I Templari e la Leggenda di Artù in Italia - Sapienza Misterica

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I Templari e la Leggenda di Artù in Italia

Templari in Italia

Le testimonianze della spada di Artù e dei suoi Cavalieri si trovano anzichè in Inghilterra, in Italia e precisamente a Modena, Bari, Otranto, Etna, e Montesiepi (Chiusdino), e precedono quelle degli scritti in Francia e in Inghilterra. La versione in cui Artù estraeva la spada dalla roccia apparve per la prima volta nel racconto in versi francese Merlin, di Robert de Boron, in seguito ripreso e continuato da Sir Thomas Malory, Artù ottiene il trono estraendo una spada da una roccia. Nel racconto estrarre la spada è possibile solo a colui che è il vero re, inteso come l’erede di Uther Pendragon. L’Inghilterra e l’Italia sono unite nella stessa leggenda. La storia e la leggenda di re Artù sono intimamente legate alla magica e misteriosa spada.
ALL'ORIGINE DEL MITO

Coloro che affermano la storicità del re Artù gli attribuiscono convenzionalmente una data di nascita e di morte (475-542 d.C.), ma il suo mito come si vedrà, è decisamente più antico. Le testimonianze del mito le troviamo in Italia anziché in Inghilterra.

Figura 1. Croce Celtica
Un principe britanno chiamato “Arturius, figlio di Aedàn mac Gabrain Re di Dalriada” è citato dall’agiografo Adomnan da Iona nella “Vita di San Colombano” (VIII secolo). Come mai si cita il principe Arturius nella vita di San Colombano? San Colombano era un monaco nato tra il 525 e il 530 d.C. in Irlanda, giunto in Italia fondò a Bobbio (Piacenza) la celebre abbazia, che divenne un centro spirituale e culturale importantissimo, morì a Bobbio il 23 dicembre del 615.

Si narra che nel 980 la biblioteca di Bobbio annoverasse  700 codici e abbia conservato 25 dei 150 manoscritti più antichi della letteratura latina esistenti al mondo. Nel 982 divenne abate dell’abbazia Gerard di Aurillac, noto come papa Silvestro II, che qui compose il suo famoso trattato sulla geometria con l’aiuto dei numerosi antichi manoscritti che erano conservati nello scriptorium. Nella cripta un mosaico mostra storie dal II Libro dei Maccabei, che alludevano ad altri avvenimenti allora ben più attuali, quali la prima crociata e la conquista di Antiochia, segue un bestiario medievale fantastico popolato di mostri ed esseri nati dalle leggende popolari. Il mosaico testimonia l’altezza originale del pavimento della prima chiesa che deve risalire al periodo dell’abate Agilulfo (883-896).

Una parte del mosaico di san Colombano mostra la scena di due cavalieri armati indossanti armature a quadretti bianchi e neri (dualismo) su cavalli appaiati, con uno scudo bicolore e quadripartito con un fiore centrale e sette petali con corolla centrale, che ricorda i Templari.

Figura 2. San Colombano - cripta mosaico due cavalieri
L’Ordine del Tempio, in un modo o nell’altro è legato strettamente a tre specie di attività umane: la cultura, il commercio e l’architettura religiosa. Benedetto da Norcia inizia un lavoro di basilare importanza per tutta la civiltà cristiana: intraprende, in un paese travagliato da barbari e cristiani, la raccolta sistematica dei manoscritti classici che la giovane chiesa cristiana tendeva a distruggere come eretici; crea in tal modo la tradizione culturale dei Benedettini. Sono sempre i Benedettini a raccogliere i principi della costruzione in pietra. Sulla base dei dati tradizionali, essi rielaborarono, infine, il canto gregoriano.

Se si analizza parallelamente un po’ di storia, si scopre che forse le origini dell'Ordine del Tempio non sono esattamente nel 1118, ma almeno 600 anni prima. Nel 480 a Subiaco nasce Benedetto da Norcia, San Benedetto. Egli fondò il suo Ordine su un regola che voleva l'uomo lavoratore per 8 ore al giorno, per 4 studioso e per altre 4 orante. Da Benedetto a Colombano a Bernardo ai Templari, una mano invisibile sembra aver guidato per secoli l'operato dei monaci con uno scopo importante che si riflette in questo impegno millenario. L’abbazia che nacque dall’unione degli ordini di S. Benedetto e San Colombano si chiamò Cluny.

Quando fu fondato l’ordine dei benedettini, l’abito originario era una lunga veste bianca con un cappuccio, simile a quella usata dagli Esseni, per tale motivo furono chiamati monaci bianchi. I Cistercensi utilizzarono un abito bianco con scapolare nero. I Templari si distinsero per l’aggiunta sul mantello bianco della croce rossa.

Figura 3. Sculture simboliche che richiamano motivi tipicamente templari a San Colombano
Il museo dell’abbazia di San Colombano conserva magnifiche pietre longobarde e carolinge, riccamente lavorate con motivi floreali e geometrici, artistici capitelli, colonnine di marmo e arenaria tipiche dei maestri comacini, che facevano parte dell'arredo liturgico dell’antica basilica. Troviamo in queste rappresentazioni, la croce a bracci uguali a otto punte, i nodi templari, intrecci celtici, e due colonne unite da un arco con una pianta sacra all’interno, tutti motivi ripresi dai Templari, indubbiamente l’Ordine del tempio si rifaceva a tradizioni molto più antiche.

Nella “Historia brittonum” (VIII-IX secolo) compare il riferimento a un dux bellorum  Artorius, vincitore sui sassoni nella battaglia del Monte Badon (circa 500). L’Historia Brittonum è uno dei più antichi testi sulla storia dell’Inghilterra, compilata dal monaco gallese Nennio, probabilmente rielaborando materiale precedente, tratta delle vicende dell’Inghilterra dopo la partenza delle legioni romane e nel periodo delle successive invasioni sassoni. Nell’Historia compare anche un ragazzo con doti profetiche di nome Ambrosius che Goffredo di Monmouth, nell’Historia Regum Britanniae, ribattezzerà “Merlinus Ambrosius”. Il condottiero è descritto come vincitore di 12 battaglie che, nel corso del suo regno, avrebbe ricevuto anche 12 ambasciatori provenienti da Roma.

Gli “Annales Cambriae” (X secolo) descrivono la morte di Artorius e quella del traditore Medraut (“Mordred”) nella battaglia di Camlann nell’anno 537 d.C.; ma altri storici dell’epoca, tra cui Gildas e il Venerabile Beda, non fanno alcun cenno a un condottiero chiamato Artorius o Arthur. Secondo altri, Artù sarebbe stato in origine, un personaggio mitologico, pre-romano e pre-cristiano, forse simile ai re dell’epica irlandese. Sarebbe stato poi sostituito, da Nennio, ad Ambrosio Aureliano, come vincitore della battaglia di Mons Badonicus, e quindi calato in un contesto storico che gli era probabilmente estraneo.

Fu l’inglese Geoffrey di Monmouth tra il 1130 e il 1150, nell’Historia Regum Britanniae, nelle Prophetiae Merlini e in seguito nella Vita Merlini, a dare il via al processo di cristianizzare il mito di Artù che lo avrebbe trasformato prima in monarca, e poi simbolo messianico di Re-Sacerdote, con i suoi 12 cavalieri in un perfetto modello per le istituzioni cavalleresche medioevali. Geoffrey di Monmouth fu educato in un monastero benedettino e forse divenne anche lui un monaco. Fu dapprima arcidiacono e poi vescovo.
L’opera Prophetiae Merlini di Geoffrey di Monmouth si presentava come una raccolta di profezie, paragonabile per certi versi alle successive Profezie di Nostradamus. Le profezie sono scritte in un linguaggio molto simbolico, spesso oscuro, e vertono soprattutto sul futuro politico della Britannia; furono, infatti, poi incluse nel più ampio Historia Regum Britanniae.

Artù in questi scritti è il figlio del re Uther Pendragon e Ygraine (Igerna), affidato a Merlino, che per Uther aveva costruito un castello nel quale mise la famosa Tavola Rotonda. Senza menzionarne le origini, Merlino lo affidò a sir Ettore che lo allevò assieme al proprio figlio sir Kay. La denominazione Merlinus fu utilizzata per la prima volta da Geoffrey di Monmouth, ma il personaggio era già noto nelle tradizioni celtiche come Myrddyn. Secondo Geoffrey, i poteri magici di Merlino hanno un’origine diabolica. Geoffrey scrive che Merlino è anche il responsabile della presenza del complesso megalitico di Stonehenge nella piana di Salisbury, dove l’avrebbe trasportato per mezzo delle sue arti magiche.
Morgana è personaggio direttamente derivato dalle divinità Morrighan, Macha e Modron (la grande Madre celtica) e compare per la prima volta nella “Vita Merlini” di Geoffrey; fa parte di un gruppo di nove fate (a loro volta di tradizione celtica) che vivono ad Avalon e aiuta Artù a guarire dalle sue mortali ferite. Nelle narrazioni successive Morgana è la nipote o la sorellastra di Re Artù, con cui concepisce Mordred, e assume connotati sempre più negativi, fino a diventare l’implacabile nemica del sovrano, di Merlino e dei Cavalieri della Tavola Rotonda.

Il nome del padre di Artù, Pen-dragon, significa letteralmente “testa di drago”[1], e il drago è associato ai simboli rappresentati sui suoi stendardi. Nel racconto di Monmouth, Uther era il fratello minore di Ambrosio Aureliano e suo successore al trono di Logris o Loegria, un altro nome che indica l’Inghilterra nelle leggende arturiane e che deriva dalla parola gallese Lloegr, che, appunto, sta per Inghilterra.

Geoffrey di Monmouth nel XII sec attingendo notizie dalle biblioteche benedettine e cistercensi mescola storia e mitologia confezionando l’Historia Regum Britanniae, nella quale si afferma che Bruto il nipote di Ascanio (o Julo), il figlio di Enea e di Creusa (che a sua volta era la figlia di Priamo, re di Troia) portò con sé una Pietra da Troia, dove era servita da plinto per il palazzo del Palladio, e la eresse come altare nel tempio di Diana che aveva fatto costruire, aggiungendo che in seguito tutti i re inglesi avrebbero pronunciato i propri giuramenti sulla pietra. La pietra si riferisce alla mitica fondazione del Regno di Britannia da parte di Bruto di Troia. Le origini della pietra chiamata “London Stone”, sono dunque millenarie, e secondo la tradizione si potrebbe trattare del più antico tra i reperti che contraddistinguono la storia dell’Inghilterra. Nel Medioevo, la London Stone, è citata come tale in un documento datato tra il 1098 e il 1108, una lista di proprietà londinesi appartenenti alla Cattedrale di Canterbury.

L’Inghilterra e l’Italia sono unite nella stessa leggenda sono legate al Palladio e ai discendenti di Enea. Dioniso d’Alicarnasso non è d’accordo con Omero: Ulisse e Diomede avrebbero rubato una copia del Palladio, mentre il vero Palladio sarebbe stato portato in salvo da Enea in Italia, dove avrebbero trovato collocazione nel tempio di Vesta[2], divenendo una delle sette cose fatali (magiche) di Roma.
Il Palladio che le Vestali custodivano in Roma, come talismano della città indicava una pietra grezza, come la London Stone. In una pietra grezza a forma di cubo era infissa la spada che Artù estratte all’età di quattordici anni, divenendo così il successore di Uther Pendragon.

Pausania, nell’Achadia confessa che all’inizio del suo lavoro considerava i Greci come i più grossi stupidi, perché adoravano le pietre[3], ma arrivato in Arcadia, scrisse: “Io ho cambiato opinione. In un poema sulle “Pietre”, attribuito a Orfeo, queste pietre sono suddivise in Ofiti e Sideriti, cioè “pietre del serpente” e “pietre delle stelle” . Il Palladio, la pietra caduta dal cielo, aveva forme diverse, un cubo, un pilastro, simbolo del potere generatore, e del potere del Fuoco (quello di Prometeo), la Folgore celeste.
Cinquant’anni prima che Geoffrey di Monmouth scrivesse della pietra e di Artù, in Italia, a Chiusdino, un’altra pietra con una spada infilata in essa da un cavaliere di nome Galgano che ricorda sia Galgano il cavaliere di Artù, e sia Gargano dove si trova il santuario di San Michele arcangelo.

Un filo sotterraneo lega queste storie al mito della spada nella roccia e ai Cistercensi e ai Templari. Dai Benedettini nasce nel 909 l’ordine monastico di Cluny e da questo nel 1075 quello dei Cistercensi. L’Ordine del Tempio nasce ufficialmente nel 1129, il primo nucleo è presente a Gerusalemme nel 1118. Geoffrey di Monmouth scrive tra il 1130 e il 1150, dunque dopo la nascita ufficiale dell’Ordine del Tempio.

Nel 1130 Ugo di Payns rientra con i suoi cavalieri in Palestina per stabilirsi nel Tempio di Salomone destinato a divenire la casa madre dell’Ordine. In Francia rimase il Maestro Pagano di Montdidier, che alla fine si stabilì a Parigi. Il successo dell’ordine del Tempio fu immediato, parve quasi incredibile. Dietro il successo c’era il lavoro e la propaganda di San Bernardo che aveva magnificato l’Ordine. A questa opera si aggiunse tanto quella delle canzoni cavalleresche, quanto i romanzi della Tavola Rotonda. È ben noto che questi romanzi provengono dai monasteri benedettini, dove erano stati composti a uso dei trovatori che andavano di castello in castello per offrire ai nobili di provincia e di corte ideali che fossero diveri dal saccheggio[4].

In “Roman de Merlin”, il nome assegnato alla madre di Artù, è Ygraine o Yg(u)erne, che significa oca selvatica, cigno. In India Brahma fu chiamato Kalahansa, il Cigno dell’Eternità rappresentato mentre cova “l’Uovo Cosmico” sulle Acque primordiali. Secondo Porfirio l’Uovo è una rappresentazione del mondo, simbolo dell’universo. Il mito indù del cigno Hamsa ”l’oca selvatica”, sembra dare significato fin nei particolari alla leggenda medievale dell’Oca-cigno che dà alla luce Arthur. Nella mitologia greca, Leda, fecondata dal cigno (Giove), partorisce un uovo dal quale nascono i due Dioscuri, uno immortale e l’altro mortale. In questo senso potrebbe spiegarsi l’inserimento nella storia di Pererdur dell’uccisione dell’oca. Tema simile si ritrova nel Parzifal di Wolfran von Eschnbach e nel Perceval di Chrétien de Troyes[5].

Il padre di Artù, Uther Pendragon, muore avvelenato l’undici novembre[6], a mezzogiorno del giorno di San Martino[7]. L’11 novembre è un giorno speciale in molte regioni europee, perché si commemora un santo, un cavaliere, che in seguito fu molto venerato dai Templari. Alla figura di San Martino è legata la leggenda dell’estate di San Martino: quel breve intervallo di tre giornate quasi estive intorno all’11 novembre. La festa del santo coincideva con la fine delle celebrazioni del Capodanno dei Celti il Samuin, che cadevano proprio nei primi dieci giorni di novembre. Nei giorni che precedono l’11 novembre, i bambini costruiscono le proprie lanterne, spesso fatte di carta, o di legno di balsa e carta di riso, o di vetro, e il giorno 11 le portano in processione in molte cittadine. In onore di San Martino in quell’epoca si accendono grandi fuochi detti “glorie di San Martino”. Mezzogiorno, l’ora della morte simbolica di Pendragon, rappresenta il solstizio d’estate nel ciclo giornaliero. Il simbolo correlato a San Martino è l’oca perché, secondo un’altra antica leggenda, Martino per evitare di essere ordinato vescovo, si nascose, ma un storno di oche rivelò con le sue strida il nascondiglio del santo agli inseguitori. Le confraternite di costruttori delle cattedrali gotiche, usavano riconoscersi attraverso il simbolo della zampa dell’oca, e si riconoscevano come Jars, che è il nome dell’oca maschio[8].
Secondo il Roman de Merlin il re Uther si era innamorato della bella Ygraine, moglie del duca Gorlois di Tintagel, e poiché il suo matrimonio la rendeva irraggiungibile chiese al suo consigliere mago e veggente di aiutarlo. Grazie ai poteri di Merlino Uther assunse le sembianze del marito e una notte poté finalmente congiungersi con la bella Ygraine, ingannandola. Da quest’amore così estraneo a ogni canone etico, ma che presenta aspetti simili a quelli di situazioni leggendari diffusi presso molti popoli di religiosità arcaica, nascerà Arthur.

Secondo un altro mito Uther aveva per scudo un arcobaleno e presentava caratteri magici. Si trasformò in nube per generare Artù che fu chiamato il figlio della nube[9]. L’arcobaleno compare tra le nuvole e rappresenta simbolicamente la metà superiore dell’Uovo Cosmico che aprendosi in due, è composto nella parte inferiore da una semicirconferenza, l’Arca e in quella superiore dalla semicirconferenza dell’arcobaleno. La Genesi ci descrive Noè sull’Arca che galleggia sulle Acque che stipula un patto con Dio il cui segno è l’arcobaleno: “Io pongo il mio arco tra le nubi, e servirà di segno del patto fra me e la terra”. Presso i Greci, ad esempio, l’arcobaleno era assi­milato al velo di Iride. Il Signore nel deserto del Sinai dimorava in una nube che proteggeva Mosè. Zeus si innamora di “Io” la figlia di Inaco re di Argo, e in forma di nube, la insegue, e da una nube erano stati avvolti e protetti gli Argonauti, e poi Enea ed Ecate.

La chiave d’interpretazione per comprendere il linguaggio mitico misterico va girata più volte perciò il personaggio mitico rappresenta: un personaggio storico, un Eroe, cioè un Iniziato, che rappresenta il Sole incarnato che ripete le gesta del modello celeste, il Sole spirituale la Luce del logos, in mezzo agli uomini.

I nomi della madre e del padre di Arthur non sono, dunque, semplici riferimenti concettuali, astrazioni nominali, ma designano una funzione cosmica, delineano il significato di un aspetto della saga nella quale il protagonista resta Arthur, il figlio del principio divino che feconda la luce spirituale e dà origine a ogni forma di manifestazione.

L’epiteto di Pendragon etimologicamente è riconducibile al celtico Penn, cioè monte, e Pendragon è il capo o testa del drago. Pen è anche la contrazione di penta, cioè cinque, Pen-Dragon è simbolicamente il quinto drago. Artù è il figlio di Uther Pendragon, il “capo dei cinque”, il re supremo che risiede nel quinto regno, quello di Mide o di mezzo. Di conseguenza anche Artù risiede nel quinto regno o regno di mezzo e a lui sono subordinati i quattro regni che si estendono verso i punti cardinali. Fra i paesi celtici, l’Irlanda un tempo, era divisa in cinque regni di cui uno portava il nome di Mide (rimasto sotto la forma anglicizzata Meath), che è l’antica parola celtica medion, mezzo, identica al latino medius. l’Irlanda, per tale ragione, fu detta l’isola dei quattro Signori. D’altra parte i “quattro Signori” s’identificano con i quattro Maharaja o “grandi re” i quali, secondo le tradizioni dell’India e del Tibet, presiedono ai quattro punti cardinali; essi corrispondono al tempo stesso ai quattro elementi. Il Signore supremo, il quinto, che risiede al centro, sulla montagna sacra, rappresenta allora l’Etere, la quint’essenza, l’elemento primordiale da cui procedono gli altri quattro.

Figura 4. Simbolismo di Artù sovrano nel quinto regno
Dei numeri del Cielo ve ne sono Cinque, di numeri della terra ve ne sono Cinque. Distribuendoli ai Cinque posti, ciascuno ha il suo completamento[10]”. Per i Cinesi, come per i Pitagorici, i numeri dispari sono maschili, mentre i numeri dispari sono femminili, Dieci numeri. Il numero del mutamento, è simbolizzato dai cinesi con una croce a bracci eguali.
Artù che regna nel quinto regno, era figlio di Pen-Dragon che può essere letto come quinto drago. Il simbolo del drago è settuplice e il quinto drago, quello della Sapienza, rappresenta quello che la sapienza misterica d’oriente chiama il quinto principio, manas[11], la mente. L’uomo pensante era raffigurato con una stella a cinque punte, i Pitagorici la consideravano sacra perché, con la sua punta che svetta verso l’alto, indica come ogni opposizione o divisione (le due punte volte al basso) debba, nel tempo, essere condotta a una superiore unità; un simbolo pertanto in grado di esprimere la piena armonia fisica e spirituale.

Il giorno di Natale dello stesso anno in cui Uther morì, dall’arcivescovo Dubricio fu ordinata l’adunanza di tutti i nobili del regno nella città di Machynlleth per eleggere il successore del re. Dopo la messa mattutina, uscendo dalla chiesa i nobili trovarono nel piazzale antistante una grande pietra quadrata che aveva una spada conficcata nel mezzo.
Sulla pietra c’era un’iscrizione in latino che diceva: “Questa spada è il segno che indica chi è degno re agli occhi di Dio. Nessuno sarà mai in grado di estrarla dalla roccia eccetto quello da Dio designato”. Allora l’arcivescovo chiamò a se duecentocinquanta uomini tra i nobili più onesti e devoti, e ordinò a ciascuno di loro di estrarre la spada. Nessuno vi riuscì, e la prova fu rimandata. Nel giorno fissato per i festeggiamenti natalizi, durante il torneo a lord Kai si spezzò la spada, e il nobile chiese ad Arthur di andare a recuperarne un’altra. Non trovando più la tenda d’accampamento, Arthur sfilò la spada dalla pietra situata davanti alla chiesa.
Artù e i suoi 12 cavalieri della Tavola Rotonda dal punto di vista cosmico, non rappresentano solo i dodici segni dello Zodiaco, ma anche i dodici Soli, gli Adiya nati dalla Madre Cosmica Aditi. Cristo, Sole di Giustizia, e i suoi 12 Apostoli sono un altro emblema dei Sole e dei dodici raggi. La parola “apostolos”, significa inviato e i raggi sono anch’essi inviati dal Sole.

Molto si è discusso sull’origine etimologica del nome Artù, esso potrebbe derivare dai termini celtici Art, roccia, o Arth Gwyr, uomo orso[12]. Lo stesso nome, dunque sembrerebbe legare Artù, alla “pietra” e al suo culto.

I greci narrano che Arcade, re dell’Arcadia e figlio dell’amica di Diana, Callisto, trasformata in orsa, fu trasformato nella stella Arcturus, chiamata il “Guardiano dell’Orsa”, intesa come l’Orsa Maggiore, che non era altro che la sua stessa madre Callisto trasformata in costellazione. Arcade governava su di una città nota come “la Tavola” e possedeva un’arma magica denominata “Calabrops”, che richiama la spada “Caliburn” di Artù.

La leggenda di Artù ha radici solide che fa capolino in posti lontani tra loro: la Gran Bretagna, la Francia, e l’Italia e in particolare l’Emilia, la Toscana e poi, andando ancora più a sud, in Puglia e in Sicilia. Il Meridione dell’Italia è ricco di storie e tradizioni di stampo arturiano. In questa leggenda tutta italiana, come per la trama di d’un filmato s’inseriscono attori e registi, tra i quali Cistercensi, i Templari, Federico II e all’inizio, anche Goffredo di Buglione.

Nella chiesa dell’abbazia cistercense con impronta templare di S.M. di Staffarda (Revello, Cuneo), al centro della terza crociera della navata centrale nelle quattro vele, sono raffigurati quattro fiori a sei petali rossi su fondo chiaro, racchiusi in una doppia circonferenza, e all’incrocio degli archi è raffigurato un orso (scambiato per agnello), e dietro di esso una croce. Forse è solo un caso ma il nome di Bernardo, in tedesco, significa ardito come un orso. Un mosaico pavimentale eseguito tra il 1163 e, il 1165, della Cattedrale di Otranto in Puglia  rappresenta Rex Arturus, cioè Re Artù a cavallo di un ariete.

Figura 5. Abbazia di Staffarda orso con croce terza crociera navata centrale
Artù è il Guardiano dell’Orsa, e a livello astronomico l’Orsa è la costellazione che capeggia il Nord; Arcturus (Arturo) è la stella più luminosa del cielo, la stella α di Boote è il guardiano dell’Orsa. Artù è succeduto a Pendragon significa che l’Orsa è succeduta al Dragone. In altre parole, il mito fa riferimento ad epoche antichissime, quando la costellazione del Dragone aveva una posizione (rispetto al Nord) analoga a quella attuale di Boote. Il padre di Artù, Pendragon ha un nome che lo collega alla costellazione del Drago, egli è il Drago Polare. Nel 3000 a.C. la posizione polare era occupata da Alfa Draconis, all’epoca degli antichi greci la costellazione che occupava il posto di polare era Beta Ursus Minoris e nel 14000 d.C. sarà Vega. Artù corrisponde all’attuale stella polare, l’Orsa Maggiore, mentre prima la stessa posizione era occupata dalla costellazione del Dragone. Alla sua morte Artù venne trasportato nella costellazione del Carro, l’Orsa, o nell’isola di Avallon[13].

L’importanza dell’Orso nella tradizione dei Druidi è evidenziata anche con dei collegamenti astrali. I Druidi veneravano la Stella Polare e l’Orsa Maggiore, detta anche l’aratro dell’orso o l’aratro di Artù. Artù stesso era associato a questa costellazione, al Solstizio d’Inverno, quando il tempo della notte è più lungo e ci si rivolge, per chiedere consiglio e ispirazione, alla Stella Polare, che brilla fortemente vicina all’Orsa Maggiore, la Stella di Artù. Allora Artù e l'Orsa divengono il solstizio d'inverno è conosciuto come Alban Arthuan: la Luce di Artù.

Non solo, ma così come la leggenda articola l’elezione regale di Arthur secondo una continuità che dal padre-dragone sfocia nel figlio-orso entrambi guidati dalla Sapienza divina custodita dal veggente primordiale, risponde a un archetipo della funzione regale non limitabile al mito arturiano, ma può essere ricondotta sotto tutti i punti di vista alla cosiddetta “ideologia regale” degli indoeuropei e alle forme rituali che presso le loro diverse civiltà determinavano la centralità del re e la sua assunzione, in principio dei valori sui quali erano divise le diverse classi sociali.

Le leggende arturiane, cariche di significato misterico, hanno un prologo in Italia, attorno alla figura inquietante di un singolare santo-guerriero, San Galgano, figura comunque antecedente al mito arturiano e quindi, appunto, che fa pensare ad un significato più profondo della materia di Bretagna. In Toscana a Chiusdino (vicino a Siena) sul colle Montesiepi si erge un eremo noto come la Rotonda in cui è custodita una spada nella roccia, infissa da Galgano Guidotti. Montesiepi e la valle del Merse sembra uno spaccato di Bretagna rifatto in terra di Toscana. Al solstizio estivo un raggio luminoso penetra all’interno della Rotonda di Montesiepi dove è infissa la spada nella roccia e la illumina. La spada nella roccia può metaforicamente rappresentare il raggio di sole che penetra nella pietra, che per alcuni rappresenta l’unificazione del culto della pietra con quello solare.

I romanzi del ciclo bretone si diffusero enormemente nella penisola italiana, da nord a sud. Il caso di San Galgano non è isolato. La Toscana del XII secolo, ma non solo, era frequentata dai Normanni, fu, infatti, nell’ambito delle loro corti che si diffusero i romanzi che avevano come protagonisti il leggendario sovrano, Merlino e i dodici cavalieri senza macchia né paura.

Un’importante testimonianza del ciclo di Artù in Italia è dovuta a Dante Alighieri, che, in due brani dell’Inferno, fa riferimento a re Artù e a Ginevra. Nel canto XXXII, egli parla di Mordret (Medrawt), il figlio traditore di Artù, colpito a morte da un colpo di lancia del sovrano durante l’ultima battaglia: non quelli cui fu rotto il petto e l’ombra / con esso un colpo per man d’Artù. Volendo significare che la luce del sole passò attraverso il foro della ferita.

  • A Modena nel Duomo ritroviamo scolpite nella pietra sull’archivolto del portale nord, noto come “La Porta della Pescheria vicende del leggendario sovrano.
  • A Bari nella Basilica, dedicata a San Nicola, si trovano tracce sorprendenti del mito di Re Artù. Sull’archivolto di uno del portale nord noto come la “Porta dei Leoni” per i due leoni stilofori o anche “Porta degli Otto Cavalieri” sono rappresentate scene del ciclo arturiano.
  • Al primo piano del Palazzo ducale di Mantova troviamo i frammenti di affreschi e le sinopie del Pisanello, dipinse per Gianfrancesco Gonzaga una saga cavalleresca, un groviglio di cavalieri, animali e armature raffiguranti scene cavalleresche della corte di Artù ispirate ai romanzi della Tavola rotonda.

Figura 6. Palazzo ducale di Mantova Cavalieri di Artù Pisaniello
Strettamente legata al mito arturiano e’ l’isola di Avallon, mitico luogo. Secondo Gervasio di Tilbury e Floriant et Florete l’isola di Avalon è la Sicilia, il luogo in cui fu sepolto re Artù, trasportato nell’isola triangolare, la Trinachia, su una barca guidata dalla sorellastra, Morgana. Secondo la leggenda, Artù riposa nel vulcano Etna, in attesa di tornare nel mondo quando questo ne sentirà nuovamente il bisogno. Il nome Avalon deriva dal cimrico afal cioè pomo. Avalon dunque significa “terra dei pomi“. Il primo documento scritto che ci parla di Avallon dandole il significato di Isola delle Mele si trova nella Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth.  Custode del giardino e dell’albero delle mele d’oro è il drago-serpente Ladone, secondo alcune versioni Eracle uccide il serpente. Il mito dell’uccisione del serpente o del drago da parte di Thot, San Michele Arcangelo è ben noto.

Un altro nome di Avallon è “terra dei beati e degli immortali”. Un mito simile lo ritroviamo anche in oriente, con Alessandro Magno, calcata la via dell’India già percorsa da Eracle e Dionisio, e chiede alla divinità il supremo pegno della vittoria. Egli raggiunge un luogo, dov’è la fontana dell’eterna giovinezza[14], dove “crescono i due alberi del Sole e della Luna”, dizione che ricorda da vicino l’albero d’argento con il sole in sommità di Avallon. Il condottiero macedone, di leggenda in leggenda nel medioevo, ormai diventato anche modello di vita cavalleresco, è giunto ai confini del mondo, in un’India favolosa, dove ci si nutre di opobalsamo e incenso. Ascolta l’oracolo degli alberi carichi di teste umane secondo la tradizione orientale dell’Albero Solo o Secco: “Alessandro, invincibile in guerra, tu potrai, come hai chiesto, essere il solo signore del mondo, ma non rientrerai più vivo in patria”[15]. L’Albero Secco, o più precisamente l’Albero Solo è l’albero di Seth che fece nascere da un germoglio preso dall’albero della Conoscenza del Paradiso Terrestre. Quest’albero appare anche nel Milione non soltanto come una pianta specifica, ma anche e piuttosto come un luogo reale, che Marco Polo ricorda di aver visto, sentito definire come tale, conosciuto e attraversato. In quanto “Solo”, l’albero costituisce un limite invalicabile. È la pianta che si erge ai confini del mondo conosciuto e stabilisce il limite dell'ignoto, quell'aldilà in cui tutto si fonde e si confonde per la mancanza di cognizione e di riferimenti: l’inferno e il paradiso, il tempo e lo spazio, il timore e la speranza, la luce e il buio. Il re Alessandro muore alla mitica età di 33 anni, come quella di Gesù Cristo e del cavaliere Galgano che infisse la sua spada nella roccia.

Un filone di mito e mistero s’inserisce nelle narrazioni della corte normanna di Palermo di Artù che riposa nell’Etna. La leggenda di Artù dimorante ferito nell’Etna (anziché nell’isola di Avalon) è riportata negli Otia Imperialia dell’inglese Gervasio da Tilbury che (XII secolo), il quale l’aveva appresa durante il soggiorno alla corte normanna di Palermo intorno al 1190.

S’inseriscono antichi insegnamenti misterici. Efesto era chiamato Aitnaios, Etneo, Kabiro e dio del fuoco e della metallurgia e fabbro degli dei. Si narra che abbia avuto la sua fucina sotto l’Etna per aver domato il demone del fuoco Adranos e di averlo guidato fuori dalla montagna. Nell’Etna i Ciclopi vi tenevano un’officina di forgiatura nella quale producevano le Folgori celesti usate come armi di Zeus. Efesto forgiava le armi invincibili degli Dei. La spada di Artù Excalibur si narra che era stata forgiata dai mitici Calibi, che secondo la mitologia greca erano anch’essi Kabiri perché figli di Efesto, l’Etneo.

Secondo altre novelle il re iranico Serse, Alessandro, Ogiero di Danimarca (uno dei paladini di Carlo Magno), avrebbero visitato il regno del Prete Gianni. Nel regno favoloso del Prete Gianni si trova la fontana dell’eterna giovinezza[16]. Il tema è molto antico, l’acqua è da sempre elemento cosmogonico per eccellenza, essa crea, guarisce, rigenera, purifica. Il primo europeo a citare Gianni nella sua Chronica sive Historia de duabus civitatibus, è Ottone di Frisinga, cronista e storico medievale dell’Ordine cistercense, vescovo in carica dal 1138 e parente dell’imperatore Federico Barbarossa. Nel 1165 l’imperatore bizantino Manuele I Comneno ricevette una strana lettera, da lui girata al papa Alessandro III e a Federico Barbarossa; il mittente della missiva si qualificava come un nestoriano[17]: «Giovanni, Presbitero, grazie all’Onnipotenza di Dio, Re dei Re e Sovrano dei sovrani». Essenzialmente, il “Prete Gianni”è un titolo, un nome che designa non un dato individuo, bensì una funzione. Secondo un’antica novella italiana, il prete Giovanni (o Gianni) inviò un’ambasciata all’imperatore Federico (verosimilmente Federico II), come “Colui che è veramente lo specchio del mondo”. Sono trasmesse a Federico tre pietre (che conferiscono una specie di mandato) e in pari tempo, gli fu chiesto qual è la cosa migliore al mondo, ma egli come nella sagra del Graal egli non pone la domanda circa i poteri conferitegli. La leggenda italiana sembra alludere a una specie d’inadeguatezza di Federico a questo mandato.

In una lettera del 1240, Federico II ringrazia per l’invio di un’opera del ciclo, il Palamides, un romanzo cavalleresco. All’inizio del XIII secolo, erano numerose le “società” di giovani intitolate alla tavola rotonda, come testimonia Boncompagno da Pisa in “de tabula rotonda societas nominatur”. Il fenomeno era particolarmente diffuso in Toscana: ad esempio una società di tal nome era attiva a Pisa intorno al 1238 e, nella seconda metà del secolo, alla tavola rotonda s'intitolò persine un’associazione di letterati di Volterra. Alla figura di Artù sono stati associati significati simbolici fin dagli inizi della diffusione della “Materia di Bretagna”. Come il biblico Mosè, Artù era simultaneamente Re, Sacerdote e Iniziato, esperta guida politico-militare. Era, dunque, il modello perfetto del reggitore di popoli, la versione terrena del Re del Mondo, e a lui s’ispirò, tra gli altri, Federico II Hohenstaufen, che edificò un palazzo ricco di simboli ermetici, Castel del Monte, su ideale modello di Camelot.


[1] In gallese pen significa testa.
[2] M. Baistrocchi, Arcana Urbis, p.312-313.
[3] Il Dio kabirico Ermes era raffigurato sotto forma di Termine o pietra cubica.
[4] Louis Charpentier I Misteri dei Templari.
[5]  Nuccio D’Anna. http://www.simmetria.org/simmetrianew/contenuti/articoli/123-la-guerra-la-cavalleria-e-la-ricerca-del-graal-/385-fra-draghi-orsi-e-re-di-ndanna.html
[6] Novembre è l’undicesimo mese ed è pieno di simbolismo ctonio.
[7] Versione gallese della “Vita di Artù”, secolo XI.
[8] C'è chi, per estensione, vuole che la palma d’oca sia poi diventata la conchiglia simbolo della trasformazione che guida i pellegrini nel viaggio di purificazione verso l’ovest, verso il mare della conoscenza, cioè verso Santiago di Compostela per poi buttarsi a Finisterre, alla fine della terra o meglio alla fine del mondo, bruciando i propri vestiti, cioè l'uomo vecchio, nell'oceano, rinascendo come vita nuova: lo stesso percorso che ci ricorda il mese di novembre.
[9] Pierre Ponsoye, citato nei quaderni di Avallon da Mario Polia.
[10] Ta Ciuann, IX, 2.
[11] Manas il riflesso della Mente Universale Mahat nell’uomo è anch’esso duplice, in quanto composto da una parte immortale Manas Superiore e da una parte mortale, il Manas inferiore. Quando il numero Cinque viene raddoppiato, diviene Dieci, come le dita dell’uomo, cinque per mano.
[12] In ambito celtico l’orso è l’animale tradizionalmente legato alla casta guerriera e il cinghiale è il simbolo dei sacerdoti druidi. Nell’angolo sud ovest della cattedrale gotica di Chartres è rappresentato un cinghiale che fila.
[13] Le vicende mitiche sono interpretate a più livelli. Le vicende misteriche hanno fino a sette significati.
[14] Nel racconto mediorientale e asiatico del romanzo di Alessandro si parla dell’Acqua della vita, una mitica fonte che è possibile trovare solo dopo aver superato le “Terre oscure”.
[15] Si tratta di brani tratti dalla fittizia “Lettera di Alessandro ad Aristotele”, testo di grande diffusione dalla tarda antichità fino a tutto il medioevo (fra i prediletti dalla scuola filosofica di Chartres).
[16] Le leggende medioevali narrano che Alessandro nel luogo misterico riceve una pietra simile a quella ricevuta da Federico II dal prete Gianni, della quale è detto: “Se impari a conoscere la natura e la potenza, ti staccherai da tutto ciò che è ambizione”.
[17] La Chiesa Nestoriana, detta anche Chiesa Assira, conserva ancora il suo centro gerarchico in Iraq, Iran e Afghanistan, anticamente riuniti sotto il nome di Persia. L’intensa attività di proselitismo dei fedeli nel corso del VI e VII secolo, ha permesso la diffusione della fede in Asia centrale, tra le popolazioni turco-mongole, in Tibet e nella stessa Cina.

LA SPADA EXCALIBUR
 
La storia e la leggenda di re Artù sono intimamente legate alla magica e misteriosa spada. La versione in cui Artù estraeva la spada dalla roccia apparve per la prima volta nel racconto in versi francese Merlin, di Robert de Boron, in seguito ripreso e continuato da Sir Thomas Malory[1], Artù ottiene il trono estraendo una spada da una roccia. Nel racconto estrarre la spada è possibile solo a colui che è il vero re, inteso come l’erede di Uther Pendragon.
 
È rimasta celebre l’immagine di Geoffrey immortalata nel Roman de Merlin, della “spada nella roccia” che aspetta il predestinato capace di estrarla. Come indica la scritta apparsa sulla lama della spada nel giorno di Natale, sarà questa strana forma di ordalia a designare il re che dovrà governare il regno di Logres: “Colui che sarà capace di estrarre questa spada e gli apparterrà sarà il Re prescelto da Gesù Cristo”. Secondo la leggenda, tutti i cavalieri del regno e i vari signori riuniti nella pianura dove sorge il “Cerchio dei Giganti” si susseguono nel tentativo, ma nessuno riesce nell’impresa. Consigliato da Merlino, solo il giovane Arthur può estrarla con facilità dalla roccia che la imprigiona e perciò diventa il legittimo re.
 
Sir Thomas Malory, ne “La morte di Artù”, scrisse che la spada che Artù aveva estratto dalla roccia non era Excalibur, poiché Artù aveva rotto la sua prima spada in uno scontro con re Pellinor; lo stesso viene affermato nella francese Suite du Merlin (Prosa di Merlino, circa 1240). Poco dopo, Artù ricevette una nuova spada dalla Dama del Lago, e questa era chiamata esplicitamente Excalibur: una spada diversa, secondo Malory, dalla prima.
 
Nei romanzi francesi posteriori (Wace nel Brut) si legge che la spada Excalibur uscì dalle acque in seguito a un’invocazione di Merlino. Excalibur, una spada magica, è donata a re Artù dalla Dama del Lago dopo che Artù è già re (Artù ottiene la spada prendendola dalla mano della Dama che esce da lago e gli porge l’Excalibur). Le origini del personaggio della Dama del Lago, vanno quasi certamente fatte risalire alla mitologia greca e romana. Teti è moglie di Peleo, e la Dama del Lago, secondo alcune fonti, aveva un amante di nome Pelleas. Il rapporto fra la Dama del Lago, Lancillotto e Artù, presenta qualche analogia con la storia della nereide Teti della mitologia greca, uno spirito dell’acqua che alleva un grande eroe, Achille. Come Teti alleva Achille, così la Dama del Lago alleva Lancillotto. Come Teti è l’artefice dell’invulnerabilità di Achille, gli dona un’armatura e uno scudo forgiati dal Cabiro Efesto, così come la Dama del Lago dona a Lancillotto un anello protettivo[2] e in seguito dona la spada Excalibur che impedisce il sanguinamento ad Artù.
 
La spada Excalibur è riportata anche da Chrétien de Troyes nella seconda parte del Perceval: Galvano, usa Excalibur per difendersi. La citazione di Galvano è importante perché in Italia sul colle di Montesiepi (Chiusdino) nei pressi di Siena, un cavaliere di nome Galgano pianta la spada nella roccia. La città di Siena ha da sempre rivestito un ruolo importante per i Cavalieri Templari. Lo stemma della città di Siena è uno scudo diviso in due parti, l’inferiore nera e la superiore bianca, è simile allo stendardo templare.
 
La prima tradizione chiamava la spada di Artù, Caliburn. Valerio Massimo Manfredi, nel suo romanzo “L’ultima Legione”, identifica Uther con Romolo Augustolo, e suggerisce che Excalibur potrebbe essere una contrazione popolare di ENSIS C. IUL. CAES. CALIBURNI. Manfredi scrive una cosa interessante, fa dire a Merlino, cioè  Ambrosinus che fu forgiata dai Calibi in Anatolia da un blocco di ferro siderale. Il ferro siderale è il ferro delle stelle utilizzato nell’antichità, sia in oriente e sia in occidente, solo per scopi sacri e misterici.
 
Nella tradizione celtica il nome originale era Caledfwlch. La parola Excalibur ha origini che possono farsi risalire a due ceppi linguistici ben differenti: quello latino e quello sassone. Dal latino abbiamo diversi significati, ma quello più plausibile deriva da un’antica e mitica popolazione di fabbri chiamati “Calibi”, La spada denominata Excalibur, il cui nome è stato interpretato come una sorta di crasi delle parole latine, ex (con ablativo): dai e Calibs: Calibi, quindi tradotto letteralmente il significato diventerebbe “forgiata dai Calibi”. Dal ramo celtico il nome deriverebbe da Caliburn, arcaico nome della leggendaria spada, che in antichità significava “acciaio lucente” o “acciaio indistruttibile” e potrebbe quindi così ricondursi alla stessa radice latina.
 
I Calibi antica e mitica popolazione della Scizia, di cui si dice, scoprirono il ferro e ne portarono l’uso fra gli uomini. Furono celebratissimi nella letteratura classica da Eschilo ad Apollodoro Rodio, nonché da Virgilio. Poiché i Calibi nell’antichità erano considerati “fabbri sacri”, è lecito domandarsi che cosa forgiavano? Il fabbro è assimilato dalle popolazioni eurasiatiche allo sciamano. Negli antichissimi “culti dei fabbri e del fuoco”, metallurgia e sciamanesimo erano uno. Excalibur probabilmente erra stata forgiata con ferro meteorico, cioè proveniente dallo spazio stellare.
 
La connessione tra arte del fabbro e riti iniziatici si riscontra nel modo più evidente nei Misteri dei Kabiri (Cabiri), i Grandi Dèi dell’isola di Samotracia. Apollonio di Rodi scrive che in Samotracia, gli Argonauti sono iniziati ai Misteri dei Kabiri. Nella sua Trilogia degli Argonauti, Eschilo dedicò un’intera tragedia agli esseri primordiali di Lemno, sotto il titolo Kabeiroi (Kabiri). Uno di questi antichi Kabiri era Prometeo, e suo figlio era l’Etneo o Efesto, il fabbro degli Dei, egli avrebbe generato altri Kabiri che perciò sarebbero stati chiamati Efesti, che come lui portava il martello del fabbro. Non può passare inosservata la similitudine tra Kabiri e Calibi. Infatti, ai figli di Vulcano (Efesto) ed Elettra furono dati vari nomi, tra i quali Coribanti e Calibi gli Idei Dactyli, o le “Dita” degli Idei. Furono chiamati così perché il numero dei sacerdoti di Cibele era di cinque giovinetti e di cinque giovinette pareggiava le dita della mano. Ritroviamo associati ai mitici fabbri le dita della mano, il numero cinque, che è anche in relazione con Artù che regna nel quinto regno.
 
Quando si parla di questi fabbri, la mente va a quello dei Nibelunghi. La tela dipinta da N. Roerich raffigura il fabbro dei Nibelunghi, che sta forgiando una spada in una grotta di pietra alla luce del fuoco. Roerich dipinge il fabbro con i tratti orientali che richiamano alla mente i popoli della steppa.

Figura 1. N. Roerich - La forgiatura della spada
 
 
Tra i centri più importanti di estrazione e lavorazione del ferro vi era la regione del Caucaso, la zona, dove è stato incatenato alla roccia Prometeo, il Kabiro, e nelle cui vicinanze dimoravano i mitici fabbri, i Calibi. La spada usata dallo sciamano è la stessa arma sacra ai cavalieri delle steppe, al punto che essa è figura del loro Dio, come scrive Ammiano Marcellino: “Presso di loro (gli Alani) non si trovano templi o santuari, ma onorano devotamente solo una nuda spada piantata in terra secondo un rito barbaro, simbolo del loro Dio della guerra”. Gli Alano-Sarmati erano una popolazione nomade delle steppe degli odierni Ucraina e Kazakhstan. I Sarmati avevano un’enorme devozione, quasi religiosa, per le spade: il loro culto tribale era rivolto a una spada conficcata a terra, che presenta affascinanti analogie con la leggendaria Spada nella roccia. Portavano anche vessilli a forma di draghi, simboli utilizzati da Uther Pendragon e anche da Artù. Le cerimonie religiose dei Sarmati erano celebrate da sciamani come Merlino della loro terra natale.
 
I Normanni, i divulgatori del ciclo bretone in Italia, dominarono in tutto il Sud Italia ed edificarono la loro reggia a Palermo. Secondo leggende siciliane, già attive nel XII secolo, Artù non sarebbe morto, ma dormirebbe in una caverna nell’antica montagna di Mongitello, nota come il vulcano Etna. Vi è componimento abbastanza chiaro firmato dal fantomatico personaggio che si celava dietro il nome di Gatto Lupesco, presumibilmente toscano, vissuto quasi certamente nel milleduecento:
 
Quelli mi dissero: “Or intendete / e vi diremo ciò che volete / ove gimo e donde siamo; / e vi diremo onde vegnamo. / Cavalieri siamo di Bretagna / ke vegnamo de la montagna / ke ll’omo apella Mongibello. / Assai vi semo stati ad ostello / per apparare ed invenire / la veritade di nostro sire / lo re Artù, k'avemo perduto / e non sapemo ke ssia venuto. / Or ne torniamo in nostra terra / ne lo reame d’Inghilterra. / A Dio siate voi, ser gatto / voi con tutto ‘l vostro fatto". / E io rispuosi allora insuno: / “A Dio vi comando ciascheduno”. / Così da me si dipartiro / li cavalieri quando ne giro.”
 
La leggenda di Artù nell’Etna è riportata anche negli Otia Imperialia dell’inglese Gervasio da Tilbury che (XII secolo), il quale l’aveva appresa durante il soggiorno alla corte normanna di Palermo intorno al 1190. Giurista, politico, scrittore, questi fu educato alla corte del leone d’Inghilterra Enrico II, per poi raggiungere Reims e, infine, l'Università di Bologna ove approfondì lo studio del diritto canonico. La versione cristiana di Gervasio da Tilbury cronista che visse tra il XII e il XIII secolo, narra che quando re Artù sentì avvicinarsi la sua fine pregò il cielo di esaudire il suo ultimo desiderio, far riparare la sua preziosissima spada che si era rotta in due parti. In risposta alla supplica San Michele Arcangelo e gli angeli lo sollevarono in volo e lo portarono sul monte Etna, dove il fuoco saldò immediatamente i due tronconi della sua spada. In un’altra versione è Morgana che accompagna Artù. Ai fini dell’analisi del mito abbiamo il legame dell’Arcangelo Michele armato di spada, Artù e la sua spada e la montagna o roccia di fuoco: Galgano pianta nella roccia la spada solo dopo aver sognato due volte San Michele. Gervasio di Tilbury scrisse che Artù vive ancora in una dimora all'interno del vulcano in uno splendido palazzo e, in una stanza di questo, si troverebbe il corpo di Re Artù, adagiato su un reale giaciglio, ma soffre di una piaga dolorosa che si apre ogni anno.
 
Successivamente anche l’abate tedesco Cesario di Heisterbach, o Caesarius Heisterbacensis priore dell’odierna Siebengebirge[3], riporta anch’egli una versione della leggenda etnea, nota con il titolo Dialogus magnus visionum et miraculorum. La ricostruzione di Cesario è più tarda di quella di Gervasio da Tilbury, e ne segue la falsariga. Un’altra conferma di questa tradizione, l’abbiamo nel 1191, quando Tancredi di Sicilia ebbe in dono da Riccardo I una spada di nome Excalibur, che si diceva fosse stata recuperata negli scavi di Glastonbury!
 
Quella di Artù nel vulcano è la più atipica tra le leggende che circolano nell’angolo orientale della Sicilia, nella piana vulcanica fertile di lava. Isola decisamente troppo lontana dalle siderali notti nordiche della Britannia e dell’agonia di un grande re stroncato dalla sua stessa rinnegata progenie (Mordred), per poi essere portato in salvo ad Avalon dalla sorella Morgana. Il mito dell’isola di Avalon, Insula Pomorum o Insula Fortunata come descritto dalla cronaca tradizionale di Goffredo di Monmouth, presenta caratteristiche del tutto distinte da quelle della Sicilia, la Trinacria.
 
In realtà s’inseriscono antichi insegnamenti misterici, Artù e l’Etna, in queste leggende rappresentano solo una faccia di una stessa medaglia, collegati entrambi con il Fuoco, Agni. Efesto chiamato Aitnaios, Etneo, dio del fuoco e della metallurgia e fabbro degli dei. Si narra che abbia avuto la sua fucina sotto l’Etna per aver domato il demone del fuoco Adranos e di averlo guidato fuori dalla montagna. Nell’Etna i Ciclopi vi tenevano un’officina di forgiatura nella quale producevano le Folgori celesti usate come armi di Zeus. La spada di Artù Excalibur si narra che era stata forgiata dai mitici Calibi, come la spada Durlindana di Orlando.
 
Efesto dei greci mostra spesso come Agni degli indù una grande Sapienza, e questa lo fa trovare qualche volta in relazione con Atena. Nella Teogonia di Esiodo, Efesto è l’immagine del lampo e del fulmine. Come tale, spacca con la sua scure la fronte di Giove, dalla quale esce armata la dea della Sapienza Atena. Nell’Odissea è scritto che Atena ed Efesto insegnarono le arti agli uomini, e Platone esprime la stessa idea.
 
Collegati con il culto misterico del Fuoco, troviamo i Kabiri, padroni del Fuoco e della folgore celeste, i misteriosi Dei adorati non solo in Samotracia (a Electra) e in Etruria, ma anche in Frigia, in Fenicia, nella Tracia, in Egitto, in Sicilia. Secondo Pindaro, Adamas era il nome del Kabiro: uno dei sette tipi di progenitori del genere umano. Il culto dei Kabiri il cui ricordo si perde nella notte dei tempi, era legato ai Fuochi Sacri e alle grandi energie vulcaniche, i loro templi erano sempre costruiti in località vulcaniche. Kabeiros significa potente per mezzo del fuoco, naturalmente vulcanico. Sulla terra il potere del Drago era associato ai Fuochi Sotterranei, personificati dai Kabiri. Artù era anche’egli associato al drago perché figlio di Uther Pendragon. Ai Kabiri, Diodoro Siculo attribuisce l’invenzione del fuoco e l’arte di lavorare il ferro. Pausania dice che la divinità kabirica originale era Prometeo. La lingua degli Etruschi è simile a un’iscrizione trovata a Lemno, un’isola kabirica. Gli Etruschi i custodi della conoscenza kabirica, in Italia, conoscevano l’arte di evocare il Fuoco Celeste, il Fulmine. È all’etrusco Numa[4], il secondo Re di Roma, che si deve il rito evocatorio dei fulmini[5]. L’elettricità era rappresentata a Samotracia da Demetra Kabiria come si può osservare da un antico dipinto[6].
 
Zeus o Giove scaglia Efesto o Vulcano giù dal cielo e gli storpia una coscia. Nel Libro della Genesi, il Signore, il Sole, combatte con Giacobbe, lo colpisce alla coscia[7].  Gli scrittori biblici chiamavano il pene un “muscolo che si restringeva”, che si trova “sul cavo della coscia”. Nella saga francese di Chrètien de Troyes[8], del Graal, Amfortas il Re Pescatore è infermo perché colpito alla coscia (ai genitali) da una lancia avvelenata.
 
La leggenda della “spada nella roccia” ci porta lontano, emerge non solo dal passato mitologico delle terre dei Celti, ma anche da quello della Scandinavia, della Persia, dell’Italia medievale. La Völsunga Saga 3, narra l’episodio della spada del dio Odhinn infissa in una quercia (Axis Mundi) che solo il giovane Sigmundr, il figlio del re, riuscirà a estrarre qualificandosi come il solo, degno successore del padre. Nella Hrolfs Saga Kraka, sarà Elgfrodi, figlio di Björn (l’Orso), a estrarre la spada che affiora da una roccia e con ciò potrà affermare il suo diritto ereditario alla regalità. È noto poi il racconto, conservato nel Libro dei Re, dell’eroe persiano Gustasp chiamato a spaccare l’incudine di ferro fuso del fabbro Burab che lo consacrerà eroe invincibile. Gustasp afferra un martello e frantuma la massa incandescente che gli è stata sottoposta, ne libera la “potenza creatrice”. Sono frammenti di un antichissimo rituale di regalità che sembrano scaturire da una dimensione arcana, nella quale l’atto dell’estrazione della spada non solo costituisce una prova che gli altri candidati non riusciranno mai a superare, ma mostra una qualificazione, l’attitudine regale che fa dell’eroe un eletto[9].
 
Sir Thomas Malory nel 1485 testimonia il proposito di stampare un volume sulle nobili imprese di re Artù e di alcuni suoi cavalieri “sulla base di una copia che pervenne tra le mie mani e che sir Thomas Malory trasse da certi libri francesi”. Nell’opera di Thomas Malory, la morte di Arthur, leggiamo di come Artù all’inizio abbia sfidato l’impero romano. L’imperatore Lucio è ucciso nella storia proprio dal leggendario sovrano. Nella battaglia contro l’impero muoiono anche il sultano di Siria, i re di Egitto ed Etiopia, oltre a diciassette monarchi e sessanta senatori di Roma. Nella sua discesa in Italia conquista Urbino e la Toscana, devastando le città che gli oppongono resistenza. Cadono Spoleto, Viterbo, poi Roma. Dopo aver conquistato la capitale, è suo desiderio quello di raggiungere anche Troia, ma il tradimento di Mordred lo riconduce in patria, trionfante. È una versione della leggenda di Artù completamente diversa. “Colui che estrarrà questa spada dalla roccia è per diritto di nascita re d’Inghilterra” aggiungerà in seguito Thomas Malory. È possibile che gli scrittori del ciclo bretone, per la realizzazione delle loro opere, possano essersi ispirati ad alcune leggende sviluppatesi in Italia sempre nel medioevo, quali ad esempio la spada di Galgano presente a Montesiepi che sarebbe piantata nella roccia fin dal 1180[10]. Oppure è possibile che queste leggende circolassero oralmente per opera dei trovatori.
 
Figura 2. Spada nella roccia Eremo Montesiepi
 
 
La spada nella roccia di Montesiepi (Chiusdino) è strettamente legata alla leggenda di re Artù, questa storia precede di 25 anni la prima stesura del ciclo del Graal di Chrétien de Troyes. Le analogie con la saga di Re Artù non mancano: il nome di un Cavaliere di Artù era Sir Galvano, suo nipote, il nome di Galvano è molto simile a Galgano. Artù tolse la spada dalla roccia per ottenere il potere e combattere in guerra ma Galgano ce la piantò, rinunciandovi per sempre. Come Perceval, anche Galgano é descritto come Figlio della Vedova Dionysia, che lotta per impedire la sua scelta eremitica. Come Perceval, anche Galgano si ritrova a dover porre la fatidica domanda - agli Apostoli che gli sono apparsi in sogno - ma, mentre Perceval esita, non segue il suo istinto e non chiede spiegazioni su ciò cui sta assistendo nel castello del Re Pescatore, Galgano domanda lumi sull’immagine che vede sopra i dodici e ne ottiene da loro immediata risposta.
 
Il nome Montesiepi (Mons saeptus) indica chiaramente un’altura con septa cioè con divisori che, in passato, potrebbero aver delimitato delle aree destinate a particolari cerimonie; inoltre, originariamente, Montesiepi era chiamato Cerboli, che rimanda al cervo, animale sacro al popolo dei Celti, e automaticamente al dio Cernunnos, signore della Natura, ma anche a Cerbero, mostruosa creatura della mitologia greca a guardia dell’ingresso dell’Oltretomba. Nell’infiggere la sua Spada nella roccia di Montesiepi, il “mons saeptus” cioè il monte separato dalla vita profana, Galvano rinnovava l’antico rituale ereditato dai suoi padri longobardi, rituale plurimillenario che era giunto, per il tramite delle popolazioni di stirpe germanica, dai lontani Cavalieri delle Steppe, i popoli indoiranici che dal 3.000 a.C. si erano stanziati, varcando il Caucaso, nella zona tra il Mar Nero e gli Urali. La tradizione per i guerrieri di adorare il loro Dio raffigurandolo nella Spada infissa nel suolo è riportata da autori come Erodoto e confermata dai ritrovamenti archeologici di tombe e di templi scoperti in questa vasta area dell’Europa orientale.
 
Secondo la tradizione Arthur libera la spada nella Chorea Gigantum, l’imago mundi all’interno della quale egli è consacrato sovrano universale, ne personifica il vero “cuore” e dovrà sostenere la battaglia finale contro le forze del male, mentre Galgano imprigiona la sua spada nella roccia di un umile eremo sperduto fra i monti della Toscana chiamato a contemplare la croce formata dall’elsa e a essere assorbito totalmente, come la spada nella croce, nella grazia elargita dal Sovrano di tutti i re. Peraltro, pur nelle due diverse prospettive che si è cercato di evidenziare, le due “spade nella roccia” sembrano dipendere da un unico archetipo mitico, appaiono come le due vie o scelte, la guerriera e la contemplativa, scaturite da un identico, arcaico rituale di sovranità.  

[1] Dobbiamo a Thomas Malory, il tentativo peraltro ben riuscito, di cristianizzare secondo i dettami dell’ortodossia cattolica la figura di Artù.
[2] Chrétien de Troyes, nel suo romanzo “Lancillotto o il cavaliere della carretta”, raccontò che Lancillotto era stato allevato da una Fata dell’Acqua, la quale gli aveva donato un anello capace di resistere alla magia.
[3] Monastero in cui fece il suo ingresso nel 1199 ed alla denominazione antica del quale deve il suo nome.
[4] Numa, il re filosofo, fu iniziato dai sacerdoti etruschi, ed istruito da loro nel segreto di far scendere sulla terra il fulmine, vedi Ovidio, Fasti, I, cap.31.
[5] Lo studio dei tuoni e dei fulmini era codificato nei Libri Fulgurales, con le istruzioni per evocare, dominare e guidare le folgori.
[6] La troviamo in un notevolissimo dipinto dei Monuments d’Antiquité Figuré di Raoul Rochette, nel quale, al pari di Pan dai capelli rizzati tutti i personaggi hanno i capelli tesi in ogni direzione eccettuata la figura centrale di Demetra Kabiria, dalla quale emana il potere, e quella di un uomo inginocchiato … il dipinto rappresenta evidentemente una parte della cerimonia d’iniziazione
[7] La mizvà, il divieto di cibarsi del nervo sciatico è considerata talmente importante, che chi la trasgredisce è passibile della pena del caret (pena la cui entità è sconosciuta a noi, ma considerata capitale eseguita esclusivamente dal Signore), assieme al divieto di cibarsi di sangue. Il nervo sciatico ha a che fare con la potenza sessuale nella rappresentazione del copro presso gli antichi.
[8] Il testo rimanda a un certo Maestro Blihis, possessore di una tradizione che deve restare segreta.
[9] http://www.simmetria.org/simmetrianew/contenuti/articoli/123-la-guerra-la-cavalleria-e-la-ricerca-del-graal-/385-fra-draghi-orsi-e-re-di-ndanna.html  N. D’Anna.
[10] Giorgio Pastore alla ricerca della pietra filosofale. Il mistero di Re Artù.
LE SPADE NELLA ROCCIA

Pietra angolare di miti e leggende, alla spada sono state attribuite numerose capacità e proprietà, di frequente era proprio la spada a scegliere colui, spesso predestinato, che avrebbe potuto sfruttarne appieno i poteri. Il simbolismo esoterico della spada è estremamente potente, a tal punto che i Cavalieri Templari la codificarono come l’arma iniziatica per eccellenza, poiché essi sapevano che la spada come la lancia era la rappresentazione del potere Kundalini che si srotola lungo la spina dorsale, la stessa spada che in Genesi viene descritta come roteante in mano al cherubino.
 
Le spade infisse nella roccia o che emergono dalle acque rappresentano i due aspetti della manifestazione: la spada, lo spirito, la roccia, l’acqua, la materia, non per nulla il Dio nasce nella roccia,in una caverna. L’etimologia celtica del nome Artù art o roccia oppure arth gwyr è uomo orso, e poiché l’orso dimora nelle caverne che vive nelle caverne e quindi nel grembo di Mater Terra. Dal punto di vista etimologico l’altro personaggio della saga di Artù, cioè Lancillotto del Lago, stia per “Lancia del Lago”. I racconti mitici, narrano di Spade conficcate nella terra, che originano le fonti d’acqua. Fulcanelli scrisse che «la spada che apre la roccia, la verga di Mosè che fa scaturire l’acqua dalla pietra di Horeb, lo scettro della dea Rea, con cui colpisce il monte Dindimo, il giavellotto d’Atalanta sono un unico e medesimo geroglifo di questa materia nascosta dei Filosofi».
 
Figura 1. La Spada e la dama del lago

 
Nelle opere del ciclo bretone, Excalibur, fu donata da una entità superiore, la Dama del Lago, a Re Artù perché potesse costruire un nuovo regno caratterizzato dagli alti valori cavallereschi, giustizia e virtù furono le pietre angolari su cui poggiare la Tavola Rotonda. Il fodero aveva il potere sovrannaturale di proteggere colui che la brandiva dall’essere ferito in battaglia.
 
In Sardegna a Serri e a Sardana in alcuni pozzi sacri sono stati ritrovati pugnali infissi in tavole di pietra. La spada estratta da Artù era infissa in una grande pietra squadrata. Excalibur, spada archetipica, viene spezzata da Artù in un duello ma la Dama del Lago, l’Anima Superiore, la rinsalderà, non prima di averla immersa nell’acqua. Solo la Donna Interiore, l’Anima, la Signora delle Acque (Dama del Lago) può riparare ciò che è peccaminoso infrangere.
 
Fulcanelli scrisse: “E' mia ferma convinzione, ma ne accenna già Fulcanelli, che la tradizione del romanzo bretone o arturiano tragga ispirazione dalla gnosi ermetica, o, se si vuole essere più chiari, dall'Arte Sacra o Regia, l’Alchimia. Si dovrebbe iniziare qui un lungo discorso su una catena che risale nei secoli all’esoterismo della cavalleria mistica, le cui prime tracce iraniche restano nell'immaginario leggendario come origine della cavalleria ismailita, poi da questa trasmessa ai Cavalieri Templari, e da questi ad altri Ordini in Occidente”.
 
La spada di San Galgano infissa nella roccia a Montesiepi, non è l’unica spada nella roccia che conosciamo. Ve n’è un’altra posta sul cammino di Compostela a Notre-Dame de Rocamadour, nella Francia del sud, confitta quasi in verticale sulla parete di un santuario visitato in passato da importanti personaggi, come Bernardo di Chiaravalle ed Eleonora d’Aquitania. Non è causale che nei pressi di Rocamadour si trova l’abbazia cistercense di Obazine. All’inizio si pensava che fosse un falso, invece sembra che risalga al 1200. Secondo la tradizione locale, la spada qui infissa sarebbe la leggendaria Durendal (Durlindana) del paladino Orlando, le cui gesta ci sono state narrate più volte nel corso della storia della letteratura. La leggenda vuole che la spada fosse stata donata a Orlando proprio da Carlo Magno, invece, nell’Orlando Furioso (canto XIV, 43), l’Ariosto narra che un tempo sarebbe appartenuta addirittura ad Ettore di Troia[1]. Nuovamente un riferimento alle vicende di Troia. Orlando, nella battaglia di Roncisvalle, prima di morire tentò di spezzare la spada per evitare che andasse in mano ai nemici saraceni. Orlando, vedendo che non riusciva a spezzare la spada, invocò San Michele perché gli desse forza e scagliò la spada così lontano che arrivò a Rocamadur infiggendosi in una parete rocciosa. E lì è, ancora visibile, in alto in alto.

Figura 2. Notre Dame de Rocamandur - Spada nella roccia

 
Sia a Montesiepi, e sia a Rocamandur, solo dopo l’intervento dell’Arcangelo Michele, la spada è stata restituita alla roccia. Il sito di Notre-Dame de Rocamadour è interessante per la spada Durlindana, qui è presente una Madonna nera.
 
Rocamadour sarebbe in qualche modo collegata alla Toscana: a una trentina di chilometri da Chiusdino, infatti, sorge la chiesa di Santa Maria di Rocamadore, il cui nome ricorda molto quello del santuario francese. Non dobbiamo dimenticare, tra l’altro, che a Malavalle, sempre nei pressi di Chiusdino, vi è un’altra chiesa nella quale sono conservati i resti di un eremita della stessa epoca di San Galgano. Secondo il professor Garlaschelli, potrebbero trattarsi dei resti di Guglielmo X d’Aquitania, padre di Eleonora, che a un certo punto della sua vita, nel 1137, decise di lasciare tutto per fare l’eremita in Toscana. «Dall’esame paleontologico sullo scheletro è emerso che il suo cranio potrebbe essere compatibile con quelli tipici della popolazione francese del periodo. Ma questa è solo una delle coincidenze», ci conferma il professore. La spada di San Galgano sembrerebbe essere precedente all’introduzione di Excalibur nel ciclo bretone. A Tremestieri (in origine tre monasteri), frazione del comune di Messina in Sicilia si trova un’abbazia cistercense fondata nel 1193 dedicata Santa Maria di Roccamadore, che fu distrutta dal terremoto del 1908. Il conte normanno Bartolomeo di Lucy, volle intitolare l’abbazia a Santa Maria di Roccamadore, prendendo spunto dalla chiesa francese di Rocamadour en Quercy, meta allora di pellegrinaggi. Quale importanza aveva per i Cistercensi? San Bernardo venerò Notre-Dame de Rocamandour allo stesso modo cui la venerò Eleonora d’Aquitania.
 
In molte biografie di San Galgano, compresa la Vita Sancti Galgani de Senis, si accenna a contatti che il santo avrebbe avuto con l’eremo di San Guglielmo di Malavalle (Castiglione della Pescaia in provincia di Grosseto). Molte sono le affinità tra i due personaggi: entrambi cavalieri, entrambi decisero di votarsi alla vita eremitica abbandonando la milizia terrena, entrambi hanno legami con la materia arturiana.
 
Un’ipotesi è che la spada nella roccia di San Galgano sia stata messa lì proprio sotto l’influenza dei racconti arturiani. In questo caso non l’avrebbe messa Galgano, ma si potrebbe ipotizzare che sia stata piazzata dai monaci cistercensi che avevano preso possesso della Rotonda nel 1218. Questa ipotesi sarebbe suffragata da fatti specifici. Per esempio, nei pressi di Chiusdino, a Malavalle, esiste una chiesa in cui sono conservati i resti di un altro eremita che viveva in quella zona nella stessa epoca di San Galgano.  
 
Guglielmo di Malavalle morto nel 1157 - a circa sessant’anni - quando Galgano era ancora un fanciullo, e divenuto santo presso Grosseto, a circa ottanta chilometri dalla cappella di S. Galgano. Esistono molte biografie secondo le quali Malavalle altri non era che Guglielmo X d’Aquitania, che nel 1137 sparì durante un pellegrinaggio. Guglielmo X morì mentre stava recandosi in pellegrinaggio a Santiago de Compostela, ma nessuno mai vide la sua salma. Lasciò erede del suo vastissimo dominio la figlia Eleonora. Potrebbe essere il santo di Malavalle che compare in Maremma alcuni anni dopo questi fatti. Per la prima volta se ne fa menzione nella Vita S. Guilelmi scritta dopo il 1210. I risultati d’indagini scientifiche eseguite sulle reliquie di San Guglielmo, compresa quella del DNA mitocondriale, rendono molto probabile l'origine nordica del personaggio. Le leggende narrano che prima di dedicarsi a una vita di penitenza e diventare egli era il Duca Guglielmo X d’Aquitania, padre di Eleonora d’Aquitania, “la regina dei Trovatori”. Eleonora fu una delle figure più importanti della storia medievale: sposa di Luigi VII di Francia, poi di Enrico d’Inghilterra, al quale diede otto figli, tra cui Riccardo Cuor di Leone. Nella sua corte e in quella della figlia, Maria di Champagne, erano protetti e incoraggiati artisti e trovatori come Chrétien de Troyes, che stavano componendo il ciclo delle leggende arturiane tra il 1160 e il 1190.
 
La saldatura tra la leggenda laica e nord europea di Artù e la sua trasformazione in epopea cristiana e religiosa é tutta riassunta nella figura di Galgano. Il punto di raccordo, di fusione, di elaborazione, si può ritrovare intorno alla sua leggenda. Sarà un caso, ma proprio negli anni in cui Galgano è fatto nascere, Bernardo di Chiaravalle é presente, di persona o attraverso la sua numerosa corrispondenza, a tutte le più importanti vicende politiche. Sempre lui interverrà nel divorzio tra Eleonora d’Aquitania e Luigi VII, re di Francia nel 1152, così com’era già accaduto per il loro matrimonio nel 1137. Ancora Bernardo aleggia anche nelle nuove nozze di Eleonora con il futuro re d’Inghilterra, Enrico II Plantagento, nello stesso 1152, solo pochi mesi dopo il divorzio. Proprio alla corte di Eleonora e, soprattutto, a quella di sua figlia Maria, fiorì e prosperò il mito di Artù.
 
Quando Chrétien de Troyes scrive, il mito é già europeo, diffuso come pochi, anche perché rappresenta la speranza che un predestinato risolva per sempre tutti i problemi per volontà divina, l’Artù del mito é un prescelto da Dio. Chrétien de Troyes non fa altro che fornire un corpo omogeneo a una leggenda che si era già sviluppata attraverso canali molto variegati, dalla tradizione orale agli adattamenti etnici più disparati, dalle innumerevoli versioni al vasto patrimonio di opere raffigurative.  


[1] Dopo la fidanzata di Galgano Polissena che si chiamava come una delle figlie di Priamo, di cui si sarebbe innamorato Achille, ecco comparire Ettore e la sua spada. Achille nel mito uccide Ettore.
 
SAN FRANCESCO E I SUOI CAVALIERI DELLA TAVOLA ROTONDA
 
Anche San Francesco paragonava i suoi primi compagni ai cavalieri di Artù: “Questi sono i miei fratelli, cavalieri della tavola rotonda (milites tabulae rotundae), che se ne stanno nascosti in luoghi remoti e solitari per dedicarsi più attentamente alla preghiera e alla meditazione”. San Francesco come il cavaliere di Chiusdino Galgano, all’inizio viveva da dissoluto. Francesco proveniva da una famiglia benestante che gli aveva consentito di frequentare le migliori scuole dell’epoca. Francesco era un uomo assai colto che, oltre che nella sua lingua, poteva scrivere in latino, sapeva benissimo il francese, conosceva la musica e aveva letto moltissimi romanzi in codici di pergamena, tra i quali  Oliviero e i poemi sulla leggenda di Re Artù e dei Paladini della Tavola rotonda, molto in voga negli ambienti che abitualmente frequentava. Dodici furono i frati che  Francesco volle intorno a Sé, come ci tramandano “i Fioretti”, e amava definire “i miei cavalieri della tavola rotonda” (Speculum Perfectionis, IV, 72)[1].
 
Il padre di Francesco Pietro di Bernardone, un mercante di stoffe, era un ebreo convertito, fiduciario del ricco monastero cistercense del Monte Subasio, a economia curtense, e grande produttore di lane pregiate da esportare poi in Francia facendo sosta nei vari monasteri d'appoggio in occasione delle grandi fiere della Champagne, la regione del primo gruppo di Templari.
 
Il ritrovamento all’inizio del secolo, in un unico manoscritto, delle tre biografie di Tommaso da Celano scomparse per secoli, ha reso possibile “rivedere” il vero Francesco e fare i debiti confronti tra “verità” e leggenda. Il 1228, anno di canonizzazione da parte di Gregorio IX, e anche dalla stesura della prima biografia ufficiale (in latino) del Santo, direttamente commissionata dal Papa a frate Tommaso da Celano, che fu, a propria volta, frate francescano.
 
L’Ordine Francescano, in un periodo in cui proliferavano molte sette, si era talmente diviso su come interpretare la regola di San Francesco che ad alcuni frati sembrava così difficile tenere ancora unito il movimento com’era stato impostato da Francesco ed Elia. Frate Elia, primissimo discepolo di Francesco ebbe un importante ruolo politico come amico e consigliere di Federico II di Svevia, dal quale ricevette delicati incarichi diplomatici. Frate Bonaventura, d’accordo con alcuni frati, prese la tremenda decisione di distruggere tutte le biografie e tutte le immagini che raffigurano il Beato, riscrivendo nel 1266 una nuova versione agiografica e di pura fantasia, che mostra un Francesco completamente diverso da quello realmente vissuto. La corrente che faceva capo a Bonaventura, trovava imbarazzante parlare di un fondatore che non si presentava con la faccia del santo, ma con quella di un laico votato alla povertà, che si era battuto per la giustizia sociale e per la pace tra la comunità cristiana e quella musulmana. Sappiamo che Francesco con frate Elia ai tempi della V crociata, è stato almeno per un anno intero dal Sultano. Il Sultano del Cairo fece delle proposte ai cristiani, era disposto a cedere non soltanto Gerusalemme, ma anche il territorio della Palestina a ovest del Giordano. Da parte sua, anche Giovanni di Brienne era disposto a un accordo. Vi si oppose l’improvvido e confusionario legato del papa, il cardinale Pelagio, naturalmente la crociata finì male.
 
In quel particolare periodo storico, che vide lo scontro tra Spiritualisti e Conventuali col Capitolo di Parigi del 1266, fu imposta la totale distruzione delle biografie scritte precedentemente a quella di Bonaventura. Tutti i documenti che potevano far luce sulla sua autentica figura, verranno, infatti, nel tempo deliberatamente distrutti o distorti. C’è una tavola, l’unica rimasta, in Santa Croce a Firenze, dove si vede che Francesco parla al Sultano e ai musulmani che lo ascoltano rapiti; una predica attenta. A frate Elia capitò di peggio, il suo impegno politico gli costò una scomunica che fu resa pubblica ed effettiva nel 1240.
 
Invece Bonaventura racconta quello che tutti noi vediamo ad Assisi. Francesco arrivato dal Sultano propone una sfida: “Fai andare in un grande fuoco i tuoi sacerdoti e ci vado dentro anch’io. Se loro saranno bruciati, vuol dire che la vostra fede non va bene, se io sarò bruciato, vuol dire che va bene”. Lo stesso Bonaventura dice che questa fu una proposta di Francesco. Bonaventura sta ormai nell’ottica tipica della lotta contro l’eretico: bisogna sconfiggere il nemico e possibilmente mandarlo al rogo. Era l’idea che portava avanti la Chiesa, soprattutto con il tribunale dell’inquisizione.
 
Figura 1. San Francesco e il Sultano di Egitto
 
 
Anche l’imperatore Federico II di Svevia e di Sicilia a capo della sesta crociata tra il 1228 e il 1229 come Francesco la volle risolvere per vie diplomatiche, evitando lo scontro militare. Fu scomunicato da papa Gregorio IX che lo definiva “Anticristo”. Il papa non vedeva di buon occhio la soluzione diplomatica, che non era nei piani; anche ‘'incoronazione da scomunicato non fu gradita. A dispetto di ciò, fu anche quella che ottenne le maggiori conquiste territoriali per lo schieramento crociato. Troppe sono le coincidenze che stanno a indicare come Francesco non fosse solamente il poverello di Assisi, né frate Elia semplicemente uno scomunicato e Federico II l’Anticristo. La biografia di Tommaso da Celano narra di “un Cavaliere di Assisi” che stava allora organizzando preparativi militari per la spedizione in Puglia di Gualtiero III di Brienne, appartenente al casato feudale della Champagne, che aveva sposato una delle figlie del re Tancredi di Sicilia, ed ecco un legame con Federico II. Frate Celano ci mostra un giovane Francesco prima della sua conversione, tentato dalla gloria cavalleresca e militare per opera dello sconosciuto reclutatore militare in terra d’Umbria, Conte Gentile delle fonti, probabilmente un Templare francese legato a Gualtiero (1165-1205), che del resto era parente di Giovanni I di Brienne.
 
Giovanni I di Brienne (1148-1237) re di Gerusalemme, poeta e devoto di Francesco, il cui monumento funebre si trova proprio nella Basilica inferiore di Assisi, appoggiato, con i suoi marmi bianchi, nell’ombra magica della grande parete d’ingresso, al fondo della pianta a forma di “Tau”. Isabella, figlia di Giovanni di Brienne, era andata in sposa all’Imperatore Federico II. È a Spoleto che per Francesco si consuma un evento fondamentale della sua vita. Egli sente che l’unica milizia che gli si addice è quella divina. Il suo Dio è un Dio di pace (come scrisse Properzio in un’elegia) e non un Dio re degli eserciti.
Non è quindi casuale che i tre nodi del saio francescano, tradiscano pur sempre l’origine militare del movimento francescano, corrispondendo, esattamente, ai tre voti della regola templare, concepita, si dice, da San Bernardo nel nome stesso della povertà, umiltà e castità[2]. Infine i frati poveri “cavalieri di Cristo”, che sempre marceranno appiedati “a due a due”, esattamente come i Cavalieri Templari. Dodici furono i frati, tra i quali frate Elia, che Francesco volle intorno a Sé, come ci tramandano “i Fioretti”, che amava chiamarli “i miei cavalieri della tavola rotonda”.  
 
[1] IL MISTERO DELLA TOMBA DI SAN FRANCESCO. SOS Collemaggio.
[2] http://soscollemaggio.com/it/component/content/article/158-il-mistero-della-tomba-di-san-francesco-n.html
 
ARTÙ  E I SUOI CAVALIERI RAPPRESENTATI A MODENA