale disse che erano così alte da toccare il cielo.
Era indispensabile che i pignora imperii non venissero sottratti dai nemici o profanati da mani empie, in quanto ciò avrebbe significato la rovina di Roma e del suo imperium. Infatti, il furto o la perdita di anche solo uno dei pignora avrebbe infranto le difese magiche dell’Urbe e il suo potere. Essi furono sempre custoditi con grande attenzione, pur attraversando occasionali vicissitudini. Solo dopo l’emanazione dei decreti teodosiani, sul finire del IV secolo, si persero le tracce di questi oggetti sacri, forse nascosti dagli ultimi sacerdoti pagani o distrutti dai cristiani. Con la loro scomparsa, tramontò per sempre anche la potenza di Roma.
[1] Maurus Servius Honoratus, in Vergilii carmina comentarii ad Aen., VII, 188.
[2] M. Baistrocchi, Arcana Urbis, p. 13 - 14.
L’AGO DELLA MADRE DEGLI DÈI
Il primo dei sette pignora elencati da Servio è l’Acus Matris Deum perché è stato elencato per primo, forse per la sua importanza? Tito Livio (Ab Urbe condita, XXIX, 10) racconta che alla fine del III secolo a.C. su Roma si era abbattuta più volte una pioggia di meteoriti, un fenomeno che aveva destato angoscia fra i Romani, peraltro già fortemente provati da una pesante crisi sociale aggravata dalla guerra contro Cartagine che sembrava mettere in pericolo la Repubblica. In tale frangente, gli Auguri consultarono i Libri Sibillini nei quali un’antica profezia così recitava: «Qualora un nemico straniero avesse portato la guerra in Italia si sarebbe potuto cacciarlo e vincere se la Madre Idea fosse stata portata da Pessinunte a Roma», insieme al suo simbolo più sacro, un enorme meteorite nero che si riteneva fosse caduto dal cielo.
Si narra che la Dea Madre era rappresentata dal più grande meteorite ferroso del mondo antico, un enorme oggetto conico dell’altezza di circa 5 metri e mezzo, adorato come il Simulacro di Cibele e del peso di numerose tonnellate. Oltre all’enorme meteorite la Dea aveva incastonata sulla fronte un più piccolo meteorite nero conico, forse la parola acum, ago era riferita al piccolo meteorite.
Fu così inviata in Mesopotamia una delegazione guidata da Publio Cornelio Scipione Nasica (ritenuto il migliore dei Romani). Dal re di Pergamo (Frigia), alleato di Roma. Il re Attalus inizialmente rifiutò l’offerta, la leggenda narra che un terremoto occorse nell’area nel periodo delle negoziazioni, accompagnato dalla voce di Cibele che imponeva l’inizio del suo viaggio: tutto ciò venne prontamente interpretato come un presagio. Publio Cornelio Scipione Nasica ottenne il simulacro di Baba-Kibele.
Il Simulacro di Cibele, il più grande meteorite nero ferroso del mondo ed un numeroso gruppo di sacerdoti ed attendenti partirono quindi dal complesso di templi originario e giunsero a Roma accolti da una grande festa di benvenuto nel 204 avanti Cristo, organizzata dal Senato Romano.
Ovidio nei Fasti narra che quando il simulacro arrivò alle foci del Tevere nei pressi di Ostia la nave che lo trasportava si arenò e fu poi disincagliata grazie all’invocazione alla Dea della vestale Claudia Quinta, ordalia che le permise di dimostrare la sua innocenza circa l’accusa di impudicizia che le era stata rivolta. Da qui l’appellativo di Navisalvia attribuito alla vestale, come risulta da un’iscrizione su un’ara dedicata alla Magna Mater e conservata nei Musei Capitolini a Roma. Le matrone accompagnarono il sacro talismano in una processione da Ostia a Roma dove fu inizialmente collocato nella casa di Scipione Nasica nel 204 a.C. e poi provvisoriamente nel tempio della Vittoria, sul Palatino.
Figura 1. Ara di Cibele e della Vestale Claudia Quinta
Quando Cibele la Grande Dea Madre provenendo da un mondo antico, fece il suo ingresso a Roma, fu chiaro ai Romani che ella giungeva nel nuovo mondo a garantire la vittoria contro Annibale, non per nulla l’iniziale collocazione fu nel Tempio della Vittoria sul colle Palatino.
I Romani disposero che il tempio della Madre Idea fosse elevato sul Colle Vaticano, data la sua prossimità e la particolare relazione geografica con il complesso di templi del Campidoglio situato sul Colle Capitolino e di costruirlo in maniera tale da non inficiare in alcuna maniera il ruolo primario dei templi degli antichi Dèi di Roma.
Il colle Vaticano si trova a circa due chilometri e mezzo a Nord-Ovest del Colle Capitolino (altezza circa 50 metri), tradizionalmente il più alto dei sette colli e sede del Campidoglio, il più grande complesso di templi dedicato agli dei dell’antica Roma, costruito da Lucio Tarquinio Superbo intorno al 520 avanti Cristo. Il Colle Vaticano a partire dal 520 avanti Cristo, la più sacra Necropoli di Roma, in particolare per i nobili e le persone di rilievo della città. Uno dei nomi originali del colle era, infatti “città (colle) del divino” e “Città dei Morti”, rappresentava la più importante e sacra Necropoli di Roma. I romani costruirono un’intelligente serie di livelli di camere aperte o strutture a “catacomba”, come piattaforme nel terreno argilloso, permettendo al peso di essere ridistribuito al meglio ed operando inoltre per l’appiattimento del colle stesso al fine di garantire maggiore spazio alla costruzione. Ciò significava anche che buona parte dell’originaria Necropoli, ivi esistente da più di duecento anni, sarebbe rimasta indisturbata.
Il tempio fu terminato e consacrato il 10 aprile 191, e il simulacro venne trasferito in esso. Il nuovo edificio sacro, a pianta rettangolare aveva un orientamento NE-SO e si elevava su un imponente podio in “opus caementicium” di quasi 9 m. di altezza, al quale si accedeva tramite una grande scalinata. Il tempio era preceduto da un pronao con sei colonne corinzie, senza colonnato ai lati; la cella era lunga 64 metri per 32 di larghezza; all’interno essa era arricchita da un colonnato con capitelli in stile ionico-italico, aggiunto nel II sec. a. C. Una grande platea occupava le aree antistante e laterali e consentiva il transito diretto con il vicino tempio della Vittoria.
Il nuovo tempio fu chiamato Phrygianum, la casa dei Frigi, o meglio della Dea Frigia Cibele. L’edificio principale interno era costituito da cinque navate laterali, un’ampia navata centrale e due navate laterali più piccole, le quali erano caratterizzate ognuna da ventuno colonne di marmo. Alla fine di quest’ultima (Transetto) era collocato un enorme Ciborium (copertura interna) sopra la statua sacra di Cibele dietro alla quale una struttura rinforzata teneva in piedi l’enorme Simulacrum un meteorite nero di Cibele.
L’importanza del luogo era tanta che all’epoca di Papa Vigilius (537 – 555 d. C.), con le grandi epidemie giunte ad infestare l’Europa, il Phrygianum fu ribattezzato San Pietro e la linea di Papi così come riportata nel Liber Pontificalis fu elaborata per la prima volta. Nel 1505, il Tempio di Cibele fu infine demolito per ordine del Papa Giulio II per lasciare il posto al nuovo grande tempio che noi oggi conosciamo con il nome di Basilica di San Pietro.
In questa data, la statua Magna Mater fu posta sul trono come Sacra Protettrice della Città e fregiata di un meteorite conico molto più piccolo del “Simulacrum”, si narra che fosse incastonato sul capo, e condotta tramite una processione verso il Secondo Tempio di Cibele, quest’ultimo collocato tra i santuari degli altri dei romani sul Colle Palatino. In onore di tale occasione, i Ludi Megalenses o Megalesia furono istituiti e festeggiati per la prima volta, per una intera settimana all’inizio di Aprile: periodo riconosciuto come l’anniversario dei giorni di nascita della Dea. Sotto Claudio I (41 – 54 dopo Cristo), il culto di Cibele sul Colle Vaticano andò incontro a notevoli trasformazioni dato che l’Imperatore, assumendo per sé la carica di Pontifex Maximus e le date dei Megalesia furono spostate nei giorni compresi tra il 15 ed il 27 Marzo in modo da coincidere con l’Equinozio di Primavera e si svolsero fino al 389 d.C.
Era anche chiamata Montagna Madre del Monte Ida, ed un’enfasi particolare era posta sul concetto della sua maternità nei confronti della natura selvaggia (Potnia Theron), una divinità ambivalente, simboleggiava la forza creatrice e distruttrice della Natura. Il centro principale del suo culto era il santuario di Pessinunte, nella Frigia. La Dea divenne la Magna Mater o “sacra” Madre di Roma. Era la dea del Monte Ida dove Paride visse da giovanetto tra i pastori ed è da qui che Zeus avrebbe rapito Ganimede e dove fu concepito Enea figlio di Venere e di Anchise.
L’enorme aerolito nero custodito nel tempio di Cibele al tempo dell’imperatore Eliogabalo (218-222) dopo aver profanato il tempio di Vesta, ordinò che il simulacro della Madre Idea un meteorite, una pietra nera conica e gli altri talismani di Roma fossero trasferiti nel tempio che fece costruire sul lato nord-orientale del Palatino un tempio, l’Elagabalium, dedicato al culto del Deus Sol Invictus, vicino alla sua reggia.
Figura 2. Roma - La Pietra sacra conica dell’Elabagalium
L’imperatore fece trasferire nel nuovo tempio il braciere di Vesta, il Palladio e gli Ancili, un sacrilegio per i romani. Il Palladio non doveva essere visibile nemmeno al Pontefice Massimo che non poteva entrare nel Tempio di Vesta, né vedere né toccare il Palladio.
M. Baistrocchi citando Arnobio e Prudenzio, narra che la statua della Dea Madre Idea custodiva un piccolo talismano una pietra in una teca entro la bocca[1]. La piccola pietra di Cibele era chiamata “Ago della Grande Madre”, “Acus Magnae Matris”, per la sua forma conica fosse alquanto allungata, e, secondo quanto riferisce Mauro Servio Onorato nel suo commento all’Eneide di Virgilio (VII, 188), era annoverata tra i sette “Pignora Imperii”. Secondo alcuni il talismano era una pietra nera, che si riteneva caduta dal cielo, che aveva delle caratteristiche comuni al Palladio, anch’esso identificato con materiale caduto da cielo, un meteorite ferroso, un magnete. Le punte di lance sacre fatte con meteoriti, venivano identificate dai Greci come fulmini di Zeus[2]. La dea Cibele secondo Varrone aveva in testa una corona a forma di torre, un timpano in mano, e una coppia di leone mansueto ai lati.
Nel 111 a. C. il tempio fu devastato da un rovinoso incendio, appiccato dall’edile Quinto Memmio, il quali si impadronì della pietra nera di Cibele. Nel 3 d. C. avvenne un secondo incendio in circostanze misteriose, il tempio fu fatto ricostruire da Ottaviano Augusto Il cristiano Arnobio e Prudenzio dicono che la pietra era conservata nella bocca della statua della Dea Arnobio (Adversus gentes, VII, 253) afferma che fosse: “Una pietra di non grandi dimensioni, di ferro, esente da qualsiasi elemento fatto da mano umana, di color nero, diseguale e con protuberanze di materiale grezzo e rude, che tutti noi oggi possiamo vedere nella bocca della statua della dea Cibele“.
[1] Zosimo, V, 38, 3.
[2] Rober Graves, I Miti Greci, 116, 5.
LA QUADRIGA DI ARGILLA DEI VEIENTI
Il secondo talismo era la Quadriga fictilis Veientanarum. L’ultimo re etrusco Tarquinio il Superbo aveva ordinato a Vulca un artista di Veio una quadriga (quattro cavalli) di creta, rappresentante il carro di Giove. Plinio il Vecchio narra che nella cottura il carro si gonfiò tanto che fu necessario rompere il forno. La crescita fu considerata dai sacerdoti di Veio un prodigio favorevole un augurium per la futura grandezza del popolo. Avendo compreso in base alla dottrina dell’augurium l’importanza del prodigium, i Veienti, in un primo si rifiutarono di consegnare la Quadriga. Quando a Veio i cavalli del carro vincitore di una gara equestre si lanciarono imbizzarriti verso Roma, e dopo una triplice lustratio intorno al Campidoglio sbalzarono l’auriga. I Veienti consegnarono la Quadriga di terracotta ai Romani, ed essa fu portata al Campidoglio e infine posta sopra il frontone del tempio capitolino, dal console Marco Orazio.
La Quadriga fu attribuita allo scultore etrusco Vulca. Nel 296 a.C. la quadriga in terracotta fu sostituita con una di bronzo, opera forse dei fratelli Gneo e Quinto Ogulnio, gli stessi cui è attribuita la Lupa capitolina. La quadriga originale fu probabilmente custodita nel recinto del tempio in un deposito di oggetti votivi detto “favissa”, fino a scomparire misteriosamente alla fine del mondo antico.
Sorge una domanda, una semplice creazione di terracotta che si gonfia durante la cottura poteva venire considerata un talismano, anziché scartarla come opera mal riuscita? Cosa si cela dietro questa quadriga?
Con l’arrivo dei re etruschi a Roma, nel 616 a.C., il monte Tarpeo, il Campidoglio, iniziò a trasformarsi nel centro religioso della città. Fu costruito sul colle il primo tempio dell’urbe, consacrato alla triade capitolina, costituita da Giove Ottimo Massimo, dalla sposa Giunone e dalla figlia Minerva. Nella Storia di Roma Tito Livio narra che il primo re etrusco della città, Tarquinio Prisco, si era impegnato con un votum sacro a erigere il tempio se fosse tornato vittorioso dalla guerra contro i Sabini, come poi accadde. I lavori di costruzione iniziarono effettivamente con Tarquinio Prisco, ma fu il figlio Tarquinio il Superbo a portare a termine l’edificio in seguito alla prematura morte del padre.
Per i lavori il Tarquinio Prisco si servì di artigiani anch’essi etruschi, tra cui Vulca di Veio, l’autore dell’Apollo di Veio (conservato nel Museo di Villa Giulia), che realizzò la statua di Giove seduto con le insegne della regalità etrusca: corona scettro, toga purpurea e fascio di fulmini. Il tempio era così importante che il tesoro d’emergenza della repubblica, riservato ai momenti critici, era nascosto sotto il trono di Giove, così come i Libri sibillini, un compendio di profezie in greco che la Sibilla Cumana aveva venduto al re Tarquinio (secondo Varrone, a Tarquinio Prisco; secondo Plinio, a Tarquinio il Superbo). l grammatico latino Servio ricordava che all’interno del tempio si onoravano immagini di tutti gli dei, tra cui Marte, Iuventas (Giovinezza) e Termine. Il culto di quest’ultima divinità impose un’apertura sul tetto del tempio perché i riti in suo onore dovevano realizzarsi a cielo aperto.
Il tempio fu inaugurato nel 509 a.C. dopo la cacciata da Roma dei Tarquini. La consacrazione del santuario toccò quindi alla massima autorità della nuova repubblica, ovvero a due consoli, Publio Valerio Publicola e Marco Orazio Pulvillo. Secondo il racconto di Tito Livio alla fine la sorte toccò a Orazio Pulvillo, mentre Valerio fu costretto ad andare in guerra contro la città di Veio.
Prima di allora Giove era rappresentato con un’scia di selce, una Labrys? La Quadriga era etrusca come i re Tarquini, inoltre fu realizzata dallo stesso maestro etrusco che fece la statua di Giove con le folgori nella mano destra.
Il re Tarquinio il Superbo avrebbe chiesto proprio al “Maestro dell’Apollo”, forse, ben due quadrighe come ornamento del tetto del tempio[1].
Vulca è l’abbreviazione di Vulcano il dio ctonio legato ai fuochi sotterranei e alle folgori. La tradizione romana sosteneva che il dio Vulcano derivasse il proprio nome da alcuni termini latini collegati alla folgore (fulgere, fulgur, fulmen), la quale è in qualche modo collegata al fuoco. Plinio che citava Varrone attribuisce a Vulca la statua di Giove per il tempio di Giove Ottimo Massimo del Campidoglio a Roma, commissionatagli dal re di Roma Tarquinio Prisco, e una statua dell’Ercole fittile. Per essere un potente talismano doveva essere stato realizzato da un Iniziato al culto di Velcan cioè Vulcano, forse utilizzando anche argilla vulcanica, con proprietà magnetiche simili a quelle di taluni meteoriti. La vicenda misterica della realizzazione della quadriga fu abilmente nascosta e attribuita al prodigium.
La Quadriga etrusca di Giove oltre ad avere proprietà misteriose che l’hanno annoverata ai sacri talismani, aveva un significato religioso e simbolico. Giove quadruplice, come il Brahma indù dalle quattro facce, il Dio aereo, folgorante, terrestre e marino, il Signore e padrone dei quattro Elementi, può essere considerato come il rappresentante dei grandi Dèi Cosmici di ogni nazione. Per quanto delegasse ad Efesto - Vulcano il suo potere sul fuoco, a Poseidone - Nettuno quello sul mare, e a Plutone - Aϊdoneus quello sulla terra, il Giove Aëreo li comprendeva tutti, perché l’Ǽther aveva fin dall’inizio la preminenza su tutti gli altri Elementi e ne costituiva la sintesi.
Plutarco spiega che la quadriga con il carro rappresenta il Sole e i suoi quattro tempora: i solstizi e gli equinozi o le quattro stagioni cui essi danno inizio. Le quattro direzioni dello spazio piano, rappresentate dalla croce a bracci uguali. Non a caso era posta sulla cuspide del tempio capitolino, il quale, come è noto, era suddiviso in tre celle.
Figura 1. Giano e Giove su quadriga[2]
Una moneta romana mostra da un lato Giano e dall’altro lato Giove su una quadriga. Giano aveva come sede annuale il solstizio d'inverno, estremo punto settentrionale della parabola solare. Giano, forse la principale divinità dell'Italia antica, era posto a guardia e a protezione delle porte solstiziali. Giano era anche il dio preposto all’Iniziazione, all'ingresso rituale nel mondo del «sacro».
[1] https://www.museoetru.it/opere/apollo-di-veio
[2] Anonimo, Didracma, 225-214 a.C. http://www.tinianumismatica.com/prodotto/cr-301-didracma-giano-giove-su-quadriga/
LE CENERI DI ORESTE
Oreste, secondo il racconto mitico, uccise sua madre Clitemnestra, moglie infedele di Agamennone. Erodoto[1] narra che dopo numerose sconfitte gli Spartani mandarono messi a Delfo e la Pizia profetò che era necessario ricondurre in patria le ossa di Oreste. Le ossa furono scoperte a presso la fucina di un fabbro a Tegea in un’urna di sette cubiti (tre metri) all’interno della quale vi era il corpo di un gigante. Le ossa furono poi seppellite a Sparta. Le ossa dei giganti erano considerate magici talismani che proteggevano la città: così gli Ateniesi, per consiglio di un oracolo ricuperarono a Sciro, quelle che ritenevano essere le ossa di Teseo[2]. Secondo una delle varianti del mito, Oreste dopo il matricidio, per sfuggire alla furia punitiva che il suo gesto aveva scatenato, fu consigliato da Apollo di recarsi nel paese dei Tauri, nella penisola di Crimea, e rubare l'antica statua di Artemide (Diana Taurica) per poi raggiungere un luogo ove scorreva un fiume formato da sette sorgenti, oggi identificato nel Tirreno meridionale; da qui successivamente risalì verso il Lazio.
Il Culto di Diana Nemorensis era un antico culto romano, che aveva il suo centro nel lago di Nemi. Qui, all'interno di un bosco sacro, sorgeva il santuario della dea Diana Nemorensis, la "Diana dei Boschi". Questo culto di origine pre-romana perdurò per tutto l'arco dell'Impero. Il culto di Diana a Nemi si pensa secondo tradizione sarebbe stato istituito da Oreste il quale dopo aver ucciso Toante il re della Tauride si rifugiò in Italia con sua sorella portando con sé il simulacro della Diana Taurica nascosto in una fascina di legna. All'interno del santuario di Nemi cresceva un albero di cui era proibito spezzare i rami, solo ad uno schiavo fuggito era concesso di cogliere una delle sue fronde. Se lo schiavo riusciva nell'impresa acquisiva il diritto di battersi con il sacerdote e se lo uccideva diventava di diritto il Rex Nemorensis. Stando a quanto dicono le leggende antiche la fronda fatale che staccava lo schiavo era la medesima che per ordine della Sibilla, Enea raccolse per affrontare il pericoloso viaggio nel mondo dei morti. La fuga dello schiavo doveva rappresentare la fuga di Oreste mentre il suo combattimento con il sacerdote adombrava il ricordo dei sacrifici umani alla dea Diana Taurica.
Nel mito del re nemorense si ritiene che l’arma con cui l’aspirante re affronta quello ancora in carica fosse un ramo della quercia sacra, ma è molto probabile che si tratti di un elemento puramente simbolico; alcune interpretazioni del culto, infatti, descrivono questo ramo come un ramoscello di vischio. Il "rex nemorensis" presiedeva simbolicamente al ciclo infinito della morte e rigenerazione della vita, del continuo mutamento della natura che si trasforma e rinnova con l’alternarsi delle stagioni. Il rinnovamento del sacerdozio era pertanto un segno della continuità di un’antica tradizione.
Un indizio importante è essere rappresentato dal ritrovamento, avvenuto non molto tempo fa sotto il livello della banchina del lago, di una struttura muraria a forma poligonale tipica della cosiddetta seconda maniera dell’architettura delle mura megalitiche laziali. Di per sé questo elemento potrebbe sembrare insignificante o non pertinente con la relazione tra celtismo e culto di Nemi, in realtà costituisce una prova della presenza nel territorio dell’antico popolo dei Pelasgi.
Le ceneri di Oreste furono seppellite nella località di Ariccia da Ifigenia, sua sorella. Furono poi trasferite a Roma, sotto la soglia del Tempio di Saturno, vicino al tempio della Concordia, nella zona del Foro Romano. Le ossa di Oreste dovevano per i Romani avere lo stesso potere delle ossa di Horos.
LO SCETTRO DI PRIAMO
Gli antichi attribuivano lo scettro a Giove, a Giunone, a Re e Principi. Lo scettro di Giove è connesso intimamente alla folgore: fulmine nella mano destra e scettro nella mano sinistra. È solo in un secondo momento che lo scettro diventa insegna e simbolo dell’autorità regia. Lo scettro è intimamente legato alla bacchetta del mago, di cui si parla altrove. I re etruschi avevano lo scettro eburneo, i Romani avevano lo scettro imperiale o trionfale, mentre gli Egizi simboleggiavano il re con uno scettro sormontato da un occhio, detto occhio del Sole; questo scettro veniva messo in mano al Sole, come emblema della visione di tutto l’universo e del suo giusto governo. Lo scettro di Priamo fu offerto a Cartagine per la prima volta a Didone da Enea.
E ancora uno scettro che Ilione reggeva la figlia maggiore di Priamo … Eneide (I, 655).
In seguito quando i Dardanidi giunsero in Italia lo scettro dell’ultimo re di un piccolo cosmos, Troia, fu offerto da Ilioneo, in nome di Enea, a Latino insieme con altre reliquie portate da Troia. Si tratta di una traslatio imperi simbolica da Troia all’Italia, in quanto i Troiani hanno riconosciuto nelle terre di Latino quelle a loro destinate dal Fato e nei Latini al pari dei Troiani dei discendenti del loro comune antenato Dardano.
Figura 1. Priamo
Virgilio descrive Latino con una corona a 12 raggi, quale simbolo visibile del Sole. Latino secondo il racconto di Virgilio era nipote del re Pico, figlio di Fauno e di Marica divinità della città latina di Minturno. Virgilio descrive mirabilmente il palazzo reale di Latino quale reggia edificata dall’avo Pico.
Grande augusto, il palazzo, alto su cento colonne, era in cima alla rocca, reggia di Pico Laurente: sacro orrore le selve incutevano il culto degli avi. Qui era auspicio per i Re ricever lo scettro, e alzar qui i primi fasci: qui era il tempio per essi e curia. “Hic sceptra accipere et primos attollere fasces regibus omen erat, hoc illis curia templum”. (Eneide, VII, 170-174).
Nel palazzo augusto vi sono le effigi di Saturno e di Giano bifronte e degli avi augusti, Pico il domatore di cavalli, con il suo liuto quirinale vestito con trabea reggeva sulla sinistra un Ancile.
Lui stesso sedeva, con liuto Quirinale, vestito di breve trabea e reggeva con la sinistra l’ancile, Pico domator di cavalli … (Eneide, VII, 187-189).
Pico regge il liuto con la mano destra la sacra verga etrusca, e regge con la sinistra l’ancile lo scudo del tuono poi donato a Numa Pompilio. È descritto domatore di cavalli; il tema dei cavalli caratterizza l’Iliade. Due Cavalli divini causarono la prima distruzione di Troia; la furia di Poseidone è quella dei cavalloni marini; un Cavallo di legno causò la seconda distruzione di Troia che avvenne solo dopo la morte di Ettore, il protettore di Troia, e come Pico era definito domatore di cavalli.
[1] Erodoto, Storie, I, 67.
[2] Rober Graves, I Miti Greci, 117, 3.
IL VELO DI ILIONA
Virgilio nel primo Libro dell’Eneide narra che un velo bianco con il fregio d’acanto fu donato da Leda ad Elena per le sue nozze, e in quell’occasione il velo giunse a Troia, e che in seguito alla caduta di Troia Enea offrì a Didone. Servio annovera fra i sette talismani di Roma un velo “Velum Ilionae”, che attribuisce non di Elena, ma Iliona la figlia maggiore di Ecuba e Priamo, che andò in sposa a Polimestore, crudele re di Tracia. Il mito greco narra che quando Polimestore uccise Polidoro, fratello di Iliona che riuscì a vendicarsi assassinando il marito. Servio ed Igino, raccontano una diversa versione: durante la presa di Troia, i greci chiesero che venisse ucciso il fratello di Iliona, Polidoro, e lo fece Polimestore stesso, che per errore però uccise il proprio figlio Deifilo. Polimestore sarebbe poi stato accecato ed ucciso da Iliona e Polidoro. Virgilio nell’Eneide fa offrire a Didone da Enea, lo scettro, il diadema di Priamo, la collana, la corona e il velo della principessa Iliona.
… pallam signis auroque rigentem, / et circumtextum croceo velamen acantho, / ornatus Argivae Helenae.
Un manto rigido d’aurei ricami, un velo (velamen) intessuto d’un croceo fregio d’acanto d’Elena argiva ornamenti che lei portò da Micene quando a Pergamo venne all’inconcesso imeneo mirabile regalo della madre sua Leda. E ancora uno scettro che Ilione reggeva la figlia maggiore di Priamo … Eneide (I, 648-655).
I commentatori all’Eneide si domandano come Enea abbia potuto prendere questi oggetti simboli della regalità fuggendo da Troia in fiamme. Come il velo attribuito a Ilione, poteva essere annoverato da Servio, tra i pignora provenendo da Elena che aveva causato la rovina di Troia?
Virgilio scrive di un velamen ornato di foglie di acanto che dovrebbe essere simile a un manto, donato da Leda a Elena. Dobbiamo concentrarci su questi quattro informazioni: Velo, acanto, Leda, Elena.
Alcuni commentatori fanno notare come Servio (VII, 188…”velum Ilionae”) non si accorga che nel testo virgiliano il velamen non è di Ilione ma di Leda che lo donò poi ad Elena e non è un “velum” (velo) ma un “velamen” (veste). Servio commentando il verso 649 del I libro, cioè la parola virgiliana “velamen”, specifica: “cycladem significat” cioè “si tratta di una ciclade” (veste pregiata femminile). Per contro osserviamo che Velamen, ha più di un significato, significa in ordine di importanza, velo, velame, copertura, veste. Virgilio scrive di ornamenti, un manto rigido ricamato e un velo con fregi d’acanto … e il manto e il velo intessuto d’un croceo fregio d’acanto. (I, 711). Un velo lungo e ampio copre la testa le spalle e la parte superiore del corpo come una Vestale. I critici affermano che dal momento che Servio è l’unico autore antico a parlarci di questi sette oggetti fatali dell’antica Roma, tale equivoco – un velo al posto di un abito e Leda/Elena al posto di Ilione – getta un’ombra sulla genuinità di tutta questa storia! Servio non era uno scrittore superficiale e un leccapiedi, come avviene ancora oggi, dei potenti, egli era un uomo molto dotto e addentro alle vicende misteriche, come lo era del resto Virgilio.
Elena Figlia di Leda, secondo la tradizione da Omero in poi, è figlia di Zeus che si sarebbe congiunto a Leda trasformandosi in cigno. Leda avrebbe deposto un Uovo da cui sarebbe nata Elena. Secondo la versione pervenutaci dai Kypria era figlia di Zeus e di Nemesi. Il Kypria narrava storie cronologicamente collocate all’inizio del Ciclo Troiano e seguite dall’Iliade, rispetto alla quale è posteriore. La Nemesi del poeta dei Kypria è la vendetta cosmica: essa lo è anche contro se stessa, quando il suo pudore verginale, il pudore di un giovane essere della natura, viene minacciato dalla brama divina. Scrive Karóly Kerényi in Miti e Misteri, che Elena, nacque dalla “possente necessità” di un dio (Zeus) di “sedurre” la Necessità (Nemesi), affinché generasse “la bellezza”. Il frutto nato da questa impresa fu causa di uno dei conflitti più grandi che si verificarono nella storia dell’antichità, la guerra di Troia. Guerra che rimase unica sia per i preparativi, che per l’estensione di tempo, nonché per la grandezza degli Eroi che vi parteciparono, e per gli Dèi che furono coinvolti in una sorta di guerra intestina.
Ma quando essa appare (ai Troiani) accompagnata dalle sue due fanciulle … avvolta in un luminoso velo bianco, gli anziani esclamano tra di loro: non è una Nemesi … essa è, infatti, come una delle dee immortali1 .
Elena nell’Iliade di Omero, avvolta nel luminoso velo bianco, appare bellissima per quello che è, una Dea. Il velo candido è uno strumento di Leda Nemesi. Come la morte cala sul capo come una “nube”, così anche la donna per sposarsi, nubere, per morire come vergine e rinascere come donna doveva velarsi il capo.
Il velo aveva anche un altro significato, in quanto il muro della città aveva un nome speciale ierón krédemnon[2], sacro velo, un sigillo magico, una protezione circolare contro le forze ostili esterne. Un magico cerchio che avvolgeva la città e che doveva essere sciolto, violato o neutralizzato per rendere possibile l’espugnazione della città. Alla morte di Ettore Elena fu costretta a sposarsi con Deifobo fratello di Ettore. Dopo di che cade la nube scura della morte su Troia. Elena Virgilio narra che Enea, che durante la notte della caduta di Troia fu preso da grande sconcerto nel vedere lo spettro di Deifobo. Il principe gli racconta la propria morte, gli rivela il tradimento di Elena che aveva sottratto la sua spada da sotto il cuscino e indicato a Menelao il letto in cui dormiva: era stata lei ad aprire le porte e a chiamare Menelao, a cui si era unito anche Ulisse; tutti e tre hanno fatto strazio del suo corpo.
Un altro velo compare al tempo della prima distruzione di Troia da parte di Ercole, il velo di Esione, sorella maggiore di Priamo. Esione ottenne la salvezza del fratello minore non solo supplicando, ma anche facendo dono ad Eracle di un velo ricamato in oro. La cessione di Esione che rappresenta la città del suo velo a Ercole indica la perdita della protezione e la possibile espugnazione delle non più invincibili mura della città. Ecco perché alcuni commentatori affermano che gli amanuensi che ricopiarono le parole di Servio si sbagliarono scambiando Esione in Iliona. Questa diatriba conta poco ai fini del simbolismo, sciogliere il sacro velo lo ierón krédemnon equivaleva ad aprire le porte della città concedersi, essere conoscibile ed espugnabile.
Il velo sembra avere un valore di emblema sacrificale: la donna greca e romana, e fra queste le Vestali, sacrificavano, infatti, con il capo velato, e doveva essere vergine. Il velo delle Vestali era il velo di Esione o Ilione, perdere la perdita della verginità da parte di una Vestale era equiparata a tradimento come quello della Vestale Tarpeia ai tempi di Romolo. Il velo talismano citato da Servio, poteva essere visto solo dalla Vestale massima, e forse indossato da essa per la celebrazione di riti arcani a protezione della città.
L’abbigliamento delle Vestali consisteva nella stola e in una corta sopravveste di lino chiamata càrbasus, simile al diploide greco. Nelle cerimonie cingevano la fronte con l’infula, un nastro di lana annodato alla nuca. Ponevano in capo il suffìbulum, bianco velo rettangolare ornato ai bordi con ricami in oro.
Figura 1. Vestali
Il velo descritto da Virgilio aveva i bordi ricamati con foglie di acanto. Nella mitologia greca Acanto è una ninfa amata da Apollo, e poiché questa voleva restare vergine e non lo ricambiava, Apollo tentò di rapirla: ma essa reagì duramente, graffiandogli il volto. Il dio tramutò la ninfa in una pianta spinosa ma amante del Sole che porta il suo nome (Acanthus). L’acanto era considerato simbolo di verginità. Il velo bianco ornato con foglie d’acanto è simbolo di verginità, propria delle Vestali.
Nell’Eneide quando l’esercito di Turno appare e i difensori si chiudono nel campo difeso dalle mura. Turno incendia le navi troiane che per volontà di Cibele, sono trasformate in ninfe e si recano a Caere da Enea, e si rivolgono al rex sacrorum nel linguaggio delle Vestali (X, 228-229). Qui abbiamo un collegamento con le ninfe e l’ornamento di acanto sul mantello descritto da Virgilio.
Virgilio nel Secondo Libro dell’Eneide, ci racconta di Enea che aveva portato via da Troia il fuoco sacro e che l’avrebbe instaurato a Lavinio. Sic ait et manibus vittas Vestamque potentem Aeternumque adytis effert penetralibus ignem (II 296-297); «Con le (sue) mani trasse fuori dai penetrali inaccessibili (del tempio) la potente Vesta adorna di sacre bende (vittas Vestamque è un’endiadi[3]), e il Fuoco Perenne».
Vesta è la dea del Fuoco Sacro, simbolo dell’unità della famiglia e della patria; vittae sono le bende sacre indossate dalle Vestali (le sacerdotesse della dea), incaricate di mantenere sempre vivo il fuoco sacro. Il plurale adyta (dal greco àdyton, «inaccessibile») indica la parte più interna del tempio, il cui accesso era consentito soltanto ai sacerdoti; penetralia è qui in funzione aggettivale («interno»; quando è sostantivato è sinonimo di adyta).
[1] Karóly Kerényi, Miti e Misteri commento di Omero Iliade III, 156-158.
[2] Krédemnon deriverebbe da kára o testa, e dein legare, e indicava il velo portato dalle donne e anche il sigillo delle giare del vino.
[3] Una figura retorica che consiste nell’utilizzo di due o più parole coordinate per esprimere un unico concetto.
IL PALLADIO
Omero ci narra che Ulisse con l’aiuto di Diomede, di notte si sarebbe introdotto con uno stratagemma all’interno della città, riuscendo a rubare il Palladio. La Tradizione dei cugini dei Troiani, gli Italici[1], non è d’accordo con Omero: Ulisse e Diomede avrebbero rubato una copia del Palladio, mentre il vero sarebbe stato portato in salvo da Enea in Italia, dove avrebbero trovato collocazione nel tempio di Vesta[2], divenendo una delle sette cose fatali (magiche) di Roma.
Virgilio sul Palladio è laconico, parla in modo velato, dice che Atena si adirò contro i Greci che profanarono la sua statua, o più precisamente il suo simulacrum, come si addice a un grande segreto.
Ma un giorno l'empio Tidide e Ulisse l'’ideatore di crimini, osarono strappare dal tempio il Palladio fatale, massacrati i custodi dell’altissima rocca, e con le mani sporche di sangue la sacra effige osarono toccare contaminando fin della dea le bende virginee; da allora scivola sempre più indietro va la speranza dei Danai, infrante le forze, nemica divenne la Dea. (Eneide, II 165-170).
Erodiano scrive in Storia dell’Impero dopo Marco Aurelio V,6, che il Palladio era la statua di Pallade: “… la statua di Pallade, che i Romani venerano tenendola in un luogo nascosto e lontano da ogni occhio umano. La statua non era mai stata mossa dai tempi nei quali era stata portata da Troia, se non quando il tempio fu minacciato da un incendio (…) portava le armi e di indole guerriera”. Ciò è confermato da quanto scrisse Apollodoro (III, 12,3) “Era grande tre cubiti, aveva i piedi tra loro accostati e teneva nella mano destra una lancia brandita, mentre nell’altra aveva una conocchia e un fuso”. Questa è però la versione exoterica data in pasto ai profani.
Fra gli oggetti utilizzati negli antichi misteri figurava il Palladio, che secondo le indiscrezioni di scrittori cristiani ben introdotti nei riti e nei Misteri greci, quali Arnobio e Clemente Alessandrino, era costituito dalle ossa di Pelope[3]. Il Palladio exotericamente descritto come un simulacro di legno di Pallade Atena consegnato secondo la tradizione da Diomede a Enea, esotericamente era probabilmente un meteorite dotato di proprietà magnetiche, come il Benben degli egizi anch’esso caduto dal cielo.
Ilo discendente di Dardano, il figlio di Elettra, aveva chiesto un segno a Zeus, mentre marcava i confini della città e lo ottenne. Apollo Sminteo consigliò a Ilo:
«Abbi cura della dea che cadde dal cielo e avrai così cura della tua città, poiché la forza e il potere accompagnano la dea, dovunque essa vada».
Il mito narra che Elettra venne violentata da Zeus e sporcò del suo sangue verginale il simulacro della vergine Pallade ed Atena, infuriatasi, scaraventò Elettra e il Palladio sulla Terra. Alcuni dicono che il tempio di Atena fosse già in costruzione, quando l'immagine cadde dal cielo. Altri dicono ancora che fu Elettra stessa a donare il Palladio a Dardano.
Il Palladio caduto dal cielo è un meteorite, una pietra caduta dal cielo; si narra che aveva forme diverse, un cubo (la forma del Dio Kabiricoi Hermes), un betilo, un pilastro, simbolo sia del fallo o potere generatore, e sia il simbolo del potere del Fuoco (quello di Prometeo), la Folgore celeste. Questa pietra era un betilo, come quello custodito a Delfi, l’Omphalos, l’ombelico del Mondo. La pietra cui Giacobbe, dopo averla unta diede il nome di Beith-el, la casa di Dio. A Roma c’era il lapis niger (una pietra nera, come quelle della Kaaba), e c’erano gli scudi sacri dei sacerdoti Salî, che si diceva che fossero stati intagliati da un aerolito al tempo di Numa. I Semiti designavano col nome di aeroliti le pietre del fulmine. Queste pietre, simboleggiano il fulmine, il Vajra, il Martello di pietra Thor, l’ascia di pietra di Rama, il Dio Indù cui è dedicato il poema Ramayana.
Il Palladio che le Vestali custodivano in Roma, come talismano della città … essi sostenevano che il Palladio era stato salvato da Enea durante l’incendio di Troia e portato in Italia … indicava una pietra grezza o un oggetto di culto attorno al quale danzavano le ragazze di una particolare tribù, come a Thespia, oppure giovanetti, perché pallas era un termine usato indiscriminatamente per i due sessi. Il collegio romano dei Salî era una comunità di sacerdoti danzatori …. palladia fu interpretato come palta ossia “cose cadute dal cielo”. I palta dovevano essere esposti alla volta celeste: ecco perché la sacra pietra del tempio di Termine a Roma stava sotto un’apertura del tetto del tempio di Giove, e un’identica apertura era stata praticata nel tempio di Zeus a Troia[4].
Un rilievo del I secolo d.C. raffigura il Palladio in cima a una colonna intrecciata da un serpente, a cui la Dea alata Vittoria presenta un uovo, mentre un guerriero assiste in una posa di pace. In cima alla colonna la figura di Pallade Atena, allude esotericamente di considerare quello che è rappresentato sotto i suoi piedi. La colonna allude esotericamente al betilo, e il serpente all’energia serpentina ad esso collegata. L’uovo, simbolo del cosmo dell’uomo, è simbolo di vita eterna e di rinnovamento. Per i romani alla Dea Vittoria ci si riferiva come simbolo di vittoria sulla morte e in secondo luogo determinava chi avrebbe avuto successo durante la guerra.
Ad Atene, la dea Atena divideva i propri templi con Efesto ed il mito la vedeva nascere dalla testa di Zeus che, sofferente di emicrania, si fece tagliare il capo da Efesto giusto per poi veder sortire la divina vergine, fiera e già in armi.
Il suo simbolo tradizionale era la misteriosa egida, una magica sacca di pelle caprina contenente una serpe e protetta dalla maschera terrifica della Gorgone. In ciò è la simbolica allusione ad una magica e temibile forza protettrice. Minerva, di colore nero, era la dea della sapienza occulta e per la corrispondenza con le tre Moire (le Parche romane), era la Grande Dea nel suo triplice aspetto di reggitrice dei destini umani.
Figura 1. Palladio rilievo del I secolo d.C. - Menvra specchio etrusco III sec.
Tra i romani Minerva era conosciuta come una delle nove divinità che poteva scagliare il fulmine. Nell’arte etrusca come Menvra, è rappresentata con la folgore e le ali. Nel 394 d.C., in seguito alla proibizione della religione romana, il Palladio fu distrutto dall’ultima delle vestali.
[1] Dioniso d’Alicarnasso, I, 69, 1-3.
[2] M. Baistrocchi, Arcana Urbis, p.312-313.
[3] Le ossa di Pelope, di Horus, di Seth, velano il potere elettromagnetico cosmico. il mito di Pelope è legato alle acque, in quanto l’uccisione rituale di Pelope provocò un Diluvio universale.
[4] R. Graves, I Miti Greci, 158, 3, Longanesi.
ANCILIA SCUDI DEL TUONO
Della vicenda, che portò alla generazione degli scudi dei Salii, dà conto Ovidio (Fasti III 259-393), con una lunga narrazione ricca di dettagli non sempre facilmente interpretabili. Il racconto di Ovidio, più dettagliato e legato agli aspetti sacrali, la traccia decisiva. Secondo la fonte, in assenza di alcun indizio che potesse far prevedere alcunché di simile, inizia ad abbattersi su Roma una quantità innumerabile di fulmini, segno inequivocabile dell’ira di Giove, a cui fa seguito tremende piogge torrenziali. Plutarco parla invece di pestilenza.
Numa è chiamato a trovare un rimedio a tale inspiegabile grave ed improvvisa emergenza. Interviene in soccorso al re la ninfa Egeria, che gli rivela l’esistenza di un sistema di espiazione dei fulmini e di riconciliazione con il padre degli Dèi, il cui funzionamento tuttavia, gli avrebbero potuto rivelare solamente due creature divine, quali Pico e Fauno, le sole a conoscerne il segreto. «Ma non lo faranno senza l’uso della forza: catturali con dei lacci» Ovidio Fasti III 293. Pico e Fauno chiedono di essere liberati, e promettono al re di mettere al suo servizio il loro sapere e quindi di evocare Giove, affinché Numa possa parlare direttamente con il dio, il solo a conoscere il modo per placare la sua stessa ira. Numa si rivolge a Giove chiedendo il riconoscimento al dio della sua devozione e della sua rettitudine morale. Il re riceve non solo la garanzia della cessazione dei fulmini, ma anche una promessa di fondamentale importanza. Congedandolo, infatti, Giove gli assicura che la mattina successiva «imperii pignora certa dabo», ossia gli avrebbe dato un pegno sicuro della sua sovranità. L'indomani sarebbe stato anche l’inizio del nuovo anno[1].
Alla mattina successiva, all’alba del primo giorno di marzo, il capodanno secondo il calendario arcaico, Numa si sedette su un trono d’acero dinanzi alla sua dimora, di fronte al popolo convenuto in attesa. Non appena in cielo il disco del sole si fu disegnato nella sua interezza, si udirono tre tuoni spaventosi, a cui seguirono tre saette, che divamparono in quello strano azzurro privo di nubi. Uno scudo, «librandosi leggermente nell’aria», scese dall’alto, posandosi dinanzi a Numa. Per la sua forma particolare, «mai vista prima dai Latini» dirà poi Dionigi di Alicarnasso, lo scudo stesso ricevette dal re il nome di Ancile. Questo scudo, di forma ovale è incavato dai due lati a forma di otto, bilobato, come quello usato dai Traci.
In questa versione di Ovidio l’ancile è un oggetto che scende dal cielo in uno spettacolo di tuoni e bagliori che ricorda la caduta di un meteorite. Ma è molto più di questo, è per Numa un simbolo di regalità e la prova della legittimazione divina a governare. Mediatori tra mondo umano e mondo divino, Pico e Fauno in questo contesto sono presentati come divinità o maghi di origine italica mentre generalmente sono ben più noti come re mitici e padri del popolo latino. Plutarco descrive Pico e Fauno come due Numi che percorrono l’Italia, paragonati a satiri o titani o esseri simili agli Dèi Dattili del Monte Ida, cioè del Kabiri.
Secondo Plutarco, il re si rivolse al popolo, sostenendo che l’Ancile era stato donato da Giove il supremo degli Dèi per la salvezza della città. Il valore magico dello scudo e la sua funzione di garanzia storica, d’altra parte, sono comunicati esplicitamente da Giove: «imperii pignora certa dabo». Un altro dei sette pignora, il Palladio, caduto dal cielo, giunse a Roma insieme con le Cicogne Troiane di Enea.
Numa Re-Sacerdote (Ierofante) volendo evitare che il pegno divino cadesse in mani ostili, consigliato dalla Ninfa Egeria, ne fece costruire altri undici identici: si fece avanti il fabbro Mamurio Veturio, sicuramente un etrusco, che al termine del suo lavoro, nemmeno Numa fu più in grado di riconoscere il talismano divino dalle sue copie il fabbro aveva qualcosa di misterico, divino egli aveva le abilità di Efesto e Vulcano, un Kabiro. Ovidio aggiunge la cui abilità, del fabbro, era pari solo alla sua onestà. Tale dichiarazione di devozione e di onestà è la stessa Numa aveva espresso nel momento in cui si era trovato a confronto prima con Pico e Fauno e poi con Giove.
La leggenda narra che il fabbro aveva richiesto, come unica ricompensa per la sua opera, che il suo nome venisse inserito al termine del Carmen Saliare, il canto con il quale i sacerdoti Salii accompagnavano la processione solenne dei dodici scudi attraverso la città, che si svolgeva il 9 e il 19 marzo. Frammenti di questa canzone rituale sono giunti fino a noi, compresa la parte con l’invocazione a Mamurio. Si suppone che a Mamurio venne anche dato l’incarico per la sostituzione di una statua lignea di Vertumno, portata a Roma ai tempi di Romolo, con una fatta di bronzo. La lingua usata nel carme è così antica che già nel I secolo a.C. Cicerone dichiarava di non essere capace di comprendere la maggior parte del canto in questione!
Giovanni Lido che gli Dèi (Giove) si offesero per l’opera di duplicazione dell’Ancile, che comprometteva l’unicità di questo oggetto sacro colpirono Roma con una serie di sciagure. L’ancile – come promesso da Giove – sarebbe stato un “pignus imperii”, un talismano che fungeva da garanzia della sovranità di Roma Allora, per riconciliarsi con la divinità, i cittadini decisero di punire ed espellere dall’urbe proprio Mamurio Veturio. Di questo fatto non fanno menzione né Ovidio e né Numa, perché? Il nome di Mamurio Veturio divenne il soprannome di Marco Aurelio Mario l’Imperatore filosofo delle Gallie nel 269 d.C.
Il 14 marzo di ogni anno, in concomitanza con le gare di cavalli dette Equirria in onore di Marte ricorreva la festività dei Mamuralia riportata nell’opera di Giovanni Lido sul calendario romano. Il rito consisteva in una processione con il simulacro di un vecchio, vestito di pelle, un capro espiatorio, che veniva percosso con delle bacchette bianche come un capro espiatorio fino ad essere espulso dalla città.
La cerimonia in sé mostra evidenti connessioni col ciclo delle stagioni, esprimendo l’espulsione del vecchio dalla città, ossia dell’anno appena trascorso, similmente all’incendio di un fantoccio di paglia alla fine dell’ano per sancire la morte dell’anno vecchio. Nel più antico calendario Romano, che la tradizione voleva essere stato redatto da Romolo stesso, l'anno era suddiviso in 10 mesi e cominciava proprio col mese dedicato a Marte. Il numero degli scudi commissionati a Mamurio corrispondono ai 12 mesi del nuovo calendario voluto da Numa Pompilio. I Mamuralia sarebbero dunque un rito di passaggio e di lustrazione, di(purificazione).
Numa fece costruire altri undici scudi identici a quello inviato da Giove, dal fabbro Mamurio Veturio, In tutto si ebbero dodici scudi, o Ancili, come il numero dei cavalli magici generati da Borea. Secondo Plinio e Varrone, il Dio etrusco del fulmine era Tinia (Giove), ma per scagliarlo doveva avere il consenso di un’assemblea composta di dodici Dei, il numero degli scudi usati nel rituale evocatore.
I Dodici Scudi erano in relazione con i dodici mesi dell’anno, le dodici divinità minori sottostanti al Dio Tinia - Giove, e con i Misteri del Dio Giano. Gli dèi che potevano lanciare il fulmine erano nove; tra loro, solo Tinia aveva il potere di lanciarne tre (uno per ognuna delle sue sedi celesti); di questi, il primo aveva valore ammonitivo (Presagum), e il dio aveva la facoltà di lanciarlo di sua propria iniziativa; il secondo era diretto a manifestare la potenza divina (Ostentarium), e a provocare effetti salutari oltre a quelli traumatici, ma prima di lanciarlo Tinia doveva avere l’assenso dei dodici Dèi Consentes; da ultimo, il Perentorium’ o fuoco devastatore, poteva essere scagliato solo dietro autorizzazione degli Dèi del Fato.
Il numero 12 degli Ancili è riferito alle 12 divinità o poteri etruschi collegati ai poteri della natura, Arnobio, storico romano, notava che ”gli Etruschi hanno degli Dèi chiamati Consentes, sei maschi e sei femmine, che sorgono e tramontano da Est ad Ovest, i cui nomi sono ignoti e sono pochissimo misericordiosi”.
G. Dumézil afferma che gli ancilia sono antichi, non solo di pignora imperii, ma di talismani di sicurezza annuale. Quale dio oltre Giove sovrano e custode della folgore, poteva fornire alla collettività simili talismani? E quale altro dio avrebbe potuto far meglio cadere un oggetto dal cielo? Gli ancilia erano dotati di una specie di occhiello di cuoio che veniva utilizzato per sospendere gli scudi nella Regia (Sacrarium Martis), e durante il trasporto ad una pertica per mezzo del lorum. Simili a quelli rappresentati su un’anfora di Cnosso trovata nella Casa Nord e contemporanea di vasi di Thera (TM I B), sulla quale sono rappresentati quattro scudi bilobati muniti di cinghie per stare appesi.
Era necessario che anche la funzione guerresca il Sacrarium Martis fosse presente nella Regia, la «casa del re», che custodiva gli oggetti sacri relativi alla guerra. Gli oggetti sacri della Regia, cosi come i servigi che i romani si aspettavano da essi, erano esclusivamente guerreschi: degli scudi, e la lancia o le lance di Marte, e nel periodo più antico, la lancia che simboleggiava Marte, era chiamata Marte, che il comandante in capo veniva a toccare, dicendo «Mars uigila», prima di assumere le sue funzioni.
[1] L’uno e il molteplice: storia di un’identità dispersa. Lo scudo di Numa - Gian Luca Grassigli. Dipartimento di Lettere – Lingue, Letterature e Civiltà Antiche e Moderne, Università degli Studi di Perugia.
RITI ARCANI E ARCAICI ROMANI
LA TRIADE JUPITER, MARS, QUIRINUS
Iupiter (Giove) era considerata la divinità suprema degli dei romani, è stato ritratto come un’entità maschile barbuta che personificava la luce, il tuono e il cielo, rappresentando, quindi, l’essere divino responsabile della protezione dello stato romano e delle sue leggi. Giove, dunque, era anche considerato il patrono della politica, dei giuramenti, dei trattati, delle leggi e anche dello sport, dal momento che i giochi principali, i Ludi Romani, erano osservati in suo onore.
Giove era una delle divinità personificate nei re etruschi. Giove era il destinatario del rituale, essenzialmente magico, del lapis manalis, la pietra introdotta in città dalla porta Capena e trasportata in giro nei periodi di siccità (Fest., p. 255 L2, ecc.; Latte, p. 78, n. 4), il dio era così esplicitamente considerato il signore della pioggia in cerimonie come i Nudipedalia. A Iupiter Feretrius, protettore dei giuramenti, fu intitolato il santuario più antico della città, secondo Tito Livio fatto erigere da Romolo sul colle Capitolino. Sul Capidoglio Giulio Cesare fece poi erigere lo stupendo tempio di Giove Capitolino Ottimo Maximo.
G. Dumézil scrive che durante il periodo monarchico Marte non compare; ma alla fine, al momento dell’espulsione dei Tarquini e dell'istituzione della repubblica, è Marte che secondo l’annalistica viene invocato da Bruto, tribunus Celerum, cioè capo dell’esercito. Giove celeste e folgoratore, anche quando assumerà sul Campidoglio funzioni militari, continuerà ad essere per i consoli e per lo stato il signore e il soccorritore che già era stato per il re; sotto i lineamenti di Zeus, resterà la divinità più augusta. Marte sarà sempre il patrono della forza fisica e della violenza d’animo da cui procedono la guerra e la vittoria. Marte e Giove che, senza confondersi, collaborano nella crescita di Roma.
La vicenda di Quirino è, invece, meno lineare. Quirinus (Quirino), indicava in origine un dio sabino che, ancor prima della Fondazione, era venerato sul Quirinale dove, secondo la leggenda, Modio Fabidio, figlio del dio, aveva fondato una città che chiamò Cures in onore del padre. L’etimologia del suo nome è incerta. Potrebbe derivare da: quiris o curis che in lingua sabina significa “lancia”, “asta” (l’arma tipica dei Sabini), o da curia, dall’arcaico coviria, “riunione di uomini”. Poiché la natura di Quirino è analoga a quella di Marte, è evidente che Mars fu il nome dato al dio dai Romani stanziati sul Palatino e Quirinus quello attribuitogli dai Sabini stanziati sul Quirinale. I Romani cominciarono così a chiamarsi Quirites. Il termine, entrato nella formula Popolus Romanus Quiritum, divenne di uso corrente per rivolgersi ai cittadini durante le assemblee, mentre il nome Romani fu utilizzato nei rapporti politici e militari. Cosa apprendiamo dall’esame del suo sacerdote? Conosciamo tre circostanze, e tre soltanto, in cui il Flamen Quirinalis interveniva ritualmente: in occasione dei Consualia d'estate (21 agosto), dei Robigalia (25 aprile), e certamente dei Larentalia (23 dicembre).
Dionisio di Alicarnasso (2, 48, 2) spiega che i Sabini, e i Romani sul loro esempio, danno a Enyalios il nome di Quirino, senza però poter dire esattamente che egli sia Marte (Ares). Alcuni, infatti, ammettono che si tratti soltanto di due denominazioni di un unico dio, patrono dei combattimenti guerreschi, ma altri sostengono che si tratti invece dei nomi di due divinità guerriere. Quirino che si definisce quale opposto di Marte Bellicoso e tuttavia, paradossalmente, è talvolta confuso con esso, è il Mars Tranquillus.
I tre Dèi capitolini, Giove, Marte e Quirino, alla fine del periodo etrusco, furono associati in un unico tempio a tre celle. Giove in tal caso avrebbe preso possesso del Campidoglio e Quirino avrebbe occupato il colle chiamato a partire da quell’istante Quirinalis. Giove, Marte e Quirino, formano la più antica triade dei Numi tutelari di Roma. A questa Triade corrispondeva la tripartizione del maggiore sacerdozio romano, quello dei Flamini. La controparte sociale, infine, sarebbe stata costituita dalla tre antiche tribù dei Ramnes, dei Luceres e di Titienses. In questa prima triade Giove presiedeva all’ordine morale e Marte tutelava le attività belliche e Quirino sovrintendeva alle attività economiche, ed in particolare all'agricoltura.
G. Dumézil scrive che Giove Tonante, almeno sotto uno degli aspetti principali, lapis, una pietra, quella della folgore e Marte originariamente non fu altro che una lancia: lancia e pietra che possedevano in sé un considerevole quantitativo di mana. Plutarco inoltre fa derivare Mana dal verbo latino Manare verbo “fluire scorrere”, un’etimologia che il grammatico romano Verrio Flacco (fine I sec. a.C.) riporta anche la dea Mania citata da Varrone. Mana è un termine di origine polinesiana che significa “forza soprannaturale impersonale”. Per G. Dumézil il nome attribuito dai romani al mana è Numen, Nume, il Daimon dei Greci.
- Potenziale, Neutro, Giove.
- Potenziale Positivo Marte Bellicoso.
- Potenziale Negativo, Quirino Mars Tranquillus.
Figura 1. Il triangolo della polarità
Giove è il padrone della folgore, l’ancile gli appartiene; Marte, il dio della guerra, viene spesso rappresentato con una lunga lancia in mano, simbolo di saetta, fulmine. Le lance di Marte e Quirino li rappresentano. La cerimonia dei Salii Palatini che in principio vedeva solamente un gruppo di sacerdoti che conducevano la processione con gli ancilia e le lance, si modificò quando venne fondato il secondo collegio sacerdotale saliare, prevedendo di far sfilare insieme ai 12 sacerdoti. Secondo Colonna (1991, p. 91), pare difficile che le insegne-talismano dei due collegi sacerdotali, sacri a divinità affini ma comunque diverse, non si distinguessero tra loro anche esteriormente, tanto più che, a rigore, solo i dodici di Marte contavano tra i pignora imperii.
La tecnica usata per costruire il canale ionizzato elettrico lungo il quale scorre la saetta è detta triangolazione. Il triangolo delle polarità ci informa che la corrente parte dalla polarità negativa per congiungersi con la positiva. Il fenomeno avviene in due fasi: dal negativo alla parte positiva verso la parte neutra, e poi dalla parte negativa di quest’ultimo verso il polo positivo. Creato il canale ionizzato, la corrente sale direttamente dal negativo verso il positivo.
Si istituì così il duplice culto del Marte Bellicoso in tempo di pace e del Marte Tranquillo in tempo di guerra, ad immagine del misterioso Dio Giano Bifronte. I due gruppi di sacerdoti Salii di Marte e Quirino portavano due volte l’anno in processione i 12 scudi sacri a forma di 8, cioè bilobati, con le 12 lance consacrate a Marte per poi riporli nella Regia.
Figura 2. Simbolismo scudo bilobato (Ancilia)
Lo scudo bilobato ritrovato nella tomba 1036 di Veio (Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia) risulta formato dalla semi sovrapposizione di due scudi rotondi. La realizzazione richiama l’intersezione dei Due Cerchi che rappresentano il Medesimo (+) e il Diverso (-) che genera la figura del Pesce, la Piscis Vesica (+/-), la Madre generatrice di tutte le figure geometriche. I Due Cerchi intrecciati in modo da formare Vesica Piscis sono stati considerati dagli antichi filosofi matematici come i genitori dei numeri e delle figure geometriche, e aggiungiamo la polarità elettrica.
Furono creati tre ordini di Flamines Maiores che adempiono il servizio di Giove, di Marte e di Quirino, e questa triade di Dèi appare predominante in svariate formule sacre che risalgono al periodo più antico. La triade Giove – Marte - Quirino espresse lo stato romano, fino a quando non fu sostituita dalla triade Giove - Giunone - Minerva, protettrice della forma “cittadina civica “.
Numa poi si preoccupò di istituire dei sacerdozi, sebbene allora adempisse egli stesso alla maggior parte delle mansioni sacre, in particolare a quelle riservate oggi al Flamen Dialis. Pensando che in una città così bellicosa vi sarebbero stati più simili a Romolo che re simili a Numa, e che avrebbero partecipato personalmente alle guerre, egli volle evitare che i servizi religiosi di pertinenza regale subissero interruzioni; creò quindi, per Giove, un flamine che rimaneva perennemente al suo posto e gli conferì il privilegio di un abbigliamento speciale e della sedia curule del re. Ad esso aggiunge due flamini, uno per Marte e uno per Quirino ... Tito Livio (l, 20, 1-2)
Unico fra i sacerdoti, come le Vestali, il Flamen Dialis era preceduto da un littore (Plutarco Q. R. 113) e possedeva il privilegio di sedere in Senato. Tito Livio parla della creazione dei sacerdoti, i primi dei quali - e solidali tra loro - sono appunto i tre Flamines Maiores (20, 1-2), seguiti dalle Vestali, dai Salii e infine dai Pontefici (20, 3-7).
I SALII
I Salii, secondo alcuni erano un’istituzione ben più antica di Numa Pompilio, risalivano addirittura al re-dio Fauno, che li creò in onore di Marte, costituendo così i primi culti iniziatici latini. A Roma, si riteneva che Salio, un compagno di Enea, vi avesse portato da Samotracia l’istituto dei Salii che erano gli equivalenti latini dei sacerdoti della Religione dei Misteri.
Secondo altre versioni, i Salii erano stati introdotti a Roma dagli Etruschi di Veio o da Salia figlia del re etrusco Anio, eponimo del fiume Aniene[1]. La danza armata con gli ancilia non era peculiare di Roma: Alba, Lavinio, Tuscolo, Tivoli, Anagni avevano da tempi remoti le loro comunità di Salii. Nel suo Commentario all’Eneide (VII, 285) Servio sostiene addirittura che gli abitanti di Tivoli e Tuscolo conoscessero i Salii prima ancora dei Romani.
Erano suddivisi in due gruppi di 12 membri, i Salii Palatini e i Salii Collini che risiedevano rispettivamente sul Palatino e sul Quirinale. Erano chiamati anche Fratres, Fratelli, ed erano scelti fra giovani patrizi con entrambi i genitori ancora in vita. La loro carica era a vita.
Il dualismo dei Salii Palatini e dei Salii Collini (Quirinali) è fondato sull’articolazione concettuale di Marte e di Quirino; è naturale che le due congregazioni di sacerdoti fossero domiciliate là dove risiedeva originariamente o solo in un secondo momento il dio di ciascuna di esse. Ciascuno dei tre Dèi Giove Marte e Quirino ha effettivamente un rapporto personale con i salii: Giove, secondo la leggenda di fondazione, fece cadere l’ancile dal cielo; Marte e Quirino sono rispettivamente i patroni dei due gruppi di Salii attraverso la storia.
Pur essendo il padre dei gemelli fondatori Romolo e Remo, Marte non interviene mai in rapporto con la regalità. Non a lui, ma a Giove, suo figlio Romolo collega la propria opera. Numa, secondo la tradizione, istituì il suo Flamine e il suo gruppo di Salii il collegio dei Salii di Mars Gradivus, in numero di 12 scelti fra le famiglie nobili (in principio, solo della famiglia dei Ramnes), conseguenza del partito preso di attribuire a Numa la fondazione di tutti i sacerdozi.
Mentre il guerriero e impulsivo Tullo Ostilio, in piena guerra promise di istituire un secondo collegio dei Salii di Mars Tranquillus, se sarà vincitore dei Sabini scelti fra le famiglie nobili (in principio, solo della famiglia dei Tities), indice di un’origine risalente agli inizi della monarchia, quando il Palatino era ancora separato dagli altri colli. I primi 12 rappresentavano Marte, i secondi il dio Quirinus nel periodo da novembre a febbraio.
Il pacifico re Numa istituì i Salii di Marte Gradivo (Liv. 1 , 20, 4), prevedendo le future guerre di re meno tranquilli di lui; e invece proprio il più bellicoso, il più rigorosamente militare dei re pre-etruschi, Tullo Ostilio, in piena battaglia, preoccupato dall'andamento della guerra che non accennava a concludersi, promise di costituire un secondo gruppo di Salii se fosse riuscito quel giorno stesso a vincere i Sabini, (Dion. 3, 32, 4). Così, dunque, Numa il pacifico per eccellenza, serve Marte e il passaggio alla guerra, mentre Tullo, il guerriero per eccellenza, serve Quirino e formula il voto per consentire ai romani di passare, nelle condizioni sperate, dalla guerra alla pace.
La collaborazione dei due gruppi di Salii Marte e Quirino, garantiva al tempo stesso ciò che è al di sopra della guerra e della pace Giove attraverso la continuità della vita politica e cultuale, del potere e della religione. In tal modo i loro talismani, nonostante l'uniformità delle loro parvenze esteriori, corrispondono agli ambiti di tutte e tre le funzioni.
Ciascuno dei due gruppi comprende dodici membri, ciascuno ha il suo magister, il suo locale, i suoi archivi; ma tutti insieme sono in tutela Giove, Marte Quirino. Il loro equipaggiamento è quello, se non dei più antichi soldati, almeno di soldati molto arcaici.
G. Dumézil scrive che Giove, secondo la leggenda di fondazione, fece cadere l’ancile dal cielo; Marte e Quirino sono rispettivamente i patroni dei due gruppi di Salii attraverso la storia. Scrive Servio nel commento all’ottavo libro dell’Eneide (Aen. 8, 663), che i Salii erano sotto la tutela di Giove, Marte e Quirino.
La Triade maschile è dunque Giove, Marte e Quirino. Gli ancilia sono antichi, non certo il valore di pignora imperii, ma con quello di talismani di sicurezza annuale. Quale dio oltre Giove sovrano poteva fornire alla collettività simili talismani? E quale altro dio avrebbe potuto far meglio cadere un oggetto dal cielo? L’attribuzione di uno dei collegi di salii a Marte e dell'altro a Quirino, qualunque ne sia il significato, è accertata[2].
I Salii erano uno dei collegi sacerdotali più ragguardevoli nell'antica Roma e avevano il compito di aprire e chiudere ogni anno il tempo che poteva essere dedicato alla guerra (per gli antichi romani il periodo per le guerre andava da marzo ad ottobre per ovvie ragioni di approvvigionamento delle truppe). Questo tempo di passaggio aveva un'importanza fondamentale per il cittadino romano, ad un tempo civis (cittadino) e miles (soldato).
Il 1° marzo i Salii portavano in processione per la città i sacri scudi (ancilia), battendo le lance su di essi e cantando l’antichissimo Carmen saliare. La festa culminava il 19 marzo, primo giorno delle Quinquatrie. In ottobre si svolgevano cerimonie simili fino all’armilustrio (19 ottobre), quando le sacre armi erano riposte. Con il mese di Marzo il cittadino romano diveniva miles e passava sotto la giurisdizione militare e la tutela del dio Marte e le manifestazioni dei Salii Palatini segnavano questo passaggio.
Nel mese di Ottobre il cittadino romano tornava, come civis, ad occuparsi delle attività produttive sotto la tutela del dio Quirino e i riti guidati dai Salii Quirinales segnavano questo momento purificando uomini, armi ed animali che avevano partecipato ad attività belliche. I Salii chiudevano la stagione della guerra nel mese di ottobre con le tre feste di purificazione del Tigillum Sororium, dell'Armilustrium e dell'October Equium, per la purificazione dei soldati, delle armi e dei cavalli.
Fu sacerdote salio, anche Publio Cornelio Scipione, che proprio per questo raggiunse in ritardo le legioni che lo aspettavano in Ellesponto, infatti, i sacerdoti Salii non potevano cambiare domicilio per un mese, dopo ogni sacrificio.
I 12 Ancili furono custoditi dai sacerdoti Salii, che traevano il loro nome dalle particolari danze guerriere “saliendo et saltando”, che effettuavano eseguendo in modo veloce complicate evoluzioni. I Salii procedevano per le strade di Roma indossando abiti e armature militari antiche, fermandosi lungo la strada in alcuni luoghi per eseguire danze rituali e cantare i loro antichi inni conosciuti come Carmen Saliare, cantati all’inizio (marzo) e fine (ottobre) della stagione della campagna militare.
I Salii erano presieduti da un Magister, danzavano su un ritmo a tre tempi, riproducendo (redamptruare) le figure eseguite (amptruare) dal capo della danza il Praesul, e intanto, seguendo il capo del coro il Vates, cantano i versi del Carmen Saliare, a malapena comprensibile alla fine della repubblica, in onore di singoli Dèi (uersus janii, Jouii, Junonii, Mineruii ecc.) o di tutte le divinità (axamenta). Ecco un piccolo frammento dei canti:
Canta di lui, il padre degli dei! Appello al dio degli Dèi!Quando tuoni, o Dio di luce, tremano davanti a te!Tutti gli Dèi sotto di te ti hanno udito un tuono!...ma di aver acquisito tutto ciò che è sparsoOra il buono ... di Cerere ... o di Janus.
Questi dodici sacerdoti erano l’immagine degli Dèi Consenti (Dii Consentes) elencati dal poeta Ennio nei suoi Annales, ed erano Giove, Marte, Nettuno, Apollo, Mercurio, Vulcano, Giunone, Vesta, Minerva, Cerere, Venere e Diana. Erano la corrispondenza degli “Dèi consenti” Etruschi, consiglieri del dio Tinia, spietati, senza nome e misteriosi, anch’essi in numero di dodici.
Il carmen terminava con l’invocazione Mamuri Veturi, che non vi è ragione di separare dal fabbro leggendario dagli ancilia.
Figura 1. Sacerdote con apex
Sopra la tunica indossavano la toga definita picta da Tito Livio e trabea da Dionigi di Alicarnasso, una pettorina corazzata in bronzo ed un mantello. Indossavano lo stesso copricapo dei sacerdoti Flamini, un casco in ottone con punta (apex), sormontato da un’asticciola di legno d’olivo. Alla base un piccolo disco di bronzo. Di bronzo erano formate anche le spade e gli ancili. Tra le parti costitutive dell’apex, è esplicitamente attestata la presenza dell’apiculum, un filo di lana rossa che avvolgeva ed occultava interamente la bacchetta. alla lana veniva riconosciuta un’altissima qualità catartica, anche solo grazie al fatto di entrare in contatto diretto con la pelle: per esempio, restando nell’ambito degli ornamenti del capo, i sacerdoti officianti usavano circondarsi le tempie con le verbenae, ossia delle speciali corone sacre, dalle quali pendevano le infulae, piccole bende fatte proprio di lana.
Figura 2. Danza dei 12 Sacerdoti Salii
Le Feriae Martis si tenevano dal 1º marzo al 24 marzo. Durante le Feriae Martis i dodici Salii Palatini percorrevano la città in processione, portando ciascuno un Ancile, uno dei dodici scudi sacri, appeso a un’asta di legno e portato a spalla, per le vie di Roma, da due schiavi. Gli scudi sacri erano percossi con le lance sacre di Marte (hastae Martiae) in un crescendo ritmico quasi ossessivo, determinato dal martellante passo di danza[3] a tre tempi, detto tripudium, ogni tre passi un saltello, e intonando canti e litanie liturgiche contenenti invocazioni rituali in linguaggio arcaico detti carmina (da Carmen Saliare). I sacerdoti guerrieri si fermavano ogni notte ad una stazione diversa (mansio). Il 19 marzo si teneva il Quinquatrus, durante il quale gli scudi venivano ripuliti. Il 23 marzo si teneva il Tubilustrium, dedicato alla purificazione delle trombe usate dai Salii e alla preparazione delle armi dopo la pausa invernale. Il 24 marzo gli ancilia venivano riposti nel sacrario della Regia.
I due mesi in cui hanno luogo le manifestazioni dei Salii sono quelli che inquadrano la stagione guerresca; in particolare, le due feste relative agli anni, in cui i Salii esibiscono i loro talenti, si corrispondono simmetricamente, prima e dopo i combattimenti: Quinquatrus del 19 marzo e Armilustrium del 19 ottobre. Le espressioni tecniche sono, in marzo, ancilia mouere, e in ottobre ancilia condere: con le loro armi e con le loro danze, i Salii aprono e chiudono religiosamente la campagna militare d’estate. Tanto nell’apertura quanto nella chiusura essi garantiscono un passaggio: dalla pace alla guerra, dalla guerra alla pace; la loro azione è diversa da quella di Giano, ma produce gli stessi effetti (Giano d’altronde è menzionato nel carmen Saliare). È naturale quindi che il Mars belli - cioè Marte puro e semplice - e il Mars tranquil/us - cioè Quirino - collaborino alle operazioni dei Salii. così che i Salii di Marte aprissero la via solo alla guerra e i Salii di Quirino solo alla pace: nell'una e nell'altra circostanza erano necessari i due gruppi insieme, per una sorta di passaggio di poteri da un dio all’altro. Neppure occorre immaginare che i due gruppi compissero azioni rituali diverse: Quirino, dio della pace vigilante, è armato come Marte, dio della guerra; le medesime acconciature e le medesime danze servivano quindi ai Salii per significare la successione dei loro dei, ciascuno dei quali non distruggeva l'altro, ma lo completava e anzi ne preparava con la propria azione il ritorno[4].
G. Dumézil in “Religione Arcaica Romana” scrive che Roma perse fin il ricordo delle schiere di guerrieri che si consideravano più che umani e, grazie a un'iniziazione magico-militare, depositari di poteri soprannaturali. A Roma gli ultimi rappresentanti di queste truppe eroiche e magiche forse esistono, ma non combattono: potrebbero essere i gruppi di sacerdoti Salii.
Figura 3. Danza Prylis dei Cureti intorno a Zeus fanciullo
Dionisio d’Alicarnasso[5] mette in relazione i Salii con i Cureti cioè quelli kabirici[6], e la loro pirrica, la danza armata greca per eccellenza, con forti valenze iniziatiche. Quando Rea si fu sgravata dal piccolo Zeus in una grotta sul monte Ida nell’isola di Creta, essi coprirono con il frastuono della loro fragorosa danza, chiamata “prylis”, i vagiti del neonato, in modo che non fossero uditi da Cronos.
La danza dei Salii sembra fosse simile alla danza con cui Teseo celebrò la sua vittoria sul Minotauro, ispirata ai movimenti delle gru, danza ben conosciuta dai Romani di età monarchica, come testimonia il ritrovamento di una lastra in terracotta negli scavi della Regia pertinenti al livello della seconda metà del VI sec. a.C. e raffiguranti un Minotauro ed una gru accompagnati da due felini. La stessa danza era raffigurata sullo scudo di Achille.
Figura 4. Salii nell’atto di battere sullo scudo di pelle con Marte sullo sfondo
I sacerdoti pre-ellenici invocavano la pioggia facendo roteare continuamente dei rombi in modo da descrivere la figura di un otto, imitando così il rumore del vento. La luce dei lampi era invocata facendo girare continuamente delle torce accese (dei fuochi), sempre formando degli otto, numero che è rappresentato con otto cerchi sugli ancili dei romani. Il rumore del tuono era imitato battendo con due bastoncini su grandi scudi di pelle di bue tagliati rigidamente tesa in modo da formare un otto, proprio come gli Ancili dei Latini. La doppia bacchetta doveva percorrere continuamente le due facce dello scudo a forma di otto, come rappresentato in un bassorilievo scoperto nel 1865, riproducente tre sacerdoti Salii danzanti, due dei quali perfettamente conservati.
Poteva accadere che, nel periodo in cui le hastae e gli Ancilia erano riposti nella Regia, essi vibrassero o si muovessero spontaneamente. Si trattava sempre di un sinistro presagio: qualcosa di terribile sarebbe accaduto.
Il nome dei Salii era fatto derivare da salire, danzare saltando, com’era la loro danza sacra, o da Salio di Mantinea o Saone di Samotracia, ambedue compagni di Enea e introduttori della danza pirrica. Nell’Eneide i Salii nel bosco sacro danzano attorno all’altare di Ercole alla presenza di Enea ed Evandro. “Allora i Salii a cantare intorno all’are, che fumano, ecco pronti, le tempie inghirlandati di pioppo questo è il coro dei giovani e quello dei vecchi, e rinarrano in ritmo le lodi d’Ercole (Aen. 8 285)”.
Virgilio fa danzare alla presenza di Enea i Sali attorno all’altare di Ercole. Sappiamo che le cerimonie dei Salii sono legate a Giove tonante e alla pietra scudo caduta dal cielo, la pietra fulmine. La figura di Ercole rappresenta qualcosa che va oltre ad un personaggio storico oppure secondo altri inventato dalla fantasia. Erodoto[7], scrive che quando egli chiese dove fosse la patria di Ercole, gli Egiziani gli indicarono la Fenicia. Porfirio nato in Fenicia, ci assicura che al Sole fu dato il nome di Ercole. Il poeta Nonno designa il Dio-Sole adorato dai Tiri (Fenici) col nome di Ercole Astrochyton, cioè Ercole dal manto di stelle. L’autore degli Inni Orfici[8], nell’Inno XII descrive Ercole come il Sole, “Padre di tutte le cose, nato da se stesso, Dio generatore del Tempo ... valoroso Titano”. Ercole rappresenta il Sole e anche la Luce Magnetica , il serbatoio delle Forze elettromagnetiche.
Questi culti, la cui funzione era tenuta segreta, erano riti kabirici legati ai segreti del fuoco creatore e distruttore, il pitagorico Archita documenta esplicitamente l’uso dei rombi durante i Misteri. Le raffigurazioni cretesi sulla discesa della folgore sullo scudo documentano la conoscenza di queste pratiche dai sacerdoti cretesi. Erittonio, un discendente di Dardano regnò su Creta, portando verosimilmente nell’isola il culto kabirico. Il mito narra che fu proprietario di 3000 giumente, di cui Borea il Vento del Nord, s’innamorò, generando dodici puledri, così leggeri che non toccavano terra quando correvano. Dodici erano gli scudi sacri mostrati dai Salii al popolo romano.
[1] Plutarco, Numa, XIII; Festo, s.v. Salio; Servio Danielino, commento all'Eneide, VIII, 285; Virgilio, Eneide libro V, 298 e segg.; Pseudo Plutarco, Vite parallele, 40.
[2] Georges Dumézil: La religione romanica arcaica.
[3] La danza dei sacerdoti italici richiama alla mente la danza della pioggia degli sciamani d’America.
[4] G. Dumézil La religione romana arcaica.
[5] Dioniso d’Alicarnasso, II, 70, 3-5.
[6] Questa classe di Dei, i Cureti, talvolta identificata con gli Dei del Diluvio, è simile ai Dioscuri, Anacti, Dii Magni, Lari, Penati, Dei Dactyli, Mani, Titani, Aleti, Kabiri, i Rishi indù.
[7] Erodoto, II, 42.
[8] Orfeo, come Pitagora, Buddha, Gesù, Ammonio Sacca ecc., non scrisse mai nulla: l’Insegnamento è tramandato solo oralmente e in segreto.
IL TEMPIO DI MARTE SULLA VIA APPIA
Il tempio più antico dedicato al dio della guerra, Marte, templum Martis extra portam Capenam, si trovava appena fuori le mura, oltrepassata Porta Capena nei pressi del primo miliarum della Via Appia, in posizione dominante sulla valletta dove scorreva l’Almone. Qui i generali romani radunavano le legioni prima di partire per le campagne militari e qui i soldati, tornati dalla guerra, lasciavano le armi prima di entrare nell’Urbe Liv. 7, 23, 3). Il tempio risaliva al IV secolo a.C. e, secondo quanto riporta Tito Livio, fu costruito per un voto durante la guerra gallica e dedicato il 1° giugno del 368 a.C. dal duumviro Tito Quinzio. I duumviri (“due uomini”) erano patrizi che avevano il compito e le responsabilità della cura e della consultazione dei libri Sibillini. Il santuario durò più di ottocento anni; lo distrusse certamente l'imperatore Onorio quando fece riparare il muro di Aureliano a spese degli edifici vicini, e si pensa che i blocchi di marmo inseriti nella ricostruzione della porta Appia provengano da quell’antico testimone della grandezza romana.
Del Tempio di Marte parla sia Cicerone nelle sue epistole che Tito Livio che vi si riferisce anche come ad simulacrum Martis perché all’interno del tempio vi era una statua di Marte, molto probabilmente quella eretta dal console Marco Claudio Marcello nel 216 a.C. per un voto pronunciato durante la guerra per la conquista di Siracusa (CIL I 2 609) e che Giulio Ossequiente nel suo “Libro dei Prodigi” racconta che fu vista sudare. Per arrivare al tempio di Marte fu realizzata una strada che partiva da Porta Capena e che essendo in leggera salita fu chiamata Clivus Martis; quando nel 189 a.C. fu pavimentato il primo miglio della Via Appia, fu pavimentato anche il clivio che portava al tempio e lungo la strada furono aggiunti dei portici.
E’ forse per influsso del Lapis Manalis, la “pietra che suda” custodita nel tempio, che nel 217 a.C., in uno dei momenti più drammatici della seconda guerra punica, il simulacro di Marte e simulacra luporum rappresentanti dei lupi che erano all’interno del tempio presero prodigiosamente a “sudare”, cioè ad emettere un misterioso liquido come cattivo auspicio per le vicende militari.
«Tu stai parlando delle statue, o Trismegisto?». «Delle statue, o Asclepio. Vedi come anche tu sei incredulo? Io intendo le statue dotate di anima e di intelletto, ripiene di soffio vitale e che compiono tali e tanti miracoli; statue che conoscono in anticipo il futuro e lo predicono per mezzo di sorti, profezie, sogni e in molti altri modi; statue che arrecano le malattie e le curano, procurando dolore o piacere a seconda dei meriti degli uomini[1].
Il simulacra è una Statua o immagine di un dio. Il termine deriva dal greco “idolo”, che significa "simulacro". Virgilio narra che Enea esule portava con sé i Penati e i Grandi Dèi, cioè i simulacra dei Kabiri. Le immagini di tutti gli dèi dell’antichità erano tutte idoli e feticci sia che fossero chiamate Téraphim, Urim e Thummim, Kabiri o Cherubini, o dèi Lari. Nel capitolo XXXI (e seguenti) della Genesi, in Ur dei Caldei in Mesopotamia, in cui gli antenati di Abramo, Serug e Terah, adoravano piccoli idoli in argilla che chiamavano i loro dèi; e anche che Rachele rubò ad Haran le immagini (Téraphim) di suo padre Labano.
Fondato all’indomani del saccheggio subito per opera dei Galli, il tempio di Marte (Aedes Martis) della via Appia era uno dei più celebri santuari di Roma antica, punto di riferimento di importanti cerimonie e di ricorrenti rituali a carattere magico. Qui i generali romani radunavano le legioni prima di partire per le campagne militari e qui i soldati, tornati dalla guerra, lasciavano le armi prima di entrare nell’Urbe. Dionigi di Alicarnasso ci fa sapere che dal tempio di Marte iniziava la solenne sfilata dei cavalieri transvectio equitum che si teneva il 15 luglio di ogni anno in ricordo della vittoriosa battaglia del lago Regillo combattuta dai Romani nel 499 a.C. La parata, organizzata dai cavalieri si fermava davanti al tempio dei Dioscuri al Foro Romano, e si concludeva al tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio.
Perché la parata non si arresta al tempio dei Dioscuri ma prosegue per il tempio di Giove? Il rapporto tra il Dio e gli equites nasce con il ruolo assunto da Giove come primo tra gli Dèi di Roma. La Cavalleria di Roma era stata fondata dallo stesso Romolo e quindi essa alle sue origini, anche per il suo significato guerriero, doveva avere in Marte, divino Padre di Romolo, il suo Dio di riferimento.
“Soprattutto c’è la parata che si svolge dopo il sacrificio da parte di coloro che possiedono un cavallo pubblico, che ordinati per tribù e centurie procedono per file tutti a cavallo, come se tornassero dalla battaglia, coronati di rami d’ulivo e con indosso la toga orlata di porpora che chiamano trabea, partendo da un tempio extraurbano di Marte, attraversando il resto della città e il Foro fino a giungere al tempio dei Dioscuri, nel numero anche di cinquemila, portando con sé le onorificenze ricevute in battaglia, sublime e degno spettacolo della grandezza del loro potere”. (Dionigi di Alicarnasso Ant. Rom. VI, 13, 4).
La tradizionale cerimonia della Transvectio equitum, che meravigliò con il suo splendore Dionisio di Alicarnasso (6, 1 3 , 4), che sul finire della Repubblica era ormai in declino, venne ripristinata da Augusto. Mentre il tempio di Mars belli è fuori dalle mura, un poco oltre la Porta Capena, quello del Mars qui praeest paci è intra urbem, nella sporgenza che il muro di Servio forma adeguandosi al contorno del Quirinale, vicinissimo a due porte, la Sanqualis e la Salutaris, e non lontano dalla Porta Collina o Quirinalis, di cui Festo è in dubbio se far derivare il nome dal colle o dal santuario.
[1] Libro Sacro di Ermete Trismegisto dedicato ad Asclepio, 24.
LAPIS MANALIS
Una singolare reliquia Forma Urbis custodita presso il tempio di Marte della via Appia fuori della Porta Capena, era la Lapis Manalis, o “pietra che suda”, cioè un frammento di roccia di origine sconosciuta (probabilmente un meteorite) che probabilmente in determinate condizioni ambientali e meteorologiche aveva il potere di condensare l’umidità dell’aria e ricoprirsi di goccioline. Per tale motivo nei periodi di eccessiva siccità questa pietra, considerata miracolosa, veniva portata in processione all’interno della città per invocare la pioggia. Era questo uno dei rituali magici che nella religione di Roma arcaica avevano per oggetto delle pietre, come nel caso della Iuppiter Lapis, o pietra di Giove, conservata nel tempio di Giove Fetretrio sul Campidoglio, e che veniva utilizzata dai Feziali per i riti che precedevano le dichiarazioni di guerra.
Il termine latino lapis manalis si riferisce a due diverse pietre sacre, entrambe legate alla religione romana. La prima pietra era una roccia che copriva l’ingresso dell’Ade. Il grammatico romano Festo chiamò il lapis ostium Orci, “la porta dell'Orco”, e questo lapis, di cui si copri il mundus e il templum romuleum, venne naturalmente considerato nella tradizione popolare come l'heroon, ossia il sepolcro di Romolo.
La seconda pietra era usata per invocare la pioggia, infatti, nella lingua latina l'aggettivo manalis è propriamente qualificativo di una fonte che getta acqua copiosa e perenne. Per questo lapis manalis s’intende propriamente una pietra sacra che ha virtù di provocare la pioggia, la si faceva rotolare e mimare il rumore dei tuoni per sollecitare la pioggia. Il Lapis manalis era dunque un monolite apportatore d’acqua e d’abbondanza, infatti, d’appresso il Tempio di Marte fu fatto costruire da Lucio Cornelio Scipione fratello di Publio, il Tempio della dea Tempesta.
Nella disciplina augurale degli Etruschi, che i Romani seguirono in gran parte, vi era un rito consistente nel far ruzzolare (verrere) una o più pietre (petrae manales), in tempo di siccità, per ottenere la pioggia. Questa pratica, dapprima di carattere privato, entrò nella religione dello stato, sotto forma di una processione (pompa), presieduta dai pontefici. L’atto più importante di tale cerimonia, che si diceva aquaelicium, era il trasporto della pietra sacra, di forma cilindrica, ordinariamente deposta nel tempio di Marte, rappresentante le forze vegetative della terra. Nel giorno prefisso la pietra sacra veniva recata solennemente in città, fino al tempio di Giove Capitolino, Dio delle Folgori, da cui veniva fatta rotolare verso il Foro affinché potesse sprigionare le forze naturali. La matronae, che prendevano parte alla pompa, giunte al clivo Capitolino, scioglievano le loro chiome e si denudavano i piedi (onde il nome della processione: nudipedalia) e così scalze ascendevano l’erta del colle, recitando preghiere a Giove, perché concedesse la pioggia. La cerimonia assumeva un carattere funebre; i magistrati che vi prendevano parte deponevano la toga listata di porpora, e i littori portavano i fasci capovolti[1]. Marte era così esplicitamente considerato il signore della pioggia che cerimonie abbastanza tardive come i Nudipedalia, destinati pur essi a far cadere la pioggia, si collegarono naturalmente a lui.
Perché le matrone romane durante il rito si scioglievano i capelli e camminavano a piedi nudi? In epoca repubblicana la donna divideva semplicemente i capelli a metà con una scriminatura e poi li legava dietro la nuca oppure si faceva delle trecce raccolte in un cercine sulla fronte. I capelli sono stati considerati sempre come segno di forza, energia, fertilità, bellezza, virilità e sessualità. Le matrone non mostravano i capelli in pubblico, soprattutto sciolti. Lo sciogliersi i capelli è un gesto altamente erotico ed intimo.
Secondo Trifiodoro (345 e seg.), all’entrata del cavallo di legno a Troia, un gruppo di donne sciolse le cinture di verginità, i mitrai, mentre un altro gruppo sciolse il Krédemnon delle loro anfore, spargendo il vino per terra. L’ingresso del cavallo fu accompagnato da feste orgiastiche fra i due sessi. Il muro della città di Troia aveva un nome speciale ierón krédemnon, sacro velo, un sigillo magico, sciogliere il Krédemnon, il sacro sigillo che proteggeva la città, è l’immagine della deflorazione di una vergine. Sciogliere il velo, il cerchio equivale ad accettare di farsi, fecondare, la donna con i piedi nudi a contato con la terra è il suo alter ego, la Terra che attende l’acqua del Cielo sotto forma di pioggia, vista come elemento fecondatore.
Plinio (Nat. 2, 140), collega Iuppiter Elicius (Giove Elicio) ai riti per richiamare i fulmini. Livio (1, 20, 7) racconta che Numa ha dedicato un altare sull’Aventino a Giove Elicio per ottenere i fulmini indicatori della volontà divina. Gli studiosi non sono concordi nel ritenere che Iuppiter Elicius abbia a che fare con i fulmini: si pensa infatti che esso debba essere ricollegato al manalis lapis e al rito dell’aquaelicium, impiegato per ottenere la pioggia in periodi di siccità.
L’introduzione del culto di Giove Elicio a Roma era connessa al re Numa Pompilio che avrebbe appreso, secondo Ovidio (Fast. 3. 285-354) da Fauno e da Pico, l’arte di evocare (elicere) il dio supremo dal cielo sulla terra. Anche in Livio 300 (1. 20. 7 ad ea (sc. prodigia) elicienda ex mentibus divinis Iovi Elicio aram in Aventino dicavit) e in Ovidio (fast. 3. 327-328 eliciunt caelo te, Iuppiter; unde minores / nunc quoque te celebrant Eliciumque vocant) viene riconosciuta l’etimologia di Elicius da elicere, sebbene entrambi facciano riferimento a Giove in qualità di signore dei fulmini, mentre oggi si tende piuttosto a mettere in relazione il culto di Giove Elicio sull’Aventino con la cerimonia dell’aquaelicium, destinata ad evocare la pioggia nei periodi di grandi siccità e durante la quale veniva portata in processione all’interno della città fino al Campidoglio una pietra, il lapis manalis, solitamente collocata presso il tempio di Marte fuori dalla Porta Capena.
Era questo uno dei rituali magici che nella religione di Roma arcaica avevano per oggetto delle pietre, come nel caso della Iuppiter Lapis, o pietra di Giove, conservata nel tempio di Giove Fetretrio sul Campidoglio, e che veniva utilizzata dai Feziali per i riti che precedevano le dichiarazioni di guerra. E’ forse per influsso del Lapis Manalis che nel 217 a.C., in uno dei momenti più drammatici della seconda guerra punica, il simulacro di Marte ed alcune sculture rappresentanti dei lupi che erano all’interno del tempio presero prodigiosamente a “sudare”, cioè ad emettere un misterioso liquido come cattivo auspicio per le vicende militari.
[1] Enciclopedia Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/pietra-manale_%28Enciclopedia-Italiana%29/
LUPERCALIA
Nell’Eneide (VIII, 336-341) Virgilio racconta del re Evandro che, accompagnando Enea nei luoghi dove sarebbe sorta la città di Roma, gli mostra l’altare dedicato alla ninfa Carmenta, presso il quale sarà poi costruita la porta Carmentale. “Questo diceva, e l’ara, lì a pochi passi, gli mostra e la porta, che Carmentale antichissimo onore, della valle fastidica, che prima predisse futuri gli Eneadi grandi e il nobile Pallanteo”. Virgilio nei versi tre versi successivi scrive di un grande bosco sacro (come per gli Etruschi). “Di qua un gran bosco sacro, che l’aspro Romolo Asilo fece, e in gelida grotta il Lupercale gli insegna Pan Liceo consacrato secondo il costume parrasio”.
“E per prima cosa costruirono un tempio a Pan Liceo – per gli Arcadi è il più antico e il più onorato degli Dèi – quando trovarono il posto adatto. Questo posto i Romani lo chiamano il Lupercale, ma noi potremmo chiamarlo Lykaion o Lycaeum. Ora, è vero, da quando il quartiere dell’area sacra si è unito alla città, è divenuto difficile comprendere l’antica natura del luogo. Tuttavia, al principio, ci è stato detto, c’era una grande grotta sotto il colle, coperta a volta, accanto a un folto bosco; una profonda sorgente sgorgava attraverso le rocce, e la valletta adiacente allo strapiombo era ombreggiata da alberi alti e fitti. In questo bosco giunse una lupa e si nascose … Si dice in quest’area ci sia stato un santuario degli Arcadi e che in passato giunsero qui con Evandro. Dionigi di Alicarnasso (Antichità romane, I 32.3).
Tito Livio e Ovidio narrano che gli Arcadi provenienti da Argo e guidati da Evandro[1] arrivarono sulle coste tirreniche del Lazio, dove allora regnava Fauno, e fondarono sul colle Palatino, dove più tardi sorse Roma, una città detta dal nome dell'avo suo Pallanteo, Pallantium o Palatium. Quivi egli avrebbe introdotto il culto di Pan Liceo e la festa dei Lupercali, avrebbe ricevuto Ercole che qui avrebbe ucciso il gigante Caco rapitore dei buoi rossi di Gerione, e in suo onore avrebbe dedicato l'Ara massima destinandovi il sacerdozio gentilizio delle famiglie dei Potizî e dei Pinarî (Liv., I, 7; Ov., Fast., I, 576; Virg., Aen., VIII, 271; Dion. Halic., I, 140).
Evandro e suo figlio Pallante aiutarono Enea e i suoi compagni che sbarcarono sulle coste laziali in seguito alla fuga da Troia. A Evandro si attribuiva il merito di aver reso civile il Lazio e si riportava l’istituzione del culto di divinità ctonie, di Nettuno (Poseidone), di Cerere (Demetra), e soprattutto quello di Pan Licio, in onore del quale istituì le feste dei Lupercali che si celebravano sul Palatino nel mese di febbraio. A lui si doveva la promulgazione di savie leggi, e di aver fatto conoscere ai rozzi aborigeni l'uso dell’alfabeto, della scrittura e della musica. Evandro è presentato come un Istruttore primordiale dell’umanità, un Kabiro.
La cerimonia dei Lupercalia si svolgeva presso la caverna dei lupi, il Lupercale, ai piedi del Palatino. Virgilio scrive: “gelida monstrat sub rupe Lupercal”. Il Lupercalia si celebrava nei giorni nefasti di febbraio, il mese purificatorio: il giorno 13 febbraio sacrificio a Fauno nell’isola Tiberina, il giorno 15 i Lupercalia. Venivano iniziati due nuovi Luperci (uno per i Luperci Fabiani e uno per i Luperci Quinziali) nella grotta del Lupercale. Il poeta Sesto Properzio (I secolo a.C.) accennò al culto di Luperco nella prima elegia del quarto libro delle Elegie, descrivendone in un verso l’origine, risalente agli albori dell’Urbe.
Plutarco nelle sue Vite parallele (Romolo) dà una descrizione minuziosa dei Lupercalia: dopo il sacrificio di una capra o di un capro e di un cane, due nuovi iniziandi venivano segnati sulla fronte intingendo il coltello sacrificale nel sangue delle bestie appena sacrificate. Il sangue veniva quindi asciugato con lana bianca intinta nel latte di capra, dopo di che i due ragazzi dovevano ridere. Sacrificio di capra, pelle di capra, sangue di capra caratterizzano il rito.
Karóly Kerényi[2] scrive che una delle difficoltà che tuttora ostacolano la comprensione della festa dei Lupercalia, si riscontra già nei primi versi di Ovidio:
L’alba del 15 febbraio scorge i nudi Luperci e si svolgono le cerimonie di Fauno bicorne. (Fasti II 267-8)
Nella tradizione Fauno portava il nome di Lupercus. Uomini nudi che nell’esecuzione del rito prendono il nome Luperci dal lupo, mentre il loro dio è concepito con le corna di caprone.
Perché si sacrificava oltre al caprone il cane? In Grecia l’animale sacro di Asceplio il semidio guaritore, figlio di Apollo, non è un lupo, bensì un cane. Plutarco spiega che la concezione greca dei sacrifici del cane era intesa come rito di purificazione.
K. Kerényi ci dice che Faunus e Iuppiter Veiovis avevano un santuario comune nella parte nord dell’Isola Tiberina dove in precedenza fu inaugurato nel 289 a.C. il Tempio di Esculapio. Certamente e non a caso si è associato Iuppiter Veiovis con Esculapio Asclepio, il figlio di Apollo che già in Epidauro era venerato insieme con Apollo. Il tempio di Asclepio sorgeva nella parte meridionale dell'isola, nel luogo oggi occupato dalla chiesa di San Bartolomeo: al suo interno un pozzo prenderebbe la posizione di una fonte sacra collegata al santuario.
Il nome di Iuppiter Veiovis appare nelle forme Vediovis, Vedius o Veiovis e quindi lo identifica chiaramente come un aspetto di Diovis, Dius o Iovis, Dio supremo del cielo. Nella formula della devozione in Macrobio viene invocato insieme ai Dii Manes, che certamente indicano un Dio degli inferi un «Giove infero». Lo stesso dio oscuro si riconosce, a Roma, in Veiovis, in secondo tempio dove c’era una statua del dio fatta di legno di cipresso, che lo mostrava giovane, addirittura nel tipo dell’Apollo greco, con l’arco e con le frecce in mano e una capra sul fianco che gli era sacrificata.
Figura 1. Apollo Veiovis[3]
Un’indicazione di quanto poco sappiamo di questa antica divinità la possiamo dedurre da una moneta della Repubblica Romana, che da un lato mostra la testa di Apollo Veiovis con una corona di alloro e bacche; sotto il mento si vede un piccolo simbolo della folgore. Sul retro un Giovane genio alato a cavallo di una capra davanti e dietro l’animale due cappelli sormontati con una stella. I copricapi sono quelli dei Dioscuri, le divinità del potere elettromagnetico. Un’altra moneta romana mostrata sul sito di monete www.cointalk.com, mostra Apollo Veiovis con corona di alloro comprensiva di ali, e dietro la nuca il tridente, anch’esso simbolo del fulmine.
In Veiovis i Romani stessi non riconoscevano soltanto un Apollo oscuro, bensì anche il dio-lupo. Il dio etrusco Infero Ania è raffigurato con un copricapo con la pelle di una testa di lupo.
Figura 2. Dio Infero etrusco Ania con copricapo con testa di lupo[4]
K. Kerényi osserva che il mese dello svolgimento del rito, cioè febbraio, in latino Februarius, si connette a Februus che significa Purificatore, e a Februum ciò che purifica. Dalla pelle del capro sacrificato si ricavavano delle fruste, quali strumenti di purificazione. I Luperci giravano nudi cinti di un grembiule fatto con la pelle di capra frustando coloro che incontravano, purificandoli in questo modo, si suppone che corressero in direzione anti-oraria, ossia nello stesso verso con cui era stata fondata l’Urbe, ossia in una direzione legata alla purificazione ed al mondo infero.
Questo loro atto si chiamava februare, purificare. Kerényi narra una storia presa dalle Vite Parallele di Plutarco: un fanciulla di nome Valeria Luperca, doveva essere sacrificata a Iuno in Falerii, ma un’aquila fa cadere sull’altare un martello. Con un colpo di questo martello Valeria Luperca guarisce gli ammalati li purifica dalla peste. Il martello è un attributo di Efesto il dio ctonio, e di Velchan l’Apollo infero degli Etruschi. Il martello di Valeria Luperca, le fruste di pelle di capra dei Luperci sono strumenti di purificazione. Si ha un’identità tra ciò che porta danno e ciò che guarisce, proverbiale è l’oracolo di Apollo: “Ciò che ferisce anche guarirà”. La frusta di pelle di capra appartiene al lupo divino che qui è usata dai lupi umani.
Iuno era la grande dea che rappresentava la femminilità delle donne romane, essa portava anche il nome di Iuno Februata, cioè Giunone purificata. Autori tardi, che affermano come Iuno (Giunone) venisse celebrata, in epoca tarda, assieme a Fauno nel giorno dei Lupercalia, con il nome di Februa (o anche di Februata, Februlis, Februta oppure Februalis). Februus, era il Dio etrusco della morte e della purificazione. Giunone, o Iun, Iuno (donna giovane) era un’antichissima divinità italica legata al ciclo lunare adorata da etruschi, sabini ed umbri. Protettrice della vita delle donne in tutti i suoi aspetti: la purezza delle fanciulle, i matrimoni, la fedeltà delle spose e il parto. La frusta di pelle di capra usata dai Luperci è duale, riferita al lupo è di purificazione, riferita alla capra, secondo Ovidio, è un riferimento alla vita alla procreazione.
Il primo Febbraio, Calende, nome da cui deriva la parola calendario, si festeggiava Giunone Sospita. Tutte le calende erano dedicate a Iuno o Giunone, e nel mese di febbraio le si sacrificava un cane (come nella Lupercalia), invece dell’agnellina di ogni inizio mese. Il sacrificio del cane, anzi della cagna, era caratteristico della Dea Madre Terra come divinità ctonia. Nelle calende di febbraio i Romani erano soliti illuminare l’Urbe, per tutta la notte, con fiaccole e candele, e le donne giravano per le strade portando fiaccole accese in onore della Dea Februa Giunone, madre di Marte, e invocavano il figlio per la vittoria contro i nemici.
Figura 3. Giunone Lanuvina - Iuno Seispes (Sospita)[5] Denario con - Iuno Seispes[6]
La pelle di capra di cui si facevano le cinghie dei Luperci era considerata come amiculum Iunonis, elemento del suo costume che ornava la sua immagine culturale a Lanuvio. Il Santuario dedicato a Iuno Seispes (Sospita, propizia) faceva parte dell’acropoli di Lanuvio, antica città di origine etrusca. La dea Giunone o Iuno per gli Etruschi era la dea Uni. Iuno Seispes era dotata di lancia e copricapo di pelle di capra e chiaramente siamo di fronte ad una ipostasi femminile del binomio Februa\Februo. Questa Dea era invocata affinché bruciasse e dissolvesse i malanni portati dall’inverno. Testimonianze del suo culto si trovano in Antemnae l’antica città laziale conquistata da Romolo da dove giunge l’antefissa che mostra la dea Uni o Iuno Seispes con un copricapo dotato di corna di capra. Iuno Seispes di Lanuvio compare su alcune monete della prima metà del I secolo a.C. con l’ancile e lancia come arma di difesa.
K. Kerényi, in Miti e Misteri scrive che i Luperci appaiono lupi e caproni nello stesso tempo, non nel loro nome, ma nella funzione di una cerimonia di purificazione e di fecondazione come caproni-lupi. Questa cerimonia è stata interpretata come un atto di morte e rinascita rituale, nella quale la "segnatura" con il coltello insanguinato rappresenta la morte della precedente condizione "profana", mentre la pulitura con il latte (nutrimento del neonato) e la risata rappresentano invece la rinascita alla nuova condizione sacerdotale.
I lupi svolgono un ruolo particolare nel mito romano. Dopotutto, i mitici fondatori di Roma, Romolo e Remo, furono salvati e allattati da una lupa. Durante tutto il periodo romano, il lupo simboleggiava il potere romano. Il lupo non era solo associato agli antenati di Roma, ma era anche l'animale sacro di Marte. Dopotutto, la madre di Romolo e Remo era Rea Silvia, costretta a diventare una vergine vestale e, secondo la leggenda, sedotta e/o violentata dal dio Marte.
Il culto del lupo nelle terre europee viene fatto risalire alle iniziazioni guerriere, praticate in onore di un aspetto ctonio di Apollo, quel dio che in Etruria fu il misterioso Pater Soranus, associato ai luoghi impervi e montagnosi. La stessa fondazione di Roma richiama il mito del lupo. I due gemelli furono allattati da una lupa. K. Kerényi, Miti e Misteri ci dice che nell’antica Roma si svolgeva la festa religiosa dei Lupercalia. corrispondentemente al culto falisco di Hirpi Sorani. Virgilio nell’Eneide (XI, 785) con le parole “Sommo tra i numi, Apollo, del sacro Soratte, custode che noi sopra gli altri onoriamo” si riferisce agli Hirpi Sorani, i lupi del sacro monte di Sorano, in Sabinia, una sorta di Apollo ctonio. Servio lo identifica con Dis-Pater il patrono dell’oltretomba. I Romani stessi riconoscevano un Apollo oscuro, e un Apollo Liceo, luminoso. Il Dio ctonio etrusco sabino è raffigurato con la testa di lupo e in pelle di lupo.
Il passaggio attraverso il fuoco è una cerimonia di purificazione “purget ut ignis”. Il dio lupo di Sorano appariva come un dio purificatore che in questo caso Apollo sotto forma di lupo annientava ogni cosa impura. Virgilio si riferisce agli Hirpi Sorani, i lupi del sacro monte di Sorano, in Sabinia, una sorta di Apollo ctonio. Servio lo identifica con Dis-Pater il patrono dell’oltretomba. I Romani stessi non riconoscevano solo un Apollo oscuro, ama anche un Apollo Liceo, luminoso. Questa cerimonia includeva il sacrificio della capra, dalla cui pelle si ricavavano delle fruste.
I luoghi di culto del colle Palatino e del Monte Soratte sono diversi tra loro, chiaro e luminoso quello del Palatino, oscuro quello degli Hirpi Sorani. I Sabini davano anche ai loro sacerdoti-lupi, ai loro Luperci, il nome di Hirpus. Servio descrive la caverna la caverna dei lupi del Monte Soratte come una specie di ingresso agli inferi, alito pestifero, crepaccio, vapori vulcanici come a Delfi. Ed ecco l’accostamento alla caverna infernale al labirinto di Minosse. Secondo K. Kerényi l’opinione che il colpo di frusta purificatore sarebbe toccato principalmente alle donne e le avrebbe rese feconde fu un’aggiunta piuttosto inorganica alla cerimonia.
[1] Evandro è una figura della mitologia romana. Era figlio del dio Mercurio e della ninfa Temi o Tiburti, chiamata poi dai Latini Carmenta.
[2] Miti e Misteri – Lupo e Capra.
[3] https://www.cointalk.com/threads/apollo-veiovis-und-amalthea.350182/
[4] Affresco nella tomba dell’Orco a Tarquinia (III e IV sec. a.C.).
[5] Antefissa etrusca Giunone Sospita (pèropizia) dal Lazio, 500-480 a.C., Altes Museum, Berlino. https://it.wikipedia.org/wiki/Giunone_Sospita#/media/File:-0490_Juno-Sospita-Antefix_Altes_Museum_anagoria.JPG
[6] Denario con - Iuno Seispes di L. Procilius (Borgna 1993, p. 12, fig. 5).
NUME NUMEM OMEN
Nell’antica Roma era usanza recarsi ogni anno al santuario della Fortuna Primigenia per una consultazione. Di diversa natura erano i Libri Sibillini, trascrizione di responsi oracolari che erano consultati da sacerdoti[1] detti viri sacris faciundis in occasione di certe decisioni pubbliche di carattere religioso. Nomen omen è una locuzione latina che, tradotta letteralmente, significa “il nome è un presagio”, “il destino nel nome”, di nome e di fatto. Nell’antica Roma il Nume era anche il Nome della Potenza che proteggeva la città, il Nomem-Numen, i Romani sapevano che il Nome o Nomen era la sostanza del Nume o Numen.
I Romani erano convinti che nel nome della persona fosse indicato il suo destino. Nomen omen è una locuzione latina che, tradotta letteralmente, significa “il nome è un presagio”, “il destino nel nome”, di nome e di fatto. Nell’antica Roma il Nume era anche il Nome della Potenza che proteggeva la città, il Nomem-Numen, i Romani sapevano che il Nome o Nomen era la sostanza del Nume o Numen. I nostri antenati sapevano che ogni nome possieda in sé una “potenza”, ”un destino” o una vocazione particolare. Il nome assume il significato di essenza stessa dell’essere. Ecco spiegata la corrispondenza in latino tra i termini nomen, nome, numen potenza spirituale, e numerum numero, e infine omen presagio. I Romani, come del resto la maggior parte dei popoli, ritenevano che ogni città fosse sotto la protezione di una particolare divinità.
Il Nome Segreto di Roma, distinto da quello pubblico, è dunque quello del Numen che sta dietro l’Urbe e il suo destino “numen in cuius tutela Urbs est”, ed è pertanto il Nome che, come insegnava Macrobio, era tenuto nascosto perché non subisse da parte dei nemici il rito dell’evocatio, uno dei rituali più arcaici, ma non meno oscuri e misteriosi. Secondo Festo e Arnobio, anche i nomi degli dii indigetes e degli dii consentes non potevano essere pronunziati. Arnobio aggiunge che quest’ultimi erano 12 sei maschili e sei femminili.
Secondo la tradizione romana il nome era la formula che esprimeva l’energia di ciò che si nominava. Conoscere il nome era conoscere la cosa, sicché la conoscenza del nome dava le chiavi per influire - nel bene e nel male - sulla cosa stessa. Conseguentemente i Romani usavano l’evocatio negli assedi il dio che aveva in tutela la città assediata promettendogli un culto pari o maggiore in Roma. Scriveva Servio (V secolo d.C.): “Per questo motivo i Romani, vollero che fosse celato il nome del dio nella tutela del quale è Roma, e nelle leggi pontificali si badò bene a non chiamare con i loro nomi gli dèi di Roma affinché essi non potessero essere oggetto di exauguratio”.
Secondo una tradizione diffusa nell’antichità, una città aveva tre nomi: uno pubblico Roma, uno sacrale Flora, e uno segreto, che corrispondono al corpo, all’anima, e allo spirito della città.
Secondo alcuni, Roma, quando ancora circoscritta nel solo colle del Campidoglio, ebbe il nome di Saturnia o Valentia, menzionato da Servio a partire dalle testimonianze riportate in opere di autori sconosciuti. Sul Campidoglio riferisce Servio, fu posto uno scudo consacrato sul quale era scritto: “Genio Urbis Romae sive mas sive femina, cioè al Genio della città di Roma, maschio o femmina”. Il Dio dei Misteri Giano aveva due facce una maschile e una femminile a simboleggiare gli opposti.
Forse per questo il poeta e latinista Giovanni Pascoli, nel suo Inno a Roma sostiene che il nome segreto di Roma fosse il suo palindromo, Amor, cioè amore. Secondo lui, dunque, la città era segretamente dedicata a Venere, dea dell’amore e della bellezza, madre e protettrice di Enea e della stirpe troiana. Il nome pubblico di Roma era unito il nome religioso di Flora o Florens, usato in occasione di determinate cerimonie sacre, quello segreto di Roma doveva restare sconosciuto. Giovanni Lido, un tardo scrittore bizantino, ci rivela che i tre nomi dell’Urbe, erano Roma, Flora e Amor. Un’ipotesi, questa di Amor, che rifletterebbe anche il carattere bifronte di Roma, come quello del suo dio Giano Bifronte. L’ipotesi è vera solo in parte Amor è il nome pubblico exoterico cioè pubblico, femminile, collegato alla faccia femminile di Giano, e Roma il nome pubblico maschile.
Il nome segreto di Roma era tutelato severamente, e la sua divulgazione era punita con la morte, come attesta Servio: “Nessuno pronuncia il vero nome dell’Urbe, persino nei riti. E così dunque Valerio Sorano, tribuno della plebe, poiché ardì pronunciare questo nome, fu rapito per ordine del Senato e posto in croce, come dicono alcuni storici; secondo altri, per timore del supplizio fuggì e in Sicilia, catturato dal pretore, fu ucciso per ordine del Senato”. La storia del tribuno della plebe giustiziato per aver pronunciato il suo nome, sembra più un ammonimento che una notizia fondata perché era impossibile che il nome arcano potesse essere conosciuto al di fuori di una ristretta cerchia di Inizia ai Misteri. È improbabile che il nome segreto della città sia pervenuto fino a noi perché chi era autorizzato a conoscerlo non lo avrebbe mai affidato a uno scritto, che poteva cadere nelle mani di un profano. Plinio il Vecchio nella sua opera “Naturalis Historia” afferma:
“Riti misteriosi proibiscono di pronunciare l’altro nome di Roma. Valerio Sorano che osò divulgarlo non tardò a pagarne la pena. Non è fuori proposito accennare qui ad una particolarità dell’antica religione prescritta per questo silenzio. La dea Angerona, alla quale si sacrifica nel giorno 21 dicembre, ha il simulacro con la bocca fasciata da una benda”.
Figura 1. Flora il nome sacerdotale di Roma
Secondo Ovidio la dea Flora è la ninfa Chloris, sposa di Zefiro, il vento che spira da Occidente dopo l’equinozio di primavera. La pronuncia latina ha modificato la lettera iniziale “c” del nome Chloris in una “f” di Floris. Ovidio descrive anche la nascita di Marte da Giunone grazie a un fiore particolare colto dalla stessa Flora, evento che ricalca la nascita di Efesto narrata da Esiodo nella Teogonia.
Ovidio non spiegò mai cosa aveva combinato e perché lo condannarono all’esilio a Tomi, sul Mar Nero (oggi Costanza in Romania). Lì visse gli ultimi anni (morì attorno al 18 d.C.). Nei “Tristia” scrisse:
“Due crimini mi hanno perduto, un carme e un errore/ di questo debbo tacere qual è stata la colpa”.
Sulla rivista specialistica “Appunti Romani di Filologia” (XIX – 2017), Felice Vinci e Arduino Maiuri espongono la tesi dell’esilio di Ovidio. I due studiosi ritengono che il “crimine” che lo ha rovinato sia contenuto proprio negli ultimi versi dei “Fasti”, quelli relativi al mese di Maggio. Ovidio quando passa in rassegna le etimologie relative al mese maggio e alla musa Calliope si sofferma “sugli antefatti della fondazione di Roma, chiamando in causa la costellazione delle Pleiadi”.
I due studiosi notano che Ovidio dà particolare importanza alla stella più importante delle Pleiadi, la primogenita, cioè Maia, in riferimento alla nascita della città. Quindi ipotizzano che “il poeta abbia imprudentemente toccato un argomento tabù, al quale non sarebbe stato lecito fare il sia pur minimo accenno”. Maia era Dea del Fuoco e del calore sensuale. In Roma c'era una divinità indigena dello stesso nome, ma di lei poco si conosce: era forse la compagna del dio Vulcano; comunque il suo nome è associato a quello del dio in una formula pontificale. Ogni 1º maggio, Vulcano le offriva in sacrificio una scrofa gravida. La festa di Maia cadeva il primo maggio, il giorno che il Cattolicesimo festeggia Maria, la Madonna.
Figura 2. Ermes e Maia
Roma vanta una discendenza dardanica attraverso il principe troiano Enea. La madre di Dardano Elettra era una delle sette Pleiadi. Maia figlia di Atlante e di Pleione ed è la madre del dio Ermes, anch’egli un Kabiro: è un ladro di anime, in quanto la sua funzione di psicopompo è quella di traghettare le anime dal buio del regno dei morti.
[1] I custodi dei sacri Libri Sibillini erano minacciati di pena di morte se ne rivelavano una parola.
RITI TEURGICI DELL’URBE - EVOCATIO DEORUM - DEVOTIO
Un modello «mitico» della perdita della protezione divina è il ratto del Palladio, senza il possesso del quale i Greci non avrebbero potuto conquistare Troia: il racconto dell’impresa compiuta da Ulisse e Diomede si trova nella c.d. Piccola Iliade. Marco Baistrocchi elenca in Arcana Urbis, quattro cerimonie o riti teurgici difensivi e offensivi dell’Urbe.
- Evocatio deorum: la conquista delle divinità assediate.
- Devotio: il sacrificio del generale dell’esercito per la vittoria
- Fulgurator: il manipolatore delle folgori.
- Veneratio et oblivio: la seduzione divina e l’accecamento del nemico.
L’evocatio era un rito attraverso il quale i Pontefici, coadiuvati dal generale dell’esercito, pronunciando una formula incantatoria un carmen, invitavano la divinità protettrice della città nemica a trasferirsi a Roma. Le divinità venivano letteralmente “chiamate fuori” dalle loro antiche dimore ed invitate a trasferirsi nel pantheon di Roma e,come ringraziamento di ciò, i Romani erano soliti istituire in loro onore, templi e sacrifici degni della loro grandezza. Il Senato conferiva il nulla osta al generale cum imperio per procedere a celebrare il rito: quanto all’evocatio, esso evidentemente, qualora lo avesse ritenuto necessario, insieme ad un sacerdote, che poteva essere un Pontifex se le due cariche non erano ricoperte da una sola persona. Plinio asserisce al riguardo solo che i Romani con l’evocatio promettevano alle divinità tutelari un culto uguale o più grandioso a Roma.
La celebrazione del rito aveva luogo poco prima che l’esercito sferrasse l’ultimo assalto alle mura. La conoscenza esatta del nome arcano della divinità insieme al carmen costituivano l’elemento essenziale, l’ingiunzione irresistibile che avrebbe provocato l’abbandono della divinità tutelare. Secondo Macrobio, era innanzi tutto necessario individuare il nomen urbis ed il nomen numinis della divinità tutelare prima di procedere all’evocazione. Dato che la città e il tempio erano stati fondati col rito dell’inaugurazione, occorreva effettuare un contro rito l’exauguratio necessario a restituire quel luogo allo stato profano.
Un’altra testimonianza rilevante è riportata da Servio, in tre passi diversi del suo “Commento all'Eneide”. Nel primo dei tre, l’autore menziona la disciplina romana, a cui accenna anche Virgilio, con la quale i Romani evocavano abitualmente le divinità dalle città nemiche, chiedendo alle stesse di infondere “timore, paura ed oblio” alla popolazione rivale. Nel secondo, Servio spiega che questo carmen aveva il principale scopo di privare le polis avversarie della loro protezione divina, in modo da rendere possibile la loro conquista attraverso le armi dei soldati, eliminando così il pericolo di commettere qualche tipo di sacrilegio.
Lo scopo principale alla base della celebrazione del rito era di ottenere il sostegno della divinità alla causa di Roma e, insieme con esso, il permesso di conquistare la città protetta, scansando il pericolo di commettere un sacrilegio col mantenere l’ostilità del dio del luogo, senza il cui appoggio – o la cui neutralità – la conquista sarebbe stata praticamente impossibile. Inoltre si sarebbe corso il rischio di turbare la tanto preziosa pax deorum, che i Romani si peritavano con cura e scrupolosità di conservare, anche in tempo di guerra. Con l’abbandono della sua protezione divina, insieme ai sacra ad essa connessi, la città era di fatto «desacralizzata».
Vi erano anche altre ragioni alla base della pratica del rito dell’evocatio. Il salvataggio delle sacre immagini equivaleva al salvataggio della città stessa, come era accaduto per Roma, Secondo Virgilio era una «nuova Troia» (ri)sorta dai Penati salvati da Enea. Eccetto il culto dei Penati introdotto da Enea dopo il sacco di Troia, quasi la totalità dei rimanenti culti romani furono assimilati da popolazioni confinanti. L’assorbimento di divinità straniere, era avvenuto parallelamente all'espansione territoriale dell'Urbe.
I Libri Sibillini erano raccolte di oracoli e profezie di origini greche ed etrusche custodite all'interno del tempio di Jupiter Optimus Maximus da parte del collegio dei viri sacris faciundis. Queste raccolte potevano essere consultate solamente su commissione del Senato per risolvere esclusivamente emergenze che riguardavano Roma ed i suoi territori, annunciate solitamente da prodigi di varia natura. Il primo caso documentato di acquisizione di nuove divinità attraverso la consultazione dei Libri Sibillini risale al 496 a.C., anno della battaglia presso il lago Regillo. Poco prima dello scontro tra i due schieramenti, il dittatore romano in carica, Aulio Postumio, a causa di una carestia che, oltre ad affamare i cittadini romani, stava compromettendo il vettovagliamento del suo esercito, ordinò una consultazione dei Libri in modo che si trovassero al più presto rimedi atti a scongiurare la crisi. Lo Stato romano doveva propiziarsi le divinità Cerere, Liber e Libera, votando e istituendo in loro onore un tempio e la celebrazione di sacrifici annuali. Cerere è la Magna Mater Demetra Kabira.
I Dioscuri sono Divinità Kabiriche appartenenti ai Pelasgi e ai Dardanidi. Il lago Regillo era di origine vulcanica lì probabilmente vi era un santuario etrusco ctonio dedicato ai Kabiri. Attraverso Enea e Ascanio Iulio i Romani diventavano anch’essi un ramo dei Dardanidi. Pertanto attraverso l’evocatio invitarono le due divinità che soggiornavano sul lago a trasferirsi a Roma la storia narra che nel 499 a.C. o nel 496, il dittatore Aulo Postumio Albino compie il rito dell’evocatio[1] prima della battaglia che diventerà ricorrente nelle occasioni di conquista. Prega le divinità del nemico, Castore e Polluce, i Dioscuri, se avessero aiutato i Romani, contro lo schieramento dei Latini comandato da Tarquinio il Superbo, avrebbero eretto un luogo di culto per quelle divinità. I Romani vincono, quindi nel 484 viene eretto il tempio dedicato ai Dioscuri . Appena tre anni dopo, nel 493 a.C., Roma raggiunse un accordo di pace con la Lega Latina, il Foedus Cassianum, che prese il nome dal console Spurio Cassio, firmatario dell’accordo.
La storia narra che a Roma il culto dei Dioscuri fu riconosciuto ufficialmente con la motivazione di un intervento decisivo dei Dioscuri su due cavalli bianchi, nella battaglia del lago Regillo.
Figura 1. Moneta con i Dioscuri battaglia del lago Regillo
La Devotio era un particolare rituale religioso romano col quale l’officiante, il devotus, era al tempo stesso anche l’offerta agli dei: si trattava di un contratto nel quale l’uomo, chiedendo un favore specifico, dava in cambio la propria vita come offerta agli dei. Tuttavia l’offerta non veniva riconosciuta agli dei a grazia ottenuta, ma in anticipo, obbligandoli a non poter rifiutare quanto richiesto. Questo rito era compiuto soltanto in circostanze eccezionali, di gravissimo pericolo per la Res Publica e trovava quindi in genere applicazione in battaglia, nei casi in cui l’esercito romano si trovava a rischiare una rovinosa sconfitta. Il rito prevedeva che il comandante (il console, il dittatore o il pretore) si consacrasse agli dei, invocandoli secondo un preciso ordine, con una preghiera in cui chiedeva la vittoria per Roma ed i suoi alleati in cambio del suo sacrificio, e di quello degli eserciti nemici, agli Dei Mani e a Tellus (la Terra).
Tito Livio (Ab Urbe condita libri, VIII, 9) ci tramanda esattamente lo svolgimento del rito. Seguendo le istruzioni del Pontefice Massimo, colui che lo compiva indossava la toga praetexta (tipica dei magistrati), quindi coprendosi il capo con un lembo della toga e levando la mano sinistra al di sotto di essa fino a toccarsi il mento, stando in piedi con un giavellotto posto sotto i piedi, recitava questa formula, un carmen dal grande potere evocativo. Quindi, armato, si lanciava a cavallo contro l’esercito nemico, alla ricerca della morte che avrebbe perfezionato il patto con le divinità. Se il comandante moriva, era il segno favorevole che gli Dèi avevano accettato il voto; l’esercito romano, assistendo alla morte del suo condottiero, trovava quindi un rinnovato vigore e rovesciava le sorti della battaglia in suo favore, come risultato del patto stipulato con la devotio.
[1] Solo V. BASANOFF Evocatio 1947, 150 sgg riconosce che in questa battaglia avvenne il rito dell’evocatio dei Dioscuri.
FULGURALES E FULGURATOR
I libri Fulgurales furono tradotti in latino nel I sec. a.C. da Tarquinio Prisco (Tarquitani Libri) Era convinzione comune del sacerdozio romano, sulle orme di quello etrusco, e kabirico, che il mago o il teurgo al servizio dello Stato fosse in grado di poter agire, attraverso particolari formule rituali dette carmina. Sulle folgori e poter costringere quelle particolarmente minacciose ad allontanarsi o a scagliarsi sull’obiettivo prescelto (exorare), o di provocarle attraverso un rito evocatorio (elicere).
I primi abitanti sulla terra, non portarono mai il fuoco sugli altari, ma portarono giù il fuoco celeste (folgore) con le loro preghiere[1].
Giove (Tinia etrusco) aveva a disposizione tre fulmini. Il primo era il fulmine “ammonitore” che il dio lanciava di sua spontanea volontà e veniva interpretato come avvertimento; il secondo era il fulmine che “atterrisce” ed era considerato manifestazione d’ira; il terzo era il fulmine “devastatore”, motivo di annientamento e di trasformazione: Seneca scrive che esso “devasta tutto ciò su cui cade e trasforma ogni stato di cose che trova, sia pubbliche che private”. I fulmini erano variamente classificati a seconda che il loro avviso valesse per tutta la vita o solamente per un periodo determinato oppure per un tempo diverso da quello della caduta. C’era poi il fulmine che scoppiava a ciel sereno, senza che alcuno pensasse o facesse nulla, e questo, sempre stando a quel che dice Seneca, “o minaccia o promette o avverte”; quindi quello che “fora”, sottile e senza danni; quello che “schianta”; quello che “brucia”, ecc. Ma Seneca parla anche di fulmini che andavano in aiuto di chi li osservava, che recavano invece danno, che esortavano a compiere un sacrificio, ecc. Con un tale groviglio di possibilità, solo i sacerdoti esperti potevano sbrogliarsi. Plinio il Vecchio arriva ad affermare che un sacerdote esperto poteva anche riuscire a scongiurare la caduta di un fulmine o, al contrario, riuscire con speciali preghiere, ad ottenerla.
Silvio Italico, IV, 431-432, afferma che dai tre pianeti, Saturno, Giove, Marte, scaturiscono le folgori che schiantano, creano e bruciano che appaiono di colore nero, bianco, e rosso, riferite a Saturno, Giove, Marte.
Un giorno un contadino che arava un campo nei pressi del fiume Marta, in quei di Tarquinia, vide una zolla sollevarsi dal solco e assumere le sembianze di un fanciullo, lo chiamò Tagete (Tages). Il fanciullo era dotato di grande saggezza e di virtù profetiche (per cui talvolta viene raffigurato con i capelli bianchi). Visse soltanto il tempo necessario per insegnare agli Etruschi, accorsi sul luogo dove era nato, l'arte di predire il futuro, scomparendo poche ore dopo la sua miracolosa apparizione. Le norme da lui dettate furono trascritte e raggruppate su tre serie di libri sacri: gli Haruspicini, i Fulgurales e i Rituales.
Figura 1. Tages
I Fulgurales regolavano la vita sociale, politica e religiosa degli Etruschi. I libri furono tradotti in latino nel I sec. a.C. da Tarquinio Prisco (Tarquitani Libri) e ripresi da Cicerone (De Divinatione) dove egli attacca ogni aspetto riguardante gli oracoli, l’astrologia e l’aruspicina, contestandone la serietà, l’attendibilità ma ne giustifica la pratica in quanto necessaria al mantenimento degli equilibri interni dello Stato e alla salvaguardia delle tradizioni. A fondamento della dottrina Fulgurales vi erano tre elementi; il preciso valore di segno divino, inequivocabile e perentorio, attribuito alla folgore; l’interpretazione di tale segno in relazione con gli spazi del Templum il che consentiva la sua immediata qualificazione; la certezza di poter provocare per mezzo di riti la modifica dei suoi effetti o la loro sanatoria.
Tutti gli esperti hanno interpretato Haruspex fulguriator come l’aruspice interprete delle folgori, fulguriator. R. Bloch precisa giustamente che “fulguriator da fulgurire, sinonimo esatto di fulgurator, che può significare “che attira la folgore”. L’aruspice mago etrusco dall’inizio della storia degli Etruschi fino alla caduta dell’Impero Romano, aveva la possibilità di dirigere le folgori[2].
I Fulgurales erano una parte dei Libri Vegoici, dono della ninfa Vecu (Vegoia) al tempio di Apollo, in cui possiamo ravvisare i famosi Libri Sibillini, portati all’imperatore Augusto da una donna misteriosa e in seguito distrutti dai cristiani nel 400 d.C. Raymond Bloch[3] latinista, etruscologo e storico francese ha indicato la paternità etrusca dei Libri Sibillini (Le origini di Roma 1946, pag. 100) ma non si è spinto poco più oltre per accorgersi che all'origine di quei Libri possa anche trovarsi una relazione con la celebrata ninfa Vegoia (Begoia, Vecu), la più importante sibilla etrusca, coautrice assieme al genio Tages della rivelazione della sacra Disciplina. La ninfa (Lasa) era raffigurata come una giovane donna alata che tiene in mano una spiga di grano. A Tages sono attribuiti i Libri Haruspicini, alla Lasa Vegoia sono attribuiti i Libri Fulgurales.
L’autentica pratica cerimoniale dei sapienti fulgurator (addetti alla utilizzazione dei Libri fulgurales), era affidata ai Larthe, i supremi sacerdoti etruschi eletti nell’assemblea annuale dei Lucumoni. Un oggetto particolarmente importante e potente era al centro di questa ritualità trascendente e metafisica. Si trattava di un copricapo speciale a forma conica. Numerose divinità ittite sono state effigiate con un elmo rituale conico ed anche il cappello frigio e mitraico (culto solare di Mitra) sono contraddistinti da questa particolare configurazione.
Il secondo mitico Re di Roma, descritto dalla storia romana come un Sabino, probabilmente era un Etrusco di nome Numa Pompilio, l’origine costruita della sua origine sabina fu suggerita da motivi di carattere politico. Numa, il re filosofo, fu iniziato dai sacerdoti etruschi, ed istruito da loro nel segreto di far scendere sulla terra il fulmine, le vicende ci sono note soprattutto attraverso il lungo racconto tramandatoci da Ovidio, Fasti, I, cap. 31. La Ninfa Egeria confida a Numa che vi era un rito segreto che gli sarebbe stato rivelato non appena fosse riuscito a catturare, sull’Aventino, gli Dei Picus (figlio di Saturno, assimilato a Marte) e Faunus (figlio di Picus), che dimoravano sotto l’Aventino e poi richiedere a Giove un riscatto. Giove intervenne sotto forma di fulmine per sollecitare la liberazione, promettendo in cambio la protezione di Roma, poi garantita dall’ancile, lo scudo appartenuto a Marte. Plutarco conferma tali indicazioni, ma precisa che Numa avrebbe evocato le folgori senza l’aiuto di Pico e Fauno.
Servio, commentando Virgilio, scrisse che Numa fu Iniziato dai sacerdoti delle divinità Etrusche e da loro istruito nel segreto di costringere Giove, Signore del Fulmine, a scendere sulla terra. Tito Livio[4] e Plinio narrano che Tullo Ostilio avendo trovato sui Libri di Numa istruzioni sui sacrifici offerti a Giove Elicio, commise un errore e di conseguenza fu colpito da un fulmine e ucciso nel suo stesso palazzo[5].
Era opinione comune, comunque, che tale rito fosse estremamente pericoloso… Gli autori antichi, in particolare sono concordi, nel ritenere che a causa di un errore commesso nell’evocare il fulmine… Tullo Ostilio sarebbe morto folgorato... il rito evocatorio praticato da Numa non differiva secondo Plinio, da quello effettuato da Porsenna per distruggere col fulmine il mostro Olta (o Volta) [6].
Marco Baistrocchi[7] descrive le misteriose raffigurazioni sulle colonne Traiana e Aureliana. Sulla prima è raffigurato Giove, il Signore della Folgore, che lancia il fuoco celeste sui Daci; sulla seconda è raffigurato l’imperatore filosofo (Iniziato) che in Germania, assiste seduto mentre un fulmine[8] colpisce una macchina da guerra nemica, e una pioggia torrenziale travolge l’esercito avversario.
Il nome di Mamurio Veturio divenne il soprannome di Marco Aurelio Mario e il motivo era legato alla folgore celeste e alla pioggia torrenziale. Infatti, l’imperatore Marco Aurelio il filosofo (Iniziato) è raffigurato sulla colonna Aureliana che assiste seduto su una specie di trono mentre un fulmine colpisce una macchina da guerra nemica, e una pioggia torrenziale travolge in Germania l’esercito avversario. Giove, barbuto e con l’aspetto di un fiume, travolge con forti piogge i Quadi, che avevano accerchiato i soldati della Legio XII, salvando i romani e disperdendo i barbari.
Figura 2. Dettaglio pioggia - Colonna Aureliana
Dione Cassio (1, 8-10) narra che il torrente d’acqua era stato provocato da Arnufi[10], un sacerdote egizio, al seguito dell’imperatore, che avrebbe invocato il Dio Hermes Thoth, il Dio della Sapienza Misterica. Il sacerdote egizio Arnufi oltre a provocare la pioggia torrenziale si narra che avrebbe anche “folgorato” i barbari. Cosma di Gerusalemme accenna un episodio in cui il fuoco celeste annienta i barbari che attaccarono Roma, ma anche il “filosofo” che l’aveva evocato.
Nel 408 d.C., maghi Etruschi offrirono il loro aiuto ai Romani che erano minacciati dai Goti di Alarico, ed esiste anche una testimonianza che Papa Innocenzo I, allora vescovo di Roma, permise una pubblica dimostrazione del loro potere di evocare i lampi[11]. Nel nono secolo, il Vescovo Agobardo se la prendeva con i Tempestari, che a loro dire potevano provocare fulmini e tempeste. Questi Vescovi, evidentemente non possedevano più il potere di Elia[12], e degli Apostoli Giacomo e Giovanni, ai quali Gesù diede il nome di Boanèrghes, cioè figli del tuono[13], capaci di evocare la folgore: “Signore, vuoi che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?”. Ma Gesù si voltò e li rimproverò[14]. Proprio come i sacerdoti etruschi, anche i sacerdoti Iniziati di Israele conoscevano i poteri dell’elettricità e all’occorrenza, come Elia, sapevano usarli. Giacomo e Giovanni i due discepoli di Gesù, non erano dei poveri ignoranti, ma dei conoscitori degli antichi segreti. Secondo quanto ci riferisce lo storico ebraico, Giuseppe[15], il tabernacolo del tempio di Gerusalemme era ricoperto da una foresta di punte d’oro che emettevano una strana luminosità, e che erano collegate con dei tubi che ricoprivano l’intero edificio, che evidentemente avevano la funzione di conduttori di messa a terra per scaricare i fulmini. Nel corso dei secoli, nessun fulmine danneggiò il tempio.
La Tradizione riporta che i Libri Vegoici furono copiati in latino e conservati, per ordine di Augusto nel Tempio di Apollo Palatino insieme ai Libri dei Marci e ai Libri Sibillini, e probabilmente bruciati nel 408 d.C. dal Generale Stilicone, in una Roma ormai Cristianizzata.
Gli antichi Tirreni, gli Etruschi, sono stati per secoli il nerbo occulto di Roma, i custodi di una scienza fulgurale sopravvissuta nei secoli.
[1] Servio, Commentari sull’Eneide di Virgilio.
[2] Marco Baistrocchi Arcana Urbis, cap. quinto.
[3] Negli anni Cinquanta, Raymond Bloch aderì all'ipotesi che gli Etruschi avessero un'origine orientale in seguito allo studio di diversi campi della vita etrusca come l'arte, la cultura, la religione o il pensiero.
[4] Tito Livio, Libro I, cap.31.
[5] Salverte nota Plinio, nell’esporre i segreti scientifici di Numa, “usa espressioni che sembrano indicare due processi distinti” l’uno otteneva il tuono (impenetrare), l’altro lo costringeva al fulmine (cogere). Plinio, Storia Naturale, II, cap.53. “Guidato dal libro di Numa,” dice Lucio, citato da Plinio, “Tullo cominciò a invocare l’aiuto di Giove ... Ma, avendo compiuto imperfettamente il rito, perì colpito dal fulmine.” Lucio, Piso, Plinio, Storia Naturale, XXVIII, cap.2. Citato da H.P.B., Iside Svelata, I, 527.
[6] M. Baistrocchi, op.cit. p.282.
[7] M. Baistrocchi, op. cit., p. 283.
[8]Dapprima una saetta ammonitrice, poi una scarica di fuoco celeste, poi gli effetti più disastrosi. Si racconta che l’antica Bolsena sia stata distrutta in questo modo.
[9] Del mago “Arnufi”, un ierogrammatico, il cui vero nome era “Harnouphis”, risulta un’iscrizione di Aquileia in cui si qualifica come “sacro scriba d’Egitto”.
[10] J. Campbell, Mitologia Occidentale, p. 359, Oscar Mondadori.
[11] 2 Re, 10-12.
[12] Marco. III, 16.
[13] Luca, IX, 54.
[14] Giuseppe, Bell.Jud.adv.Roman, lib.V, cap. 14.
VENERATIO ET OBLIVIO
Venere, Venus, la madre divina di Enea è la dea dell’amore. Il nome Venus significa amore e anche desiderio sessuale, in latino ha connessione con il verbo "venerari", cioè venerare. In Virgilio venerari è sempre riservato agli dèi e quindi non possiede una dimensione profana. Veneror significa adorazione. Robert Schilling[1], aveva documentato in un suo studio l’origine della parola venus, e i nomi a lei associati, venia, venerari, venenum. Venia nel suo originale contesto rituale è favore, grazia divina, favore magico, concessa a seguito della venerazione, solo in tempi successivi divenne sinonimo di perdono e pentimento. I Romani nella ricerca di mantenere o imporre ad ogni costo la pax deorum, prima di lanciare un attacco, dovevano preventivamente contare sul favore degli Dèi, ricorrendo al sacrificio, ai carmina persuasivi, al venerare, all’incantesimo magico camuffato come devozione. L’Eneide di Virgilio narra l’impegno dei Venere a favore di Enea e della sua gente. Venere piega e seduce tanto gli animali, quanto gli uomini e a volte gli Dèi.
G. Dumézil spiega in “Religione romana arcaica” che nel culto stesso, non interviene soltanto la fides contrattuale. Un interessante studio recente ha opportunamente ricordato il rapporto fra Venus e venerari; notiamo che colui che veneratur un dio gli porge qualcosa di diverso da una proposta o da un saldo in buona e debita forza. Nozione reciproca, la venia degli dèi che così viene sollecitata, e anche la loro pax, apportano benefici maggiori di tutto ciò che può essere precisato contrattualmente.
Marco Baistrocchi in Arcana Urbis, spiega che Veneror mantenne sino alla fine delle Repubblica il suo carattere rituale, alludendo all’esercizio della venus alla realizzazione di un incantesimo religioso. Veneror … ut implica una richiesta di grazia: il verbo traduceva quindi l’aspirazione a servirsi dell’incantesimo, del sortilegio magico religioso. Afrodite nell’Iliade si avvale si svariate astuzie, intrappola nelle sue reti la vittima ignara ridotta all’impotenza. Tale azione legante o intrappolante è circolare in forma di anelli. Agamennone, e Troia sono stati immobilizzati con la medesima rete avvolgente circolare.
Osserviamo che quando Tito Tazio re dei Sabini conquista la rocca Palatina affascina seduce e incanta con la sua bellezza e i monili Tarpeia, una vestale cioè una rappresentante in terra della divinità. La storia che una Vestale si faccia sedurre non regge cosa si nasconde dietro il mito? La Rupe Tarpea era detta mons Tarpeum e anche Saxa Tarpeius dove la dea Tarpeia aveva il suo santuario. Tarpeia è colei che estirpa, taglia, il filo della vita, ella è una Dea Madre, la natura divinizzata, una dea mortifera che difendeva la terra dei nativi dai nemici in battaglia, ma che puniva coloro che si erano macchiati con delitti e tradimenti[2]. In realtà Tito Tazio applica l’antico rituale pre-romano della Veneratio nei confronti della Dea Tarpeia protettrice della Rupe il mons Tarpeum.
In risposta a questa sconfitta, Romolo in qualità di generale del suo esercito, levò le armi al cielo contro i Sabini e pronuncia un carmen un’Evocatio a suo favore: “Giove, fidando nei tuoi auspici gettai qui sul Palatino le prime fondamenta di Roma. Libera i romani dal terrore e ferma la loro fuga vergognosa. In questo luogo prometto che ti erigerò un tempio, o Giove Stator, per ricordare alla posterità che il tuo soccorso tutelare ha salvato Roma”. E dal dio egli ottenne un intervento mistico o magico immediato, che, contro ogni aspettativa, capovolse il morale dei due eserciti e rovesciò le sorti del combattimento.
I riti d’amore di Venere e Afrodite appaiono come strumenti magici non facilmente identificabili: iynx, rhombus, vertigo, turbo. Aggiungo io proprio come quelli utilizzati nei riti kabirici della Samotracia e dell’Etruria.
L’Inno Orfico al Sole recita: “Titano di luce d’oro … sibilante, fiammeggiante, splendente, auriga, che dirigi il cammino con i giri del rombo infinito … che trascini la corsa armoniosa del cosmo …”. “Ascolta la voce di Axieros, il Primo Kabiro: “La Mente del Padre turbina in un rombo riecheggiante, piena di Volontà invincibile … l’Universo rifulge adorno di idee variate, di cui il Fondamento è Uno e Solo. Da ciò: gli altri scaturiscono distribuiti e separati nei vari corpi dell’Universo e vengono trasportati in sciami attraverso gli immensi Abissi, sempre turbinando nell’Illimitata Radiazione”.[3]
Il rombo è descritto come una linguetta di legno d’osso (osso di Horus, osso di Pelope), o di metallo, a forma di pesce con un foro nel quale passa una lunga funicella che viene tenuta tra il pollice e l’indice, ed era roteato nei Misteri[4], perché producesse una specie di ronzio come quello delle api. Con il rombo e il timpano i Frigi propiziavano la Grande Madre Cibele.
Un altro rombo sacro a Venere si chiamava rimbyon, a forma di rotella metallica a quattro raggi e due fori in cui era fatta passare la funicella. Nel caso di Giasone quando volle incantare Medea alla rotella a quattro raggi fu legato un uccello torcicollo o torquilla, sacro a Venere. Sia lo strumento che l’uccello erano chiamati iynx in greco. L’ iynx veniva fatto roteare, non a vortice come i rombi, ma tendendo il filo ai due estremi della corda. Secondo la lunghezza della corda, la velocità di rotazione, la grandezza della tavoletta si potevano ottenere infiniti suoni, che erano connessi con Dioniso, il rombo con la trottola, erano suoi giocattoli. Iynx è dunque la ruota magica di Venere dotata di quattro raggi con o senza il famoso uccello torcicollo. Le caratteristiche occulte risiedono nell’importanza del movimento circolare e vorticoso, nonché da suono stridulo o ronzante che provocherebbe con la sua rotazione fascinazione e ipnosi. Iynx genera un rumore simile, all’acuto suono della zampogna, e al muggito degli armenti. Il muggito del toro, il sibilo del vento, il rombo del tuono, ecc. Si può dedurre dagli antichi simboli sonori che il suono da cui scaturì la vita fu rappresentato come un rumore stridulo sibilante di rombo.
La rotazione dei rombi provoca una certa forma di ipnosi, anticamente considerata magia. Húpnos, il sonno, getta come il suo fratello Thánatos, la morte, le sue reti magiche accerchianti nel bloccare i mortali con il suo potere paralizzante, spegnendo in essi ogni vigilanza, permettendo così di sorprenderli privi di difese.
Con la Veneratio s’intendeva perpetrare un incantesimo vittorioso non recitare una preghiera come poi fu intesi in tempi successivi. Veneratio è la seduzione divina femminile, magica, trasformata poi in ipnotica seduzione umana che conduce all’oblio. Pindaro paragona l’oblio a una nuvola oscura che priva lo spirito di orientarsi, come avviene al pilota della nave che non vedendo gli astri erra perduto.
Evocatio, Veneratio e Oblivio, erano eseguite in sequenza. M. Baistrocchi ci informa che con l’Evocatio e il carmen persuasivo (formula rituale incantatoria), il generale romano ingiungeva alle divinità della città assediata di abbandonarla, e nel contempo affascinandole e incantandole facendole credere di essere state abbandonate dai loro protettori invitandole di diffondere l’oblio e il timore nel nemico: “metum formidinem oblivionem iniciatis” (Macrobio, Sat. III, 9, 7-8).
Oltre alla recitazione e al canto misterico dei carmina dell’Evocatio, sicuramente la Veneratio avveniva fatta anche con l’utilizzo dei rombi di Venere in grado di addormentare psicologicamente il nemico.
[1] R. Schilling, La religion romaine de Venus depuis les origines jusqu'au temps d'Auguste. Parigi, E. de Boccard, 1954.
[2] https://www.romanoimpero.com/2018/10/rupe-tarpea.html. Sito obbligato per chi vuole conoscere i misteri della Roma antica.
[3]Oracolo Caldeo (Babilonia).
[4] Era utilizzato oltre che nei Misteri dell’antica Grecia, anche fra gli Etruschi e tramite Numa ai Romani custodito dal collegio dei sacerdoti Salii.