Il viaggio di Odisseo attraverso 12 Porte - Sapienza Misterica

SAPIENZA MISTERICA
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Il viaggio di Odisseo attraverso 12 Porte

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OMERO L’AEDO
 
Omero è descritto come un Maestro di vita e di verità, cieco, errabondo, vissuto all’incirca nel IX secolo a.C. Emblematico, è il nome di Omero, che sembra derivare etimologicamente da “colui che si accompagna a qualcuno”, generalmente il cieco. Il veggente cieco Tiresia, coerentemente alla descrizione presente in Antigone di Sofocle (V sec. a.C.), è guidato da un fanciullo.
 
La tradizione vuole che Omero fosse cieco, ma sta di fatto che tutti gli aedi erano ciechi. Un esempio dei più noti è dato dal personaggio di Tiresia, descritto da Omero nell’Iliade come un veggente cieco al quale l’arte profetica era stata concessa a confronto della cecità inflittagli dopo aver visto Atena (La Sapienza Arcana) nuda, cioè aveva contemplato la Sapienza con occhi umani. Nell’iconografia antica l’immagine di Tiresia era rappresentata come un vecchio dal capo velato. Plinio scriveva: “Così una profonda meditazione rende ciechi, poiché la capacità visiva si ritira all’interno” (N. H. XI, 54).
 
Si diceva che il volto della Conoscenza era come il volto di Iside, una pura luce capace di stroncare il neofita, il nuovo nato, l’Iniziato. La luce della Conoscenza è troppo abbagliante, per essere ricevuta e impunemente comunicata, senza rischiare di portare alla pazzia e alla malvagità, deve pertanto essere velata, filtrata. Mosè quando salì sul Monte chiese di vedere il volto del Signore, gli fu risposto: “Tu non puoi vedere il mio volto … ti riparerò con la mia mano mentre passo”. Quando Mosè discese dal Monte del Signore con le Tavole della Legge, “il suo volto era diventato raggiante … egli si mise un velo sulla faccia”[1], cioè egli mise un velo sulla faccia della Rivelazione oscurando alla massa il significato del Pentateuco.
 

 
Figura 1. Omero cieco
 
L’Aede era uno con la Musa della musica e dell’armonia, l’Aedo era il suo sacro cantore. Era considerato un profeta, tradizionalmente ritratto come cieco in quanto, essendo tale non veniva distratto da niente e da nessuno e affinando le capacità sensibili poteva entrare in contatto direttamente con la divinità (attraverso gli occhi dell'anima) che lo ispirava. La sapienza che possedeva rendeva la capacità di vedere superflua, era un invasato, aveva il dio dentro, le Muse parlavano attraverso di lui. Omero nell’Odissea racconta l’origine della cecità di Demodoco, cantore alla corte di Alcinoo, re dei Feaci, rimarcando la stretta correlazione tra cecità e doti superiori.
 
La Musa lo amò molto,
ma un bene e un male gli diede:
degli occhi lo fece privo e gli donò il dolce canto.
(Odissea VIII, 63-65)
 
Il dono profetico e la cecità furono da sempre interpretati come una sorta di compensazione; gli indovini, ad esempio, diventavano a volte ciechi proprio per la loro conoscenza superiore o per aver raccontato agli uomini ciò che sapevano.
 
La cecità degli aedi e degli indovini è rappresentata in una serie di miti greci come un dono divino o, comunque, di natura sacrale: l’ispirazione e la veggenza. Il poeta in narratore di miti, come l'oracolo ha gli occhi chiusi per le cose terrene ma aperti a una realtà diversa.
 
Il Neoplatonico Porfirio allievo di Plotino, approfondì le interpretazioni misteriche dell’Odissea scrivendo un’opera dal titolo “La filosofia di Omero”. Egli considerava Omero un autentico filosofo; maestro di Platone, perciò un Grande Iniziato; un poeta ispirato che sotto la finzione letteraria nascondeva significati trascendenti. I miti omerici, diceva, offrono una visione dei misteri divini e si rivolgono a “anime iniziate” che intendono elevarsi al divino. Anche secondo Plotino, gli episodi omerici, sono di origine divina, perché emanati proprio dalle divinità; essi agiscono sull’anima elevandola sino al fine supremo dell’unione con il divino.

[1] Esodo, XXXIV, 22-33.
 
 
L’ILIADE E L’ODISSEA
Nelle vicende narrate da Omero si scorgono subito due livelli di narrazione, il primo riguardante antichi fatti storici che si perdono nelle nebbie del tempo, il secondo una narrazione che è posta fuori dello spazio e del tempo comunemente inteso.
 
Oggigiorno, si ammette che i poemi omerici trovino origine nelle antiche leggende e nei canti che facevano parte di un’antica tradizione orale popolare da cui Omero o chi per lui ha attinto. Omero o chi si cela dietro questo nome mise in versi nell’Iliade e nell’Odissea, le vicende degli Eroi di Troia, appartenenti alla Quarta Generazione, quella degli Eroi, attingendo a Tradizioni più antiche che venivano insegnate nei Misteri e poiché non poteva divulgare i tempi e i luoghi scrive due poemi facendo riferimento a luoghi e personaggi della sua epoca. Su remote vicende fu inserita la storia di un conflitto degli Achei, popolo della giovane Grecia e dei Troiani un altro popolo appartenente al vicino medio-oriente.
 
                                                                           
 
Figura N. 1. Il Mondo dell’Iliade
 
Omero riscrive per i greci vicende antiche, L’Iliade di Omero non è certo un racconto storico come normalmente inteso: è un racconto mitico e come tale deve essere decifrato. Altri racconti epici-mitici sono il Gilgamesh, il Ramayana e il Mahâbhârata, molto più antichi di quanto ingenerosamente assegnano gli studiosi, che conoscono solo l’ultima stesura exoterica.
 
L’Iliade e l’Odissea sono dei frammenti incompleti, e neppure gli Inni del grande aedo del IX secolo a.C. ci aiutano a completarli. Così, fra tanti altri episodi “misteriosi” dei due Poemi, anche il mito del Cavallo di Troia appare veridico soltanto ormai per sottinteso. Solo la tradizione orale, perduta per sempre nel mondo dei Greci, riuscirebbe forse a delucidarlo. Inoltre, quella Tradizione “da bocca a bocca” ci fu trasmessa appena dalla sesta Troia in poi, di cui Omero ... è il testimone per sentito dire. In India al contrario la tradizione orale si è conservata intatta[1].
 
Le epiche battaglie di Troia appartengono alla preistoria dell’umanità. Questa guerra secondo Omero, dura nove anni e si conclude all’inizio del decimo anno. I miti greci narrano che la battaglia fra gli Dei si concluse dopo Nove giorni con la caduta dei Titani nelle profondità del Tartaro, nove giorni dura il periodo d’ira di Apollo contro i Niobidi. Per nove giorni e nove notti dura il Diluvio di Deucalione. Questi tempi sono scanditi dal numero Nove che è il numero del cerchio o del giro, il ciclo.
 
Tutti gli scritti mitici e misterici, fanno riferimento a determinati numeri che rappresentano la chiave per interpretare, quello che volutamente era velato. L’Iliade e composta in 24 Canti, l’Odissea è composta in 24 anni entrambi i poemi coprono un doppio ciclo di 10 anni.
 
Ventiquattro sono le ore del giorno divise in due gruppi di 12 ore di luce e 12 ore di tenebre. La Cabala afferma che, 24 sono le Ore durante le quali si compie la Creazione. Plutarco descrivendo la religione di Zoroastro parla di 24 dèi luminosi creati da Horomazes. I Caldei distinguevano, al di fuori del cerchio zodiacale, 24 stelle di cui 12 australi e 12 boreali, chiamate “Giudici dell’universo”. Esseri celesti che secondo la mitologia babilonese e persiana costituiscono la corte celeste. Questi sono i 24 Vegliardi della visione di Giovanni, Il numero 24 è la Tetractis espressa in modo fattoriale cioè 4!=1x2x3x4=24.
 
Il numero 10 è la Tetractis, e non è causale che entrambi i numeri 24 e 10 esprimano una Tetractis. Il ciclo è chiuso dal numero Dieci (9+1=10) che rappresenta il ritorno al centro (l’Uno) e l’inizio di un nuovo ciclo o Era. Espresso come 10 =1+9 rappresenta l’Unità, e la molteplicità, la materia che si differenzia con il cerchio “9”, insieme la perfezione e il compimento.  Infatti, il Pitagorico Filolao sul numero Dieci diceva: “Grande, infatti, è la potenza del numero, e tutto opera e compie, principio e guida della vita divina e celeste e di quella umana”.

[1] A. Morretta, il Quinto Millennio, p.121, Antares-Moizzi Editore.
 
IL MISTERO DELLA GEOGRAFIA OMERICA
 
Sin dai tempi antichi la geografia omerica ha dato motivo di problemi e perplessità: la coincidenza tra le città, le regioni, le isole descritte, spesso con dovizia di dettagli, nell’Iliade e nell’Odissea ed i luoghi reali del mondo mediterraneo, con cui una tradizione millenaria le ha sempre identificate, è spesso parziale, approssimativa e problematica, quando non dà luogo ad evidenti contraddizioni, la conoscenza degli studiosi moderni della geografia narrata nei miti è dovuta ad idee preconcette o pregiudizi[1] storici.
 
Strabone si domanda perché mai l’isola di Faro, ubicata proprio davanti al porto di Alessandria, da Omero venga invece inspiegabilmente collocata ad una giornata di navigazione dall'Egitto. Così l'ubicazione di Itaca, data dall’Odissea in termini molto puntuali – secondo Omero è la più occidentale di un arcipelago che comprende tre isole maggiori: Dulichio, Same e Zacinto – non trova alcuna corrispondenza nella realtà geografica dell'omonima isola nel mar Ionio, ubicata a nord di Zacinto, ad est di Cefalonia e a sud di Leucade. Plutarco, il quale in una sua opera, il De facie quae in orbe lunae apparet, fa un’affermazione singolare: l’isola Ogigia, dove la dea Calipso trattenne a lungo Ulisse prima di consentirgli il ritorno ad Itaca, è situata nell'Atlantico del nord, “a cinque giorni di navigazione dalla Britannia”. E che dire del Peloponneso, descritto come una pianura in entrambi i poemi?
 
Il poeta dell’Odissea non solo conosce il mito degli Argonauti, ma lo inserisce nel Racconto di Odisseo. Omero non fa mai citazioni a caso o per puro gusto letterario, la citazione di Giasone nel Canto XII, 72 e della sua nave Argo e quella fatta nel Canto X 107-8 riguardo alla fonte Artacia (nel paese dei Lestrigoni), che apparteneva al mito degli Argonauti (Apollonio Rodio I 957), sono indicazioni di un sotterraneo collegamento tra i due miti.
 
  • Argo è il nome sia del costruttore sia della barca degli Argonauti;
  • Argo è il nome del cane che attende Ulisse, per un doppio ciclo di 10 anni, per poi morire, alla fine del ciclo dell’Odissea.
  • Arq in Egitto vuol dire terminare completare, nel senso di un ciclo
     
Gli Argonauti erano quegli Eroi che secondo Esiodo appartenevano alla Quarta Generazione o Razza. G. de Santillana e H. von Dechend scrivono che la caduta di Troia significa la fine di una vera e propria età del mondo, specificando che s’intendesse la fine dell’età delle Pleiadi e ciò, fra l’altro, perché Dardano giunse a Troia dopo il terzo diluvio, secondo quanto dice il poeta Nonno.
 
Nessun avvenimento dei tempi eroici, nemmeno l'assedio e la presa di Troia, ebbe più risonanza. Omero applica alla nave Argo, che trasportava gli Argonauti, l’epiteto di memorabile “presente al ricordo di tutti”. Esiodo, nella sua Teogonia, ricorda anch’egli la spedizione di Giasone.
 
Le Argonautiche di Apollonio Rodio e di Orfeo descrivono una geografia fiumi laghi oceani che non concordano con quella dell’attuale geografia del pianeta. I commentatori giudicando non reale bensì favola la geografia mitologica, perché giustamente fanno riferimento all’attuale geografia del pianeta, non fanno uscire la nave dal Mediterraneo, solo che i fiumi e i mari non erano quelli che noi conosciamo.
 
L’ing. Felice Vinci nel suo libro scritto nel 1995 “Omero nel Baltico” prendendo spunto quanto affermato da Plutarco che l’isola di Calipso era a cinque giorni di navigazione dalla Britannia e da quanto scritto da Omero: “Tenere a sinistra l’Orsa andando verso oriente” – “attraversare il mare nebbioso”, narra che i viaggi di Ulisse narrati nell’Odissea siano avvenuti nei Mari della Norvegia. Per quanto riguarda la località dove sorse la città di Troia, l’ing. Vinci è convinto che ci sia stata una trasposizione di località e che Troia si trovasse nel Golfo di Finlandia. Sulla base di precisi e concordanti riscontri testuali, toponomastici, climatici, storici, mitici, linguistici ed appoggiandosi ad alcune tesi di studiosi e accademici (per esempio a quelle del Finley de Il mondo di Odisseo o a quelle del Nilsson, sull’origine nordica dei Micenei), Felice Vinci propone una collocazione nordico-baltica delle vicende narrate nell’Iliade e nell’Odissea, oltre che di alcuni miti greci.
 
Secondo Vinci gli eventi in esse narrati non si sarebbero svolti nel Mar Mediterraneo orientale, ma nei mari dell'Europa settentrionale (Mar Baltico e nord Atlantico). Richard Graves, un’autorità in fatto di mitologia ellenica, aveva situato le avventure di Ulisse nello scenario dell’Atlantico settentrionale e della costa della Norvegia.
 
Queste ipotesi non sono nuove, perché erano già dibattute alla fine dell’ottocento, infatti, la signora H.P. Blavatsky scriveva oltre un secolo e mezzo fa nell’Iside Svelata:
 
È oggi dimostrato che molti di quei miti sono qualche cosa d’altro oltre la fantasia dell’antico poeta. I Lestrigoni, che divoravano i compagni di Ulisse, sono una gigantesca razza cannibale che si dice abitasse, nei primi tempi, le caverne di Norvegia. La geologia ha confermato, con le sue scoperte, alcune affermazioni di Omero considerate semplici allucinazioni poetiche. Il giorno perpetuo di cui godeva la razza dei Lestrigoni indica che essi abitavano il Capo Nord, dove, la luce del giorno è continua. I fiordi norvegesi sono perfettamente descritti da Omero nella sua Odissea, X, 110; e la statura gigantesca dei Lestrigoni e confermata da ossa umane di dimensioni eccezionali trovate in caverna non lungi da quella regione e che i geologi suppongono essere appartenute a una razza estinta molto tempo prima dell’immigrazione ariana. Cariddi, come abbiamo visto. È stata identificata col maëlstron, e le rocce vaganti (Od. XII, 71) con gli enormi iceberg dei mari artici.[2]
 
Omero per Odisseo utilizza l’appellativo ξανθός (biondo), mai utilizzato nell’Iliade, e attribuitogli nell’Odissea (XIII, 397, 431). Athena trasfigura Odisseo togliendogli dalla testa i capelli, che vengono definiti biondi. I capelli biondi sono una caratteristica nordica, non mediterranea. Nell’Iliade Paride aveva i capelli biondi, Achille i capelli biondi, lo stesso si dica di Odisseo.
 
All’inizio del canto XI dell’Odissea, il protagonista Ulisse fa vela verso il misterioso paese dei Cimmeri, perennemente avvolto dalle tenebre.
 
… Spento il giorno, e d’ombra
ricoperte le vie, dell’Oceano
toccò la nave i gelidi confini,
là ‘ve la gente dé Cimmerii alberga,
cui nebbia e buio sempiterno involve.”

(libro XI, vv.15-19, trad. di I. Pindemonte)  
 
Felice Vinci l’autore di Omero nel Baltico, formula una serie di contestazioni alla geografia narrata nei racconti mitici comunemente traslata nell’attuale penisola greca.
 
  • Per Omero il Peloponneso è un’isola pianeggiante e non una penisola montuosa.
  • Omero descrive l’Ellesponto come un vasto mare, non un canale fluviale come lo stretto dei Dardanelli.
  • Per quanto riguarda la Troade, la regione di Troia, l’Iliade la situa lungo l’Ellesponto, sistematicamente descritto come un mare “largo” o addirittura “sconfinato”; è pertanto da escludere che possa trattarsi dello Stretto dei Dardanelli.
  • ulla Troade di Omero aleggia un clima ben strano: la neve cade anche sulla spiaggia, gli scudi si incrostano di ghiaccio, la nebbia è onnipresente, gli eroi vestono pesanti tuniche anche d’estate e non sudano mai.
       
L’ing. Felice Vinci è convinto di aver individuato nella Norvegia il luogo dove si trovava Troia e dove ebbero sia le battaglie epiche e sia i viaggi di Odisseo: ha individuato la Scheria – la terra dei Feaci, in Norvegia: il Peloponneso e Itaca nelle isole occidentali della Danimarca; la Troade in Finlandia, sulle sponde di quello che in fondo è il Mediterraneo del Nord: il Baltico.
 
Apollonio Rodio che aveva avuto modo di consultare antiche pergamene e carte geografica conservate nella biblioteca di Alessandria[3], descrive nelle Argonautiche un’altra geografia attinta dalle memorie mitiche, provenienti dai sacerdoti iniziati ai sacri Misteri. Le Scuole di Sapienza in passato s’identificavano completamente con le Scuole Misteriche. Anticamente Scienza, Astronomia, Filosofia, Etica, formavano un corpo unico d’insegnamento che era impartito a poche persone segretamente negli adyta dei Templi.
 
Nelle Argonautiche è scritto che la nave Argo di Giasone entrò profondamente nel corso del fiume Eridano, là dove un tempo Fetonte, colpito al cuore dal fulmine ardente, e bruciato a metà, cadde dal carro del Sole nelle acque di questa profonda palude, ed essa ancor oggi esala dalla ferita bruciante un tremendo vapore. Il mito narra che il re degli Dèi, Zeus con la scusa di spegnere l’incendio di Fetonte decise di provocare un diluvio universale.
 
Apollonio Rodio scrive: “Usciti dal fiume Eridano, avanzarono nei laghi tempestosi, che si stendono all’infinito per le terre dei Celti. Qui avrebbero avuto una sorte infelice: giacché uno dei bracci portava in un golfo d’oceano e, senza saperlo, stavano per entrarvi, e non ne sarebbero usciti a salvamento”. Dalla descrizione di Apollonio il fiume non è l’attuale Po né il Rodano.
 
Questo fiume nasce agli estremi confini del mondo, dove sono le porte e le sedi della Notte, e di là si riversa da un lato alle coste d’oceano, da un altro nel mare Ionio, da un altro ancora nel mare sardo, nel suo golfo immenso con sette bocche.
 
Si afferma che un ramo andava a confluire in grandi laghi tempestosi e poi nell’oceano nordico dove non c’era salvezza per l’equipaggio, mentre un altro ramo scendeva verso sud il Mar Ionio e un altro verso il mare della Sardegna.  
 
A differenza di Felice Vinci seguendo le indicazioni dei poemi mitici ed epici colloco le vicende in un periodo antidiluviano con una geografia diversa dall’attuale.  

[1] Il pregiudizio è un giudizio espresso prima di avere a disposizione tutti gli elementi necessari a formulare il giudizio: è un giudizio per la maggior parte delle volte errato.
[2] H.P. Blavatsky , Iside Svelata,  I, 549.
[3] Nel 330 a.C. un incendio distrugge la grande Biblioteca di Persepoli. Nel 48 a.C. fu incendiata per ordine di G. Cesare la Biblioteca di Alessandria d’Egitto che conteneva ben 700.000 volumi che racchiudevano il sapere le conoscenze di tutti i popoli. Una tradizione orale narra che le pergamene più preziose, protette in cilindri ignifughi, furono asportate e nascoste in tutto il Medio Oriente. La Biblioteca di Cartagine era famosa come quella d’Alessandria e se non fosse stata incendiata dalle truppe di Scipione, l’umanità avrebbe avuto a disposizione un’infinità di manoscritti, papiri, tavolette cuneiformi. Lo storico romano Appiano afferma che Cartagine fu fondata 50 anni prima della caduta di Troia.
 
IL FURTO O RAPIMENTO DI ELENA
 
Euripide[1] e i Kypria (Cipria) narrano che Zeus e gli Dèi si sarebbero serviti della bella Elena per purificare la terra dai peccati dei mortali, provocando una guerra anziché un Diluvio. La terra soffriva troppo sotto il peso degli uomini, diventati troppo numerosi e Zeus decise di provvedere a un suo alleggerimento. Alla stessa causa divina risaliva anche la guerra tebana.
 
Scrive Karóly Kerényi in “Miti e Misteri” che Elena secondo la versione pervenutaci dai Kypria era figlia di Zeus e di Nemesi. Elena, nacque dalla “possente necessità” di un dio (Zeus) di “sedurre” la Necessità (Nemesi), affinché generasse “la bellezza”. Il frutto nato da questa impresa fu causa di uno dei conflitti più grandi che si verificarono nella storia dell’antichità, la guerra di Troia. Guerra che rimase unica sia per i preparativi, che per l’estensione di tempo, nonché per la grandezza degli Eroi che vi parteciparono, e per gli Dèi che furono coinvolti in una sorta di guerra intestina.
 
Rudolf Steiner afferma che nell’antichità la saga di Elena aveva due versioni: una essoterica e una esoterica. Omero, essendo un iniziato, era a conoscenza del contenuto esoterico, ma nei suoi poemi ci ha dato soltanto la versione essoterica.
 
In una raffigurazione etrusca su un vaso di ceramica del VI sec a.C. è ribaltata la comune concezione della voluttuosità del giudizio sulla bellezza delle tre dee: “Vediamo non un giovane nella solita posa languida di un perfetto damerino, ma un Paride allarmato, che il dio Hermes – guida delle anime nell’aldilà – afferra per un polso per costringerlo a svolgere il suo compito”.[2]
 
 

Figura N. 1. Il giudizio di Paride[3]
 
La figura è inequivocabile, Hermes obbliga al giudizio Paride, che a sua volta appare spaventato dalle conseguenze del suo gesto. Paride fu incaricato o costretto di stabilire a chi dovesse essere assegnata la mela d’oro che si narrava proveniva dal Giardino delle Esperidi. Il mito narra che in questo Giardino cresceva un Albero i cui frutti sono le mele d’oro cui faceva la guardia, un serpente. La mela è il simbolo della conoscenza misterica custodita da un dragone o da un serpente: il Guardiano di Soglia. La morte attende gli indegni che si avvicinano all’albero del mistero.
 
Athena offrì al giovane la vittoria, la potenza delle armi, Era offrì il potere di regnare sui popoli, Afrodite, in cambio della mela d’oro, offrì a Paride la bella Elena[4]. Il gesto è stato sempre interpretato come voluttuoso, perché è la dea dell’Amore che offre a Paride, un suo alter ego, la bellezza femminile incarnata in Elena. La caratteristica peculiare di Paride è la sua bellezza: mentre cresceva sull’Ida Paride era divenuto bellissimo. Darete Frigio sostiene che Alessandro (Paride) fosse bianco di incarnato, alto, coraggioso, con occhi bellissimi, chioma fluente e bionda, viso grazioso, voce soave, rapido, desideroso di potere.
 
«Bellezza è verità, verità è bellezza,
questo solo Sulla Terra sapete,
ed è quanto basta.»
(John Keats, Ode on a Grecian Urn, vv. 49-50)
 
L’identificazione del bello con il vero di Keats risale ai tempi della Scuola di Atene; già Platone asseriva che le idee sgorgate dall’Iperuranio fossero “il vero” e, di conseguenza, il “bello”: bellezza quindi nella forma assoluta e primitiva.
 
La personificazione della Sapienza in una figura femminile è tipica delle organizzazioni misteriche, non per nulla il significato del nome Elena è splendore, vigore del Sole, fiaccola. Il rapimento e lo spostamento a Troia della bella Elena, l’infedele moglie di Menelao è un’allegoria su chi deve possedere la scienza segreta.
 
Ma quando essa appare (ai Troiani) accompagnata dalle sue due fanciulle … avvolta in un luminoso velo bianco, gli anziani esclamano tra di loro: non è una Nemesi … essa è, infatti, come una delle dee immortali[5].
 
Elena avvolta nel luminoso velo bianco, appare per quello che è, una Dea. La personificazione della Sapienza in una figura femminile è tipica delle organizzazioni misteriche anche quelle più recenti, come i Fedeli d’Amore, dove la conoscenza intuitiva diviene l’Amata.
 
La nascita e la morte di Paride sono avvolte dal mito. Apollodoro[6], narra che quando Paride nacque, Priamo, lo affidò a un servo che lo abbandonasse sul monte Ida[7], dove poi in seguito lo andarono a cercare le tre dee per la disputa della mela d’oro. Il bimbo fu nutrito da un’orsa per cinque giorni. Fu allevato da un pastore che lo nominò Paride e in seguito gli diede il soprannome di Alessandro, perché respingeva gli assalti dei banditi, perché era un guerriero. Il mito greco afferma che anche Atalanta fu anch’essa abbandonata su un monte e allevata da un’orsa inviata da Artemide[8]. La giovane crebbe come una vergine guerriera, e come una temibile arciera come la sua protettrice, Artemide. Chiunque voleva unirsi a lei in matrimonio doveva riuscire a batterla in velocità, pena la morte per mezzo delle frecce di Atalanta. Un pretendente riuscì a sposarla con l’inganno perché durante la corsa, lasciò cadere per terra tre mele d’oro donate da Afrodite[9]. Nuovamente compaiono le mele d’oro e Afrodite come per Paride. Il re mitico saggio e guerriero della tradizione occidentale è Artú, il cui nome deriva da quello dell’orso arth, e più precisamente è identico a quello della stella Arcturus. In Scozia il nome di famiglia Mac-Arth, significa figlio dell’orso e indica l’appartenenza ad una casta guerriera[10]. Artú è in relazione come Paride con il numero cinque, perché era figlio di Pendragon, il quinto dragone, un dragone custodiva l’albero delle mele d’oro.
 
Paride, in seguito, conobbe sul monte Ida la ninfa Enone la ninfa delle fonti, istruita nell’arte della medicina, che divenne sua moglie. Paride aiutato da Apollo scoccò la freccia fatale che avrebbe colpito a morte Achille. Dopo la caduta di Troia, Paride fu colpito a morte da Filottete[11] con una delle frecce avvelenate di Eracle e si fece portare sul monte Ida. Gli antichi identificavano la freccia col fulmine: si pensi a Zeus folgoratore.
 
Apollodoro[12] narra che per nove giorni Paride fu ospite a Sparta di Menelao, al decimo giorno fuggì con Elena. La guerra di Troia sotto l’influenza di Ares il dio della guerra, andò avanti senza vincitori e vinti e si concluse al decimo anno, che nel linguaggio misterico stanno ad indicare un ciclo completo, un periodo dominato dai guerrieri, caratterizzato da una caduta nella brutalità, in azioni sanguinarie.
 
Achille, l’uomo in cui agisce l’ira divina, muore a Troia e muore con Troia. Il futuro appartiene non all’uomo dell’ira, ma all’uomo dell’intelletto, Odisseo.
 
Il ritorno di Odisseo con le mani sporche di sangue dovute all’eccidio di Troia, dura 10 anni sotto l’influenza non più del dio della guerra, ma del Signore della Conoscenza misterica, Hermes e di Dee personificazioni della Sapienza.

[1] Euripide, Oreste, 1639-42.
[2] Joseph  Campbell, Mitologia Occidentale, Oscar Mondadori, pag. 187.
[3] Vaso etrusco, VI secolo a.C., Museo del Louvre.
[4] La mela rappresenta la conoscenza segreta, la Gnosi, la Sophia degli Gnostici. Al tempo degli Gnostici, si narra di una storia fra Simone lo Gnostico e la bella Elena, che si diceva essere la centesima incarnazione di Elena di Troia che agli inizi degli Eoni era Sophia.
[5] Károly Kerényi, Miti e Misteri, La nascita di Helena, p. 52.
[6] Apollodoro, Biblioteca, Libro III, 5.
[7] Apollodoro scrive che quando Ecuba fu sul punto di dare alla luce il secondo figlio, sognò di partorire un tizzone acceso e di portarlo in giro per la città sino ad incendiarla.
[8] Le Orse erano sacre ad Artemide.
[9] Apollodoro, Biblioteca, Libro III, 2.
[10] R. Guénon, Simboli della Scienza Sacra, Il Cinghiale e l’Orsa.
[11] Un altro dei r pretendenti alla mano di Elena.
[12] Biblioteca, Epitome, 16, 3.
 
LA   FIGURA FEMMINILE  NEI MISTERI
 
K. Kerényi, scrive che per quanto riguarda i Misteri Kabirici, la maggior parte del materiale storico-religioso, non si trova in Samotracia, ma presso Tebe. Il santuario dei Kabiri si trova procedendo da Tebe verso nord fino a giungere ad una località misticamente chiamata la pianura dell’aurora.  L’età di costruzione del più antico tempio di pietra, rimesso alla luce, è il sesto o al più tardi l’inizio del quinto secolo avanti Cristo.
 
Nella prima versione del mito della fondazione del santuario dei Kabiri presso Tebe, si racconta che in quella regione anticamente ci fosse una città abitata dai Kabiri (Pausania, IX, 25). Da uno di questi abitanti Prometeo, il più venerabile fra tutti i Kabiri e a suo figlio Aitnaios, si recò Demetra e affido loro i sacri Misteri. La Grande Madre assunse il nome di Demetra Kabira. Pausania, vincolato dal giuramento del silenzio, fa un discorso velato, comprensibile solo a coloro che sanno leggere fra le righe. L’altra versione del mito narrata da Pausania, dice che dopo che la città kabirica fu abbandonata dai Kabiri, il culto segreto cessò. Furono Pelarge e suo marito a restaurare il culto segreto, in una località detta Alexiarus. In base al testo di Pausania bisogna ammettere l’esistenza anche di un luogo d’iniziazioni più antico, un telesterion detto Alexarius, certamente non costruito ancora in pietra, che si doveva trovare al di fuori dei limiti dello storico santuario di pietra. Di questa Pelarge Pausania racconta che, al tempo dell’invasione argiva, si mise alla guida dei Pelasgi e li condusse al sicuro in un certo posto, dal nome Alexarius, cioè «che tiene alla larga Ares». Se Ares è in relazione col pianeta Marte, Pelarge lo è verso il pianeta Venere, la Stella Mattutina.
 
Era essa (la dea Cicogna) ad elevare l’uomo guerriero e propagatore di morte alla funzione, alla dignità e alla coscienza di originatore di vita. A ciò può alludere il nome del luogo d’iniziazione della Pelarge, “Alexiarus”, “allontanatore del dio della guerra”. Gli archetipi degli uomini iniziandi kabiri avevano ugualmente qualcosa dell’assassino, qualcosa da espiare, come tutti i guerrieri.[1]
 
Pelarge è il nome dato alla dea fondatrice dei culti segreti. Il nome Pelarge è la forma femminile di pelargos (πελαργός), la Cicogna letteralmente, «mantello di luce argentea»: πελλός + αργός. Dea Bianca, la chiamavano in Asia Minore. Oppure la potremmo chiamare: la Velata dal Mantello del suo stesso splendore. Lei, la misteriosa Macchina dei Misteri[2].
 
In una celebre raffigurazione vascolare, Eumolpo, il fondatore dei Misteri di Eleusi, ha accanto a sé un cigno. Il culto segreto dei Kabiri[3] aveva a che fare con le origini della vita fisica, nelle favole è rimasta l’immagine che sia la cicogna a far nascere i bambini. Si ricorda che sotto forma di cigno Zeus si accoppiò con Leda con Nemesi sotto forma di anatre e da questo accoppiamento nacquero i gemelli e le gemelle divine.
 
Caratteristici sono sia i temi e gli elementi decorativi, sia la concezione, una stilizzazione che passa nel grottesco o perlomeno lo sfiora. Il gruppo più caratteristico risale almeno alla seconda metà del quinto secolo; i motivi delle raffigurazioni sono certamente più antichi: gli uccelli palustri – dalle gambe lunghe e corte – che ne fanno parte, continuano una tradizione arcaica.
 
In un gruppo di raffigurazioni vascolari ritrovate nel Kabiron, si vedono dei nani, con enormi falli, insieme a delle gru, ad uccelli acquatici. Un’iscrizione ad Imbros oltre ad enumerare i Kabiri, menziona anche i Pataiki, i nani o pigmei. Il nano, rappresenta il primitivo elemento maschile attaccato alla terra, gli uccelli acquatici rappresentano il potere in grado di librarsi verso il cielo, l’elemento femminile iniziatore femminile che deve innalzare verso il cielo l’elemento maschile attaccato alla terra. I pigmei dagli enormi falli sono gli uomini primitivi sorti dalla terra come dei falli, dei funghi.
 
                                                                           
Figura N. 1. Pitture del Kabirion
 
Nei Misteri Kabiri, gli imperfetti erano rappresentati come dei nani esageratamente fallici. Il rozzo e selvaggio elemento maschile, nano attaccato alla terra, doveva venir elevato in regioni più alte per opera di un’alata femminilità[4]. È tipicamente orfica e misterica l’usanza di deridere i non iniziati, per affermare che essi sono uomini inferiori, primitivi ed imperfetti. In ogni caso in tutti i culti misterici, l’iniziando viene messo in situazioni penose e critiche, viene tormentato e deriso. L’iniziando, descritto nano e virile, esprime aggressività distruttrice e solo in secondo aspetto l’uomo fecondo.
 
Le donne dalle belle trecce e dai riccioli belli[5], simili a dee come Circe, Calipso, Nausicaa, frequentate da Odisseo prima di ritornare con l’aiuto di Atena nelle braccia di Penelope, sono in relazione con l’aspetto misterico della Sapienza incarnata da Atena. In contrapposizione alle dee dai riccioli belli abbiamo Medusa raffigurata come un mostro con i capelli serpentini, che rendeva pietra chiunque ne incrociasse lo sguardo.
 
K. Kerényi, Miti e Misteri, afferma che nei Misteri Kabiri, il compito della donna era di elevare l’uomo guerriero, tanto è vero che gli archetipi di uomini nelle pitture vascolari del Kabiron di Tebe, avevano qualcosa dell’assassino, qualcosa da espiare come tutti i guerrieri, come l’odiato Odisseo dalle mani sporche di sangue.
 
L’Iniziatrice raffigurata era la dea Pelarge, la dea Cicogna, nel nome della moglie di Odisseo, Penelope, Penepolos ritroviamo l’anatra, l’uccello acquatico, un alter-ego della Cicogna Pelarge. Leda o Nemesi, la madre della bella Elena era la dama del cigno o di Zeus.
 

 
Figura N. 2. Pelarge la cicogna

[1] K. Kerényi, Miti e Misteri, cap. I Misteri dei Kabiri.
[2] https://lartedeipazzi.blog/2017/05/19/la-leggenda-della-cicogna/
[3] Secondo alcuni sono in numero di quattro, secondo altri in numero di tre, in realtà sono sette. Il nome dei quattro conosciuti sono: Axieros (Demetra), Axiokersa (Persefone), Axiokersos (Ades), Kasmilos (Hermes). Il significato di Kabiro implica generazione fisica, infatti la parola “sesso”, in principio era ax, poi col passare del tempo divenne sex.
[4] K. Kerényi, Miti e Misteri: I Misteri dei Kabiri.
[5] Anche l’Aurora è descritta da Omero come una dea dai riccioli belli.
ELENA E PENELOPE
 
Elena è dunque un personaggio molto legato al mondo palustre, come lo è la cugina Penelope, ed entrambe hanno elementi che le ricollegano alla Dea iniziatrice Pelarge e più in generale alle antiche Dee Madri. Entrambe le cugine sono legate a figure di Eroi guerrieri.
 
Elena è il motore nascosto che nel ciclo di 10 anni dell’Iliade porta la distruzione di un mondo, un Kósmos, quello troiano. Penelope all’opposto, è il motore che nel ciclo di 10 anni dell’Odissea riporta l’Eroe maestro d’inganni a casa come un uomo nuovo.
 
In Omero Elena e Penelope sono cugine, un segreto legame le unisce. Nell’Iliade e nell’Odissea, non meno che in altri testi antichi, i nomi sono delle chiavi fondamentali di lettura. Nel nome si esprimeva oggettivamente l’essenza, la caratteristica fondamentale della persona da esso designata.
 
I Pitagorici insegnavano che le menti, le azioni e i successi degli uomini riuscivano conformi ai loro nomi, al loro genio e al loro destino. Platone raccomandava la massima circospezione nell’imporre i nomi.
 
Nell’antica Grecia la pratica dell’Isopsefia accomuna parole di significato diverso, mentre il numero che le rappresenta, può essere definito “psefia”. Isopsefia era un particolare sistema di calcolo, derivato direttamente dalla psefia (conteggio), che consisteva nell’attribuire una quantità numerica a ciascuna delle lettere dell’alfabeto greco. Si procede sommando i valori numerici di una parola ottenendo il valore numerico a essa corrispondente.
 
Elena Ἑλένη 5 lettere
 
Il numero 5 era anche chiamato dai Pitagorici gemello, perché è in grado di dividere in due parti uguali il 10 che non è divisibile altrimenti. Il numero 5 è legato al concetto di giustizia tramite la bilancia pitagorica. Era anche chiamato nemesi, in effetti questa distribuisce equamente servendosi del numero 5. Nemesi è la Madre di Elena. Il numero cinque è anche il numero dell’uomo, il microcosmo, la stella a cinque punte. Quintuplo è il sacrificio, quintupla è la vittima, quintuplo è l’uomo e quintuplo è tutto ciò che esiste[1].
 
Valori isospefici di Elena: epsilon 5 lambda 30 epsilon 5 nu 50 eta 8.
 
Sommando 5+30+5+50+8 = 98 riducendo 98=9+8=17=1+7=8
 
Il 17 è il settimo numero primo, ed è anche la somma dei primi Quattro numeri primi 17 = 2+3+5+7 = 1p+2p+3p+4p, una forma diversa della Divina Misura, e la Tetractis dei numeri primi.  I numeri primi sono detti incorruttibili perché possono essere divisi solo per se stessi e per l’Uno da cui tutto procede.
 
L’ulteriore riduzione teosofica del numero 17 ci porta al numero Otto che, rappresenta il doppio quadrato, i quadrati dello Spirito e della Materia, il processo mediante il quale lo Spirito discende nella Materia, e questa risale verso lo Spirito.
  
Tra le diverse etimologie del nome Penelope, la più accreditata dalla tradizione filologica è che provenga da πηνέλοψ, termine che indica un tipo di anatra. Equiparando esotericamente Penelope a Penelos, cioè Anatra.
 
Penelos (Anatra) Πηνέλοψ  7 lettere
 
I Pitagorici chiamavano il 7 Atena e giusto momento, Atena perché questo numero è vergine senza vincoli matrimoniali, né è stato generato da madre, che è come dire da numero pari, né da padre come dire da numero dispari, bensì dalla parte sommitale cioè dalla testa, del Padre di tutti, cioè dall’Uno. Come Minerva-Atena la Dea della Sapienza, le profetesse nell’antichità erano delle vergini, perché la vergine ha il dono della veggenza e della chiaroveggenza, la lingua greca come quella italiana designa con la stessa parola κόρη, sia la vergine sia la pupilla dell’occhio. Il numero Sette per i Pitagorici era la Monade sul piano della manifestazione. Atena è la dea che guida e protegge Odisseo.
 
Valori isospefici: pi 80 eta 8 nu 50 epsilon 5 lambda 30 omicrom 70 psi 700.
Sommando 80+8+50+5+30+70+700 = 943
riducendo 943= 9+4+3=16 = 1+6=7
 
I Pitagorici affermavano che 16 è l’unico quadrato ad avere uguali perimetro e area. Per i Pitagorici la superficie rappresenta i diritti, e il perimetro, i meriti. Il numero 16 è la somma dei primi Quattro numeri dispari: 1+3+5+7 = 16, la Tetractis dei numeri dispari o spirituali.
 
La successiva riduzione teosofica del numero 17 ci porta al numero 7 il “veicolo di vita”, perché contenitore della Vita stessa essendo un Quaternario, la base, il contenitore, il corpo, più una Triade, lo Spirito, la Vita che anima la Materia. Il cuore dell’uomo che è considerato la dimora dello Spirito è segnato da una Croce. Nel cuore, vi sono Quattro cavità inferiori e Tre divisioni superiori, per un totale di Sette.
  • Elena e Penelos esprimono due Tetractis, la prima di numeri incorruttibili o primi, la seconda di numeri dispari o spirituali.
  • La somma delle lettere dei nomi Elena e Penelos è 5+7=12 i segni dello zodiaco e le ore della creazione.
 
Considerando  il nome di Penelope anziché Penelos.
 
Penelope Πηνελόπη  8 lettere
 
Filolao afferma che gli enti acquistino le proprietà dell’amore e dell’amicizia della prudenza e dell’inventiva in virtù del numero 8. Il numero Otto secondo Anatolio è chiamato sicurezza e stabilità.
 
Valori isospefici: pi 80 eta 8 nu 50 epsilon 5 lambda 30 omicrom 70 pi 80 eta 8
Sommando e riducendo: 80+8+50+5+30+70+80+8 = 331= 3+3+1= 7
     
  • Il numero 333 è  il 67º numero primo
  • Nel numero 7 ritroviamo Atena la Dea della Sapienza
 
I numeri di Penelope esprimono amore amicizia prudenza sicurezza e stabilità il centro di attrazione verso cui Odisseo si muove nei mari turbolenti. Penelope è anche l’anatra Pelopos, l’iniziatrice dietro cui ci cela Atena. La somma delle lettere dei nomi delle due cugine Elena e Penelope è 5+8=13 è il sesto numero primo. Gli Egizi consideravano il 13 un numero fortunato, 12 erano i gradini della scala che conduceva verso la vita eterna e solo toccando il tredicesimo gradino si passava all’immortalità. Presso gli etruschi le sei coppie divine potevano ritornare all’unità solo rivolgendosi alla tredicesima.  
 
[1] Brhadaranyaka Upanishad, I, 4, 17.
 
ODISSEO IL FIGLIO DELLA LUCE, L’EROE SOLARE
 
“Il Viaggio dove la figlia dell’Alba ha la sua sede e il Sole sorge  
 
I racconti mitici, erano il linguaggio velato degli antichi Misteri destinato ai profani, a coloro che erano fuori delle mura del tempio, una miniera preziosa d’informazioni ora che i Misteri non ci sono più, ma in ogni caso è bene sapere che la chiave d’interpretazione per comprendere il linguaggio misterico va girata sette volte, perciò il personaggio mitico può rappresentare: il Sole serbatoio fisico di forze elettromagnetiche, e generatore del tempo; l’Eroe, l’Iniziato che ripete le gesta del modello celeste in mezzo agli uomini; un Kabiro, un Istruttore un Patriarca[1] ecc. La chiave che andremo a girare riguarda l’uomo incarnato che ripete le gesta di un modello che ha nel cielo il Sole.
 
In questo studio non seguiremo il viaggio di Odisseo attraverso mari e terre fisiche, cioè com’è in questo periodo comunemente intesa termini materialistico geografici, ma il passaggio in uno spazio onirico dal mondo della materia a quello spirituale, fino al reintegro nel divino.
 
L’Iliade e l’Odissea sono i due grandi poemi dell’occidente che rappresentano un’importante polarità: l’Odissea parla di un essere umano: «Cantami, o Musa, che a lungo errò (Ulisse)», mentre l’Iliade parla di una forza impersonale: «Cantami, o Musa, l’ira di Achille». Negli eventi descritti nell’Iliade l’essere umano, è mosso da un impulso di natura, o divino, che lo travolge, che lo rende iracondo. Nell’Odissea, invece, Ulisse è l’uomo che comincia a essere capace introspezione interiore.
 
Quando Odisseo nacque, venne posto sulle ginocchia del nonno materno Autolico, un vecchio ladro che avrebbe detto: “Poiché mi accompagnato qui l’odio di tanti uomini, egli si chiamerà Odisseo[2]. Il nonno non il padre Laerzio impose il nome Odisseo. In greco odyssomenos significa l’odiato, l’odio che Odisseo si attirò contro per le azioni sanguinose intraprese durante la conquista di Troia da parte degli uomini e degli Dèi (soprattutto di Poseidone, signore del mare delle emozioni).                                                
Figura N. 1. Odisseo il guerriero
 
  • La guerra di Troia sotto l’influenza di Ares il dio della guerra, andò avanti senza vincitori e vinti e si concluse al decimo anno.
  • Le vicende narrate nell’Iliade sono dominate dalla figura tragica di Achille, mentre Odisseo vi partecipa con la sua astuzia politica.
  • ODISSEO appare come un maestro di menzogne e inganni, di retorica, di persuasione politica che porta ad un eccidio nato dall’inganno.
  • Il ritorno di Odisseo con le mani sporche di sangue dovute all’eccidio di Troia, dura 10 anni sotto l’influenza non più del dio della guerra, ma del Signore della Conoscenza misterica, Ermes e di donne anch’esse personificazioni della Sapienza.
 
L’Iliade precede l’Odissea, come l’espansione precede la contrazione. Il ciclo dell’Iliade è quello dominato dai guerrieri, caratterizzato da una caduta nella brutalità e da quelle azioni sanguinarie proprie della personalità e della sua espressione. La guerra contro Troia andò avanti senza vincitori e vinti e si concluse al decimo anno con la distruzione della città, simbolicamente un piccolo cosmo. Odisseo percorre entrambi i sentieri, prima il sentiero del guerriero, poi quello della ricerca interiore. Il mondo dell’Iliade dominato dall’azione, dall’astuzia, dalle guerre, dal sangue e termina con la morte di Achille e con un eccidio nato dall’inganno di Ulisse, tanto che egli ebbe il soprannome di odiato.    
 
Dell’uomo ricco d’astuzie cantami o Musa, che a lungo errò dopo che ebbe distrutto la rocca sacra di Troia; di molti uomini le città vide e conobbe la mente,  molti dolori patì in cuor suo sul mare, lottando per la sua vita e per il ritorno dei suoi. Ma non li salvò, per tanto lo volesse e per la loro follia tutti perirono! (Odissea I, 1 – 89, il Concilio degli Dèi)
Figura N. 2. Musa
 
Odisseo (Ulisse) diviene per Plotino e i Neoplatonici l’emblema della sapienza, pazienza, virtù, filosofo capace di spogliarsi della materia. Il Cristianesimo, tramite gli occhi di S. Ippolito vede nell’immagine di Ulisse legato all’albero della sua nave la prefigurazione del Cristo avvinto alla croce; Clemente Alessandrino paragona il suo errare a quello di Israele nel deserto.    
 
L’Odissea è il viaggio nel mondo dell’introspezione, dove la vita è pervasa e compenetrata dalla morte continua, dove ad ogni tappa si prende possesso di un nuovo pezzo di terra, ma la presa è solo psichica, gli opposti qui coincidono. L’Ulisse omerico, torna a Itaca, ma dopo il ritorno, obbedendo alla profezia di Tiresia, con un remo in spalla, riprenderà il viaggio. Itaca non appaga la sua sete, non è quell’Altrove verso il quale tende ogni errante.
Figura N. 3. Odisseo meditabondo
 
Il nome latino di Ulisse è probabilmente formato da oulos, ferita e da ischea, coscia, ad allusione alle ferita provocata alla coscia di Ulisse da un cinghiale. Quando Semele incontrò Zeus rimase folgorata dai suoi fulmini. Per salvare il feto del nascituro dalle fiamme, Zeus nascose Bacco o Dionisio nell’anca, curandolo come in un utero paterno, fino al giorno del concepimento. Il dio Soma, equivalente indiano di Dioniso, in quanto patrono delle inebrianti bevande fermentate a base di miele, fu cucito nella coscia della divinità celeste Indra.  Ulisse per il significato del suo nome (ferito alla coscia) può essere paragonato a Giacobbe che, dopo aver combattuto con l’Angelo al guado dello Iabbok mutò il nome in Israele (colui che lotta con Dio) ma rimase colpito all’anca. Per vent’anni, come Ulisse, Giacobbe era stato tenuto lontano da casa. Anchise, il padre di Enea fu reso cieco o storpio da Zeus, perché si vantò di essersi unito con la dea Afrodite da cui nacque Enea.
 
Odisseo, attraverso il suo nonno materno, l’arciladro figlio di Ermes, discende da tale dio, noto come il patrono dei ladri. Ulisse con Diomede ruba a Troia il Palladio, l’immagine misterica della dea Atena. La mitologia greca menziona grandi ladri: Prometeo, il Kabiro[3] che rubò il Fuoco creatore; Ermes definito come ladro e donatore di beni; Paride che rubò la bella Elena al re di Sparta Menelao.
     
  • Prometeo, il Kabiro, rubò il Fuoco sacro della creazione agli dei per donarlo agli uomini, per questo motivo egli è visto come il benefattore degli uomini. Apollodoro descrive Prometeo che impasta l’argilla e con questa modella il corpo del primo uomo.
  • Ermes, anch’egli un Kabiro è un ladro di anime, poiché la sua funzione di psicopompo è quella di traghettare le anime dal buio del regno dei morti al mondo dello spirito. Ermes era anche un donatore di beni: le offerte di cibo ad Ermes si deponevano alle erme collocate nelle strade, in modo tale che venissero rubate dai viandanti affamati con l’approvazione del dio. Ermes è spesso rappresentato itifallico, quale principio creatore. Sperma[4] è il nome dato nelle rappresentazioni kabiriche al primo uomo procreatore  o spanditore di vita. La parola sperma è formata da erma il nome del monumento fallico di Ermes, una pietra cubica[5] termine, su cui veniva posta una colonna simile ad un fallo.
  • Elena,  rubata da Paride, secondo i Kypria[6], era la figlia della dea Nemesi e di Zeus che si unirono sotto forma uccellesca. Da quest’unione nacquero da due uova due coppie di gemelli: Castore e Polluce, la bella Elena e Clitemnestra la donna assassina. L’Odissea  rammenta Elena in relazione con i gemelli divini, la madre sarebbe Leda anziché Nemesi. Nemesi era rappresentata con un ramo di melo  in una mano e una ruota nell’altra, la ruota rappresentava l’anno solare. Viene narrato che la Dea Eris, la  Discordia, gettò fra le tre Dee una mela d’oro come premio di bellezza, che si diceva che proveniva dal Giardino delle  Esperidi. Il mito narra che in questo Giardino cresceva un Albero i cui frutti sono le mele d’oro cui faceva la guardia un serpente. La mela è il simbolo della conoscenza misterica custodita da un dragone o da un serpente: il Guardiano di Soglia. La morte attende gli indegni che si avvicinano all’albero del mistero.
 
Nell’Iliade e nell’Odissea emerge il legame di Odisseo con Atena, che sarà il filo conduttore dell’Odissea. Nell’Iliade è la Dea ad apparirgli per convincere gli Achei a continuare nell’impresa nonostante il ritiro sdegnato di Achille nella sua tenda; è sempre la Dea ad aiutare Odisseo a battere Aiace nella corsa durante i giochi funebri in onore di Patroclo.
 
Odisseo ruba il simulacro della dea Atena la Sapienza Arcana, ma non lo tiene per sé iniziando un viaggio per mare che termina ad Itaca, quando Odisseo dopo aver individuato e sterminato tutti i suoi nemici che insozzavano la sua casa mistericamente il suo corpo. La successiva purificazione della casa dopo la strage fu fatta da Odisseo con il fuoco e con lo zolfo.
 
La liberazione finale avverrà, quando secondo la profezia di Tiresia, abbandonando l’ultima isola, Itaca, giungerà in un luogo di pace, dove dovrà piantare il remo nella terra, terminando così di viaggiare nel mare dell’emotività.

[1] Osiride, il Sole, è descritto da Plutarco in De Iside, come un Re, un Istruttore, un Legislatore ecc.
[2] Omero, Odissea, 19,43.
[3] I Kabiri erano chiamati i Grandi Dei, i Forti, i cui luoghi di culto erano sempre situati in località vulcaniche. Diodoro attribuisce l’invenzione del fuoco e l’arte di lavorare il ferro. Pausania dice che la divinità kabirica originale era Prometeo. Il culto dei Kabiri il cui ricordo si perde nella notte dei tempi, era legato ai Fuochi Sacri e alle grandi energie vulcaniche, i loro templi erano sempre costruiti in località vulcaniche. Kabeiros significa potente per mezzo del fuoco, naturalmente vulcanico. Il figlio di Prometeo, Aitnaiois o l’Etneo è in rapporto col vulcano del monte Etna. Ad essi è attribuita l’invenzione delle lettere, delle leggi, dell’architettura, ecc.
[4] Lo sperma è il veicolo della vita nel mondo materiale, il mezzo affinché la vita possa rimanere legata alla forma.
[5] I Mussulmani custodiscono una pietra cubica sulla quale sono incise lettere arcane. L’edificio in cui è custodita, la Kaaba, è a forma di cubo. Gli Ebrei custodivano all’interno del Tempio una pietra cubica sulla quale erano incise parole arcane.
[6] I Kypria come poema sono classificati posteriori all’Iliade, ma contengono materiali che si riferiscono ad un nucleo più antico. K. Kerényi, Miti e Misteri, la nascita di Helena.
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Omero nell’Odissea formula 42 volte l’espressione πολύτλαϛ δîοϛ Όδυσσεύϛ “il molto paziente divino Odisseo”. La locuzione paziente πολύτλαϛ è attestata 5 x nell’Iliade, e nell’Iliade[1].
 
Tutti gli Gerofanti e gli Iniziati erano simbolo del Sole del Potere Creatore. Ogni Iniziato sia in Oriente che in Occidente diveniva Figlio della Luce ed assumeva il nome mistico del suo Dio o Istruttore.     In India, il Sole mistico, il dio del Mistero, il Demiurgo è il dio Vishvakarman. Il Rig Veda, il più antico dei Veda dell’India, descrive Vishvakarman, il Costruttore degli Dei, quale Architetto dell’Universo, il quale si offre in sacrificio affichè i mondi possano venire in esistenza. Sacrifica sé stesso imponendosi le limitazioni della materia divenendo l’Agnello sacrificale all’inizio dei mondi, divenendo in definitiva l’Uomo Celeste.
 
La figlia di Vishvakarman, Yoga-Siddha, che vuol dire Sapienza, come la Sophia degli Gnostici, è la moglie di Surya, il sole visibile. La figlia si lamenta col padre per l’eccessiva luminosità del marito, Surya il Sole. Il padre nella sua qualità di Takshaka di intagliatore di legno, o falegname, con una falce taglia al sole una parte della sua luminosità. Surya perde i suoi raggi d’oro e appare come incoronato di nere spine e diventa Vikarttana, che significa spoglio dei suoi raggi.
 
Nei Misteri Indù, il candidato rappresenta il secondo Sole, Surya in terra. Lo Ierofante, l’Iniziatore che assume le veci di Vishvakarman recide i suoi sette raggi d’oro che vengono sostituiti da una corona si spine o da delle punte annerite. A questo punto il Sole privo dei suoi raggi, diviene Vikartana, e il neofita sua controparte in Terra viene fatto scendere nel Pâtâla, le regioni infernali, per la grande prova. Uscendo da trionfatore viene chiamato Gabbastiman, il reintegrato dei suoi raggi[2].
 
L’Odissea è composta di 24 canti che costituiscono una polarità. Nei primi 12 canti Odisseo è il grande girovago mentre gli ultimi12 si svolgono a Itaca. C’è una polarità tra i primi 12 canti e gli ultimi 12. I primi narrano la peripezia dell’uomo nel che esprime il potere della personalità le asruzie gli inganni e la guerra; i secondi narrano il cammino di esplorazione interiore verso il centro dell’essere. La seconda fase avviene a Itaca, e la lotta con i Proci, rappresenta la lotta interiore dell’essere umano con se stesso.
 
Come Ercole anche Odisseo deve superare 12 prove nel suo peregrinare.
  
  1. I Ciconi.
  2. I lotofagi.
  3. Polifemo.
  4. Eolo e l’otre dei venti.
  5. I Lestrigoni.
  6. Circe.
  7. La discesa nell’Ade
  8. Le Sirene, Scilla Cariddi e le Vacche del Sole
  9. Calipso la Figlia del Sole
  10. Nausica e i Feaci
  11. L’Antro delle Ninfe
  12. L’Uccisione dei Proci                       
 
Odisseo è l’Eroe solare, che abbandona la via della guerra e dell’odio che ha caratterizzato la sua personalità nel ciclo dell’Iliade, per spersonalizzarsi divenendo il Signor Nessuno. Odisseo, l’odiato si trasforma in Ulisse, perdendo gradualmente i suoi poteri, i suoi fedeli guerrieri. Scende nell’Ade, agli Inferi, poi dimora per sette anni quale allievo di una dea dai riccioli belli, in un’isola che è detta l’ombelico del mondo. Ritorna alla sua isola e uccide con i dardi (le frecce) gli uomini passionali che insozzano la sua casa e che volevano contaminare il suo talamo costruito nell’albero della Sapienza, nel tronco di ulivo. Infine si unisce con la sua Amata, il Sé spirituale. Ulisse è il Sole in Terra, il simbolo del Sé spirituale, emblema dell’Anima, che con i suoi dardi infuocati uccide le passioni terrestri che sempre sono state un impedimento alla riunione del Sé Unità con il Sé Tutto.
 
Il viaggio di Odisseo iniziato con le vicende narrate nell’Iliade dura 10 più 10 anni, dopo di che si termina con la reintegrazione della coppia Ulisse-Penelope.
 
… come il grande studioso di mitologia classica, il professor Gilbert Muray, sottolineò alcuni decenni fa … all’ultimo giorno dei diciannove anni, che era anche il primo del ventesimo, la Luna Nuova avrebbe coinciso col Sole Nuovo del solstizio d’Inverno; ciò fu chiamato”l’incontro del Sole e della Luna”… Ulisse tornò ad Itaca “proprio al sorgere di quella stella luminosa che annuncia la figlia dell’alba” (Odissea, XIII, 93). Si unì alla moglie “al ventesimo anno” dalla partenza; ossia ritornò quando il diciannovesimo anno fu compiuto e incominciò il ventesimo (Odissea, XXIII, 102, 170; XVII, 327; II, 175). Arrivò con la luna nuova, nel giorno che gli Ateniesi chiamano “vecchio e nuovo”, “quando un mese sta finendo e il successivo sta incominciando” (XIX, 307; XIV, 162). Ma questo giorno della luna nuova era anche il giorno della festa di Apollo, cioè la festa del solstizio (XX, 156; XXI, 258) d’inverno.[3]
 
La stella luminosa che annuncia il ritorno a casa è Venere Afrodite, la dea cui Paride diede la mela. Venere è anche Pelarge kabirica, la dea dei Pelasgi, sia intesi come viaggiatori per mare e sia come costruttori ciclopici. Ulisse è l’Eroe solare e il suo ciclo è quello del Sole che impiega 19 anni il ciclo dell’astronomo Metone, per ricongiungersi con la Luna. Il Sole o Apollo, si narra che ritorna ogni 19 anni nel paese degli Iperborei, la terra imperitura che è in riposo sotto la morsa dei ghiacci. L’incontro Sole-Luna  nuova avrebbe coinciso con il Solstizio d’Inverno, considerato come il Polo Nord nel ciclo annuale.
 
Penelope che aspettava a casa tessendo e disfacendo la tela è l’immagine della Luna che tesse e disfa il globo luminoso nel cielo fino al grande incontro col Sole con la tela disfatta o nel periodo di Luna nuova. Penelope è come Elena, Beatrice[4], è l’anima Psiche, che l’iniziando attraverso dure prove deve infine conoscere, cioè unirsi ad essa. Nell’Odissea è l’incontro con Penelope il vero motivo segreto ed esisten­ziale. Odisseo aveva ad Itaca, 360 maiali (Od. XIV, 20), di cui uno veniva sacrificato ogni giorno. Il viaggio di Ulisse rispecchia quello del Sole attraverso i 360 gradi del cerchio celeste e attraverso i dodici segni, in cui l’Eroe deve superare altrettanti prove. Partito da Itaca con dodici navi, vi farà ritorno solo senza alcuna nave dopo un ciclo metonico.
 
L’Odissea è il poema del viaggio, e Ulisse è il Viaggiatore, egli s’inoltra nell’oltretomba all’estremo Occidente, visita il regno dei morti ed esce dall’estremo orientale “dove la figlia dell’alba ha la sua sede e il sole sorge”. Il dio patrono del viaggio di ritorno di Ulisse o Odisseo è Ermes, la guida delle anime nell’oltre tomba, il dio Kabiro, il Signore della Rinascita e della Conoscenza che può essere appresa solo vincendo la morte da vivi, dagli Iniziati.
 
I precipizi sopra i quali si libra colui che è volatilizzato, possono essere anche gli abissi di incredibili amori, isole e grotte di Circe e Calipso: abissi anche nel senso che lì non si sta fermi su un solido suolo, bensì si è sospesi fra vita e morte.[5]
 
K. Kerényi scrive che il viaggio di ritorno di Odisseo assomiglia a un vagabondare, ma si osserva non vanno in viaggio coloro che vogliono essere liberi da ogni legame con la comunità in cui sono cresciuti e che vogliono essere illimitatamente aperti?  Il viaggio intrapreso da Odisseo è l’umida via del mare percorsa descrivendo curve irragionevoli come tanti serpenti che si piegano, oscillano e tuttavia fanno arrivare dovunque. In un mondo di abissi che si spalancano sotto i suoi piedi, Ulisse è perennemente sospeso fra vita e morte.
 
 
Uomini e maiali

Omero scrive che Ulisse aveva 360 maiali, di cui uno veniva sacrificato ogni giorno. A Demetra venivano sacrificati i maiali. Circe trasformò i compagni di Ulisse in maiali e l’Eroe aveva su una coscia una cicatrice che gli era stata lasciata da un cinghiale o maiale selvatico. Ad Eleusi, il secondo giorno della celebrazione dei Misteri, vedeva i partecipanti dirigersi verso il mare: ogni iniziando, accompagnato da un tutore cerimoniale, portava con sé un maialino che lavava nelle acque e che sacrificava al ritorno ad Atene. I Proci, anagramma di porci o maiali, furono non uccisi, ma macellati da Ulisse al suo ritorno ad Itaca.
 
 
Figura N. 1. Maiale votivo
 
Tra vita e morte oscillano Telemaco il figlio di Odisseo e i Proci, i rappresentanti di un’umanità primitiva, dei crapuloni o maiali che alla fine saranno macellati come bestie da Odisseo, allo stesso modo come venivano uccisi o sacrificati i maiali in onore a Demetra, la dea Madre, colei che aveva donato l’agricoltura (la vita pacifica) e i Misteri (la conoscenza) agli uomini.

[1] https://castellilettere.files.wordpress.com/2018/11/omero-odissea-bur-nozomi.pdf
[2] H. P. Blavatsky, La Dottrina Segreta, VIII, pag. 324.
[3] J. Campbell, Mitologia occidentale, p.189-90.
[4] Dante apparteneva ai “Fedeli d’Amore”, i quali si estasiavano parlando dell’Amata. Le donne dei “Fedeli d’Amore”, qualunque nome esse portassero, Beatrice, Giovanna, Rosa, erano tutte una donna sola o meglio una sola idea. Una Dottrina Segreta della quale l’anima di quegli adepti era innamorata. Tale donna amata servì agli adepti anche per designare segretamente il gruppo interiore al quale essi appartenevano e al quale si dicevano fedeli.
[5] K. Kerényi, Miti e Misteri, Hermes la guida delle anime.
 
PRIMA PROVA - I CICONI
 
Odisseo, dopo la sanguinosa conquista di Troia, parte con dodici navi. La sua prima impresa fu la continuazione di quanto aveva fatto con Troia, volendo assicurarsi le provviste sufficienti per il viaggio, invase la terra dei Ciconi, che a suo tempo erano stati alleati di Priamo. Distrusse la capitale del loro regno, Ismara, uccidendo gran parte dei suoi abitanti. Irruppe anche nella casa di Marone, anziano sacerdote di Apollo, figlio di Evante a sua volta figlio di Dioniso: impietosito, si astenne dal fargli del male e risparmiò anche la sua famiglia.
 
Odisseo ebbe in dono da Marone sette talenti d’oro, un cratere d’argento[1] massiccio e dodici anfore di eccellente vino, tenute riposte in un angolo occulto del cellario, noto solo alla consorte e alla dispensiera, un vino rosso, dolce e profumato, ma così vigoroso da dover essere allungato venti volte con acqua (Od: IX, 200-210). Il vino con il quale in seguito avrebbe fatto ubriacare il ciclope Polifemo.
 
I suoi uomini però misero a ferro e a fuoco la città, nel bottino raccolto anche numerose anfore di vino, che i soldati non tardano a far sparire tra le fauci assetate (Od. IX,45). La gozzoviglia, unita all’esaltazione della vittoria e galvanizzata dall’ebbrezza alcolica, è generale e dilaga davanti alle navi, rendendo gli uomini sordi ai richiami di Ulisse, che avvedutamente li vuole a bordo per ripartire.
 
“Io ho saccheggiato la loro città e ucciso i loro uomini … e ho portato via le loro donne e i loro beni che ho diviso fra noi”[2].  
 
Gli abitanti del luogo inseguirono i razziatori che si erano fermati a gozzovigliare, e ne uccisero sei per ogni nave, in totale 6x12=72 uomini[3]. Quest’ultimo numero ha più significati, uno relativo alla misura del tempo, l’altro relativo ad un significato mistico, in relazione con la morte e il dolore: è il numero dei congiurati che uccisero Osiride e il numero delle spine di cui dovevano comporsi la corona boreale e quella posta sul capo di Gesù. La prima prova è un fallimento, l’uomo non ha ancora compreso che deve cambiare vita, perché è sulla via del ritorno.
 
 
Figura N. 1. L’azione del vento di Borea
 
Zeus, la legge inflessibile, lo punisce, inviando contro le navi, un forte vento di Borea[4] che le ridusse a malpartito. Le navi furono sospinte senza controllo per nove giorni e portate oltre i limiti del mondo conosciuto.
 
 
Il significato del numero nove
 
La battaglia fra gli Dei dell’Olimpo si conclude in Nove giorni con la caduta dei Titani sconfitti nelle profondità del Tartaro. Nell’Iliade. Omero lascia per nove giorni insepolti i figli di Niobe uccisi dalle frecce di Apollo e Artemide: il poeta racconta che solo alla fine del nono giorno, all’inizio del decimo, gli Dei seppellirono i figli di Niobe. Nove, è il numero della circonferenza, che caratterizza il ciclo temporale, in questo caso il periodo di esistenza concesso a questo particolare gruppo etnico. I numeri sacri vanno da uno a nove, il dieci (9+1 = 10), rappresenta il ritorno al centro, l’Uno, l’inizio di un nuovo ciclo. Il cerchio, simbolo del tempo ciclico e di ogni forma manifestata, sia essa un atomo o un sistema solare, è diviso in 360 gradi. Il numero del tempo ciclico è nove: 360 = 3+6+0 = 9. Il ciclo di nove giorni, nove anni, si ripete, in questo caso è l’azione del Pneuma o Spirito che conduce i viaggiatori lontani dal mondo sanguinario.

 
IL MISTERO DEL DOLCISSIMO VINO
 
Odisseo ebbe in dono da Marone sacerdote di Dioniso dodici anfore di dolcissimo vino e sette talenti d’oro. I grandi Misteri si celebravano ad Eleusi sette mesi dopo i Piccoli Misteri, nei mesi di settembre ottobre nel periodo della vendemmia. Nei Misteri, Demetra era rappresentata con la spiga di grano in mano e Bacco e Dionisio con un grappolo d’uva: la fermentazione del mosto in vino alludeva al mistero della manifestazione dello Spirito. Lo Gerofante, il Pater piantava una vigna. Ermete dice che Dio ha piantato una vigna. Nella Cabala ebraica, l’antico degli Antichi, pianta una vigna e lo Spirito del Re Messia è rappresentato mentre lava le sue vesti nel vino che viene dall’alto, fin dalla creazione del mondo. Giovanni, nel Quarto Vangelo fa dire a Cristo: “Io sono la vera vite … voi i tralci”. Nel Codex Nazareno, sette vigne sono create dalla divinità. Noè, quando scende dall’arca dopo il Diluvio pianta una vigna. La vigna è il simbolo dell’umanità creata, la vite significa la Vita.
 
Nell’inno omerico a Dioniso, si narra di marinai Tirreni che, navigando “sul mare color del vino”, con una nave ben fornita di remi, avevano rapito il dio per andarlo a vendere fino alle terre degli Iperborei. Dioniso, allora, prese l’aspetto di un leone, inondò di vino la nave sulla quale i Tirreni navigavano, avviluppò le vele con piante di vite, e mutò in delfini i pirati che atterriti si buttavano in mare. Dioniso salvò solo il nocchiero perché era stato l’unico ad opporsi al suo rapimento.
 
 
Figura N. 2. La nave di Dioniso con l’albero dai Sette frutti
 
L’antico dipinto vascolare di Exekias specifica l’evento ritraendo Dioniso barbuto sdraiato su una nave nera dalla vela bianca, in un cerchio di color rosso vino, un oceano in cui nuotano Sette delfini e dove l’albero della nave si è trasformato nell’albero del mondo raffigurato con un triplice fusto di vite[5] che porta in totale Sette frutti, suddivisi su quattro rami[6]. Sette talenti d’oro, sette mesi tra i Piccoli e Grandi Misteri, sette delfini che nuotano nel mare, l’albero della vite con sette frutti. Sette è il numero che contrassegna il Mistero, dunque la suprema Iniziazione. Dioniso in alcuni miti figura come figlio di Persefone e di Ades, il dio del mondo sotterraneo. Apollo assunse le caratteristiche assumendo l’epiteto di Delfinio. “Nulla è più vicino alla natura divina del delfino” (Oppiano: Alieutica 1,647). Nel mito del rapimento di Dioniso da parte dei pirati, questi, una volta sconfitti dal dio, vengono trasformati in delfini e gettati nel mare; il mare della manifestazione terrestre. A proposito di Dioniso ripetiamo come lo studioso K. Kerényi lo definì: “archetipo della vita indistruttibile”. I sette delfini simboleggiano le sette razze o generazioni degli uomini insegnate nel corso dei Misteri.
 
Odisseo, come Dioniso, naviga per i mari con una nave nera dalla vela bianca portando con sé un otre pieno di dolcissimo vino datogli da un sacerdote di Apollo.  

[1]  L’argento è collegato alla Luna, la Dea Madre e cui seni e più spesso l'utero, sono correntemente assimilati ad un cratere, ossia ad una coppa.
[2] Odissea, Libro Nono 40 – 49.
[3] Come i pontefici di Iside, quelli di Mosè dovevano indossare sopra la veste bianca, un’altra (piviale) sopra cui erano attaccati 72 piccoli campanelli d’oro.
[4] Borea, il Vento del Nord. Nel mito pelasgico della creazione, il Vento del Nord è raffigurato come un Serpente fecondatore che s’unisce alla Dea di Tutte le Cose, che si trasforma in una colomba e depone l’Uovo Universale.
[5] L’albero è visualizzato come il caduceo, una parte centrale diritta attorno alla quale s’intrecciano due lignei sentieri.
[6] Anticamente il tempo era suddiviso in lunazioni e le cerimonie erano celebrate in corrispondenza di determinate fasi della luna; anche quando l'anno solare fu calcolato in 364 giorni più qualche ora, esso fu diviso in mesi, cioè in cieli lunari. I mesi erano di 28 giorni e la settimana di 7 giorni era l'unità del mese lunare; poiché l’anno di 364 giorni è divisibile per 28, il succedersi delle feste popolari era regolato dal succedersi dei mesi, che erano non 12 ma 13. I giorni della settimana erano affidati alla tutela dei Titani, il Sole passava attraverso 13 fasi mensili che iniziavano con il solstizio d’inverno.
SECONDA PROVA - I LOTOFAGI
 
 
Al decimo giorno, i viaggiatori approdarono nella terra dei Lotofagi, tre degli uomini di Odisseo mandati in ricognizione, mangiarono offerti da alcuni abitanti i dolcissimi fiori di loto, i fiori della pianta dell’oblio. Per questo Odisseo dovette imbarcarli a forza e prendere subito il largo per evitare che tutto l'equipaggio, cibandosi di loto, dimenticasse la patria e volesse fermarsi in quella terra Omero narra che la dea Gea (la Terra) per amore di Ades, signore del mondo sotterraneo, fece spuntare dalla terra un narciso, un fiore a sei petali, meraviglioso dal profumo inebriante, come quello dei fiori di loto.
 
Il loto è un fiore che nasce e vive nell’acqua, elemento che rappresenta l’emotività, il desiderio di esistenza nella forma. I Lotofagi si nutrivano di questo fiore che causava l’oblio, permetteva di dimenticare e consentiva di vivere senza ricordi della loro origine, con un unico scopo: l’attaccamento ai beni materiali.
 
Gli uomini di Odisseo, nutrendosi del loto, non ebbero più desiderio di tornare a casa. Quando Persefone presa dal desiderio di possederlo, stese le mani verso il fiore, la terra si spalancò e da una voragine uscì Ades che rapì la giovane, per farne la regina dei mondi sotterranei. La voragine si chiuse su Persefone, e la imprigionò come in una bara. Il ratto di Persefone è la caduta di Psiche nella forma. Plotino, diceva che il nostro corpo è il vero fiume Lete, il fiume dell’oblio, perché le anime immerse in esso dimenticano tutto. La caduta nel mondo della generazione e nella forma è descritta come la via di sinistra, la via che porta all’oblio della propria origine divina. La via dell’Iniziazione nel linguaggio e nell’esperienza misterica era percorsa da colui che era morto per il mondo esterno, il Defunto del linguaggio misterico egizio e greco. Secondo l’insegnamento di Orfeo, appena entrato nell’Ade, il viaggiatore l’iniziando, scorge il Lete o fiume dell’oblio, ove non v’è ricordo della vita.
 
E troverai alla sinistra della casa di Ade una fonte, e accanto un bianco cipresso diritto: a questa fonte non accostarti neanche nelle vicinanze.[1]
 
La fonte di sinistra alimenta la sete del desiderio di una vita fisico, questa è la fonte dell’oblio, e come dopo aver bevuto come Demetra la bevanda d’orzo, si dimentica la propria origine divina. Platone, nel mito di Er, scrive che tutte le anime, prima di rientrare in un nuovo corpo, stazionano nel campo dell’oblio.
 
Virgilio scrive che le anime prima di lasciare l’Ade e di rinascere in corpi umani, bevono la magica pozione che cancella in esse il ricordo della passata esistenza. Nella lamina orfica di Petelia alla fonte dell’oblio del Lete si contrappone la fredda sorgente delle Mnemosine. Odisseo ricondusse i suoi uomini piangenti alle navi, li incatenò ai banchi e ripartì in fretta, abbandonando la terra dell’oblio.

[1] Lamina orfica ritrovata a Petelia.
TERZA PROVA - POLIFEMO
 
Odisseo e la sua flotta di dodici navi approdarono nella terra dei Ciclopi, ingiusti e violenti, un’isola fertile, “né vicina, né lontana”, dove viveva Polifemo, il gigante dall’unico occhio, figlio di Poseidone.
 
Euripide scrisse un’opera satirica intitolata Ciclope, i cui interpreti erano Polifemo, Odisseo e Sileno colui che ha cresciuto Bacco. Sileno inizia lamentandosi:
 
O Bromio (Dioniso), per causa tua quante traversie sto passando … Era ti scatenò contro i pirati tirrenici, una brutta razza, perché ti vendessero in lontane contrade. Appena saputa la cosa, mi misi in mare, con i miei figli, per rintracciarti: dall'alto della poppa governavo la barra del timone e i miei figli, seduti ai banchi, inargentavano il glauco mare con rumorosa voga, cercando te, signore. Eravamo all'altezza del promontorio Malea quando un vento di levante investe la nave e ci butta su questa rupe rocciosa dell'Etna, dove i figli del dio del mare, i Ciclopi, abitano in caverne solitarie.
 
L’opera satirica collega Odisseo al nettare di Dioniso- Bacco alla vicenda del pastore Polifemo che abita in una grotta sul monte Etna, il monte kabirico di Efesto.
 
Omero narra che gli uomini di Odisso cacciarono e uccisero delle capre montane, nove per ogni nave per un totale di 108, dieci per Odisseo.
 
Le ninfe, figlie di Zeus e gìoco, eccitarono le capre montane, perché i compagni avessero il pasto: subito dalle navi prendemmo gli archi ricurvi e le aste col becco lungo, e tiravamo, in tre squadre divisi: subito il dio ci diede una caccia abbondante. Mi seguivano dodici navi e toccarono nove capre a ciascuna: solo a me ne scelsero dieci. (Od. IX, 154-160)
 
Alle dodici navi è assegnato il numero di 108 capre. Il primo ciclo di Odisseo è la vita del guerriero carica di violenza, è paragonabile ad una caduta, cui doveva poi seguire l’ascesa, simboleggiata dalla capra che sale sulla vetta.
 
 
Figura N. 1.  I108” gradini che conducono al tempio Buddista
 
Il significato del numero 108
 
In India si sacrificavano capre alla dea Kali, il lato oscuro della dea dell’amore. In Grecia si sacrificavano capre in riva al mare, ad Anfitrite, la sposa di Poseidone. Il mito allude a 108 capre da sacrificare affinché Odisseo possa essere salire sul monte. II numero 108, come il numero 72, è legato al computo del tempo[1] e sia alla via della sofferenza.  Il numero delle strofe del Rig Veda è 10.800 per 40 sillabe per strofe 432.000 sillabe totali. Il numero dei mattoni dell’altare sacro del Fuoco indiano (Agnicayana) è 10.800. Secondo Censorino, 10.800 è il numero degli anni assegnati da Eraclito alla durata dell’Aion, il Grande Anno. Pertanto, su indicazioni del Rig Veda, 40 Aion di 10.800 anni, formano il periodo di 432.000 anni del Kali Yuga. Questo numero è un motivo ricorrente nell’impianto del tempio e della religione buddista: 108 sono i grani del rosario e altrettante sono, secondo le credenze cinesi, le pene dell’anima. Perché i gradini che portano al tempio buddista sono 108? Le maggiori scuole di buddismo riconoscono l’esistenza di 108 Bonno[2], così chiamate perché causano al corpo e alla mente afflizione e sofferenza. La grande campana dei tempi Buddisti (O-Bonsho) era anticamente suonata 108 volte alla vigilia del capodanno, il nuovo anno, il nuovo tempo, il nuovo ciclo, per simbolizzare l’eliminazione delle Bonno. Il numero di Proci che Odisseo alla fine del viaggio ucciderà ad Itaca è appunto 108!
 
Perché si chiede il profano, non ubicare il tempio buddista più in basso sulla collina, vicino alla strada? Perché non avere alcun gradino? Al salire di ogni gradino e simbolicamente all’eliminazione di una Bonno, il ricercatore della propria autentica natura diviene sempre meno confuso e afflitto. Al momento di raggiungere il tempio, il ricercatore è pronto per l’illuminazione.
 
La caverna di Polifemo
 
Il giorno dopo, l’Eroe sceglie i migliori fra i suoi uomini,  dodici, quanti i segni zodiacali, portando con sé un otre di pelle di capra pieno di dolcissimo vino nero donatogli da Marone sacerdote di Apollo. Odisseo e i suoi uomini salirono sul monte e giunsero in una caverna, dove c’erano recinti per animali, formaggi e secchi di latte.
 
Subito i miei compagni mi rivolsero parole di supplica,
di tornare indietro, rubati i formaggi, e poi,
spinti rapidamente agnelli e capretti fuori dai recinti
verso la veloce nave, di prendere il largo sul mare salmastro.
Ma io non li ascoltai, anche se sarebbe stato molto meglio,
perché volevo vederlo di persona, e sapere se mi avrebbe offerto doni ospitali.
 
Odisseo e i dodici uomini attesero il ciclope. Il gigante entrò con gran fracasso e chiuse l’ingresso della caverna con una enorme pietra che ventidue carri a quattro ruote non avrebbero potuto sollevarla. Lo Sefer Yetzirà, il Libro della Creazione secondo la mistica speculativa ebraica, è basato su 22 lettere.
 
Le ventidue lettere Fondamentali, le incise, le plasmò, le combinò, le soppesò, le permutò e formò con esse tutto il Creato e tutto ciò che c’è da formare nel futuro.[3]
Ventidue lettere Fondamentali, le fissò in una ruota come se fossero mura[4]
 
Theone di Smirne esprime il numero 22 come somma di triangolo più quadrato, visualizzati come somma del terzo numero triangolare e del quarto numero quadratico 6+16 =22.
  
L’ingresso della caverna è chiuso da Polifemo, nessun uomo può spostare la pietra d’ingresso. Il numero 22 allude alla creazione materiale una volta entrati nella caverna del Ciclope non si può più uscire.
 
I ciclopi sono descritti da Omero violenti e privi di legge. Polifemo è un empio, così lo definisce Omero. Nel Libro Primo dell’Odissea, Omero cita espressamente una figlia di Forco signore del mare instancabile, di nome Toòsa, da cui nacque il Ciclope che Ulisse privò dell’occhio.
 
Pari a un dio, la cui forza è grandissima
fra tutti i ciclopi: lo generò la ninfa Toòsa,
la figlia di Forco che si cura del mare infecondo,
congiuntasi con Posidone in grotte profonde.
Da allora Posidone che scuote la terra, Odisseo, no,
non lo uccide, ma lo respinge dalla terra dei padri.
(Odissea, Libro I, 70-75).
 
L’etimologia del nome Polifemo è uno che parla molto cioè uno che pensa poco, allusione all’io personale che parla, e il silenzio è il suo nemico acerrimo. Il Ciclope con un solo occhio ha una visione delle cose che risulta appiattita. Odisseo ha trovato, in versione gigantesca una personificazione del proprio ego personale! Odisseo e i suoi uomini continuano a comportarsi come dei ladri: saccheggiano e uccidono capre e pecore per saziarsi oltre ogni decenza.
 
 
Figura 2. Ciclope
 
L’Odissea descrive Polifemo, ciclope, pastore, diverso, peloso, sgraziato, con un solo occhio cioè monstrum in fronte, monstrum in animo. Eccelle in bruttezza: è un essere immane che abita in una grotta fra le capre e la muffa del tempo, quel tempo che non gli renderà mai conto, ciclopico anch’esso, immobile, profondo e inespresso. Si nutre di carne umana e tiene in pochissimo conto gli Dèi dell’Olimpo. Odisseo è in un certo senso Re delle capre.
 
Polifemo accese il fuoco e vide gli stranieri, mangia i compagni di Ulisse per il suo istinto naturale di saziarsi in linea col suo grado evolutivo. Due uomini furono mangiati quella sera, due la mattina successiva e altri due la notte, sei in tutto. Odisseo escogita una trappola per fuggire. Anzitutto offre a Polifemo il vino dolcissimo donatogli dal sacerdote di Dioniso. Il gigante gli chiede il suo nome e l’Eroe dice di chiamarsi Nessuno. Infine prima di cadere in un sonno profondo, il ciclope per ringraziarlo del vino gli promette che sarà divorato per ultimo.
 
All’interno della grotta c’era un grande tronco verde di albero di olivo, grande come l’albero di nera nave … che solca l’abisso infinito[5].
 
Omero sembra alludere che con quel tronco l’Eroe come un particolare marinaio avrebbe fatto un viaggio psicologico nelle acque dell’abisso della psiche. L’ulivo è l’albero di Atena, ed Atena è la Sapienza. L’ulivo, che è dunque per natura sempre verde, porta un frutto che è lenimento alle pene, ma è pure offerto ad Atena, e la corona per gli atleti vittoriosi. L’unzione rappresentava l’ingresso di un individuo nella cerchia degli Iniziati, gli eletti da Dio. Un albero di ulivo è piantato vicino alla caverna della Naiadi, ad Itaca; di legno di ulivo era fatto il letto di Odisseo e Penelope.
 
Il significato del numero cinque
 
Durante l’assenza del ciclope gli uomini appuntirono il palo e lo indurirono alla fiamma, per accecare il ciclope furono scelti a sorte quattro uomini, più Odisseo, cinque in tutto.  In Grecia, Delfo, il tempio del Delfino, famoso per gli oracoli, aveva, secondo quanto afferma Plutarco, inciso sul portale la lettera E, che significa Cinque. Due volte cinque è il segno del Capricorno. In Egitto, l’iniziando, aveva come simbolo un pentagramma o una stella a cinque punte. Il numero cinque interviene insistentemente sia nel mito di Apollo[6] e sia nel sacrificio vedico degli Indù. Quintuplo è il sacrificio, quintupla è la vittima, quintuplo è l’uomo e quintuplo è tutto ciò che esiste[7]. Cinque giorni impiega Ulisse per costruirsi una zattera per lasciare l’isola di Ogigia.
 
Il signor Nessuno
 
Odisseo parlò in modo mieloso al ciclope dandogli da bere per tre volte il vino nero a lui donato dal sacerdote di Apollo Marone, nipote di Dioniso, dichiarando di chiamarsi “Nessuno”.
 
La coppa ei tolse e bevve ed un supremo del soave licor prese diletto e un’altra volta men chiedea  (Od: IX,450-452)
Tre volte io gliela stesi ed ei ne vide nella stoltezza sua tre volte il fondo. (Od: IX, 461-462)
 
Polifemo bevendo quel nettare concentrato che doveva essere allungato con venti parti di acqua si ubriacò e si rovesciò indietro, vinto dal sonno che tutti doma. Dalla bocca vomitò pezzi di carne umana e vino, e ruttò, allora Odisseo cacciò il palo nella brace per arroventarlo e con i compagni lo conficcarono nell’occhio rigirandolo come si fa con un trapano.
 
Come un fabbro un’ascia o una scure immerge nell’acqua fredda immerge, con sibilo acuto, temprandola: e questa è appunto la forza del ferro; così l’occhio del mostro sfrideva attorno al palo di ulivo.
 
 
Figura 3. Ulisse acceca Polifemo
 
Euripide fa dire ad Odisseo: “Efesto, signore dell’Etna, brucia la luminosa pupilla del tuo ignobile vicino, liberati da lui una volta per sempre”.
 
Ulisse in quest’occasione dimostra di essere all’altezza di un saggio: dice di chiamarsi Nessuno, nome simbolico di chi si è autospogliato dai legami della personalità, di cui il nome è un segno distintivo. Il tutto avvenne in una caverna, il buio luogo della prima grande prova. Polifemo, figlio di Poseidone, il patrono dei mari, che nell’esperienza mistica rappresentano le acque delle emozioni, a volte placide e a volte turbolenti e distruttive. Polifemo è il figlio delle acque emozionali, l’incarnazione di tutte le avidità e dei desideri, contemporaneamente egli è il custode della porta che conduce fuori della caverna, sulla vetta del monte, egli ingoia e frantuma coloro che hanno le sue stesse caratteristiche e i suoi vizi. La caverna in cui è rinchiuso Odisseo è la stessa descritta da Platone dove vive un’umanità incatenata vittima delle proprie illusioni. La porta della caverna  prigione è chiusa da un grande masso che solo Polifemo, il Guardiano di Soglia può rimuovere.
 
L’Eroe non può uscire dalla caverna chiusa dal Ciclope con una enorme pietra, esce non come Odisseo ma come il signor Nessuno spogliato dai legami della personalità, libero dalle catene. La mattina dopo, Polifemo deve far uscire dalla grotta il suo gregge perché possa pascolare e sta bene attento a che gli uomini non sfruttino l'occasione per fuggire. Allora, Odisseo ordisce con i suoi compagni un abile stratagemma. Ognuno di loro si aggrappa alla lana del ventre di una pecora. Polifemo toccando solamente il dorso, fa uscire gli animali liberando così gli uomini.
 
In termini esoterici il signor Nessuno acceca Polifemo, cioè acceca le passioni e passa oltre all’alba, con sei uomini, appesi sotto 18 montoni, disposti su sei triadi (6x3). Al montone centrale di ogni terzetto vi era un uomo aggrappato, Odisseo, il settimo[8] uomo, scelse per sé un montone bellissimo, il diciannovesimo.
 
Le anime dei Giusti, citate nella Bibbia, giungono su 18 colonne profumate mentre la letteratura buddhista menziona le 18 condizioni di Buddha. Per Jainismo, sono 18 i peccati capitali. Sono 18 i capitoli del Bhagavad-Gita, i monaci buddisti durante le loro preghiere, usano un rosario composto di 18 grani.
 
Il numero totale 19 dei montoni allude al ciclo di ricongiungimento degli opposti: il Sole e la Luna, quando Odisseo si riunì con Penelope.
 
Ultimo a uscire fu Odisseo, aggrappato a uno splendido ariete, la bestia preferita da Polifemo. Il gigante afferra l’animale e gli rivolge parole toccanti. Perché lui che è sempre stato il primo a raggiungere i pascoli, il primo a correre verso i ruscelli, ora è l'ultimo a uscire?    
 
Finché il montone o l’ariete, il primo segno astrologico della caverna cosmica, era stato al servizio di Polifemo, era uscito sempre per primo; ora che l’ariete si è unito a Odisseo, che porta aggrappato al ventre, esce per ultimo dalla caverna. Odisseo esce nell’ariete per percorrere nuovamente lo zodiaco, ma in questa fase inverte il senso di percorrenza da orario o involutivo, ad antiorario o evolutivo.
 
Figura 4. Ulisse e il montone
 
Sette uomini e diciannove montoni. Qui vi è l’identificazione dei sette con il montone, l’animale solare, l’Agnello di Dio. Zeus era rappresentato come Ammone, il montone.

[1] 108 = 72 + ½ 72 (somma di ottave musicali).
[2] Il termine Bonno può essere spiegato ulteriormente come quel che disturba la mente ed il corpo ed impedisce la giusta visione, cioè l’illuminazione.
[3] Sefer Yetzirà, II, 2.
[4] Sefer Yetzirà, II, 4.
[5] Odissea, Libro Nono 320 – 323.
[6] Vedi Plutarco, la E di Delfi. Il cinque, diceva, imita la causa prima ordinatrice del cosmo.
[7] Brhadaranyaka Upanishad, I, 4, 17.
[8] Il settimo rappresenta la sintesi dei sei, il punto centrale, il punto d’incontro delle sei direzioni dello spazio. Come sintesi dei sei, Ulisse non poteva aggrapparsi a un montone appartenente ad una triade, ma all’unico e al più bel montone, per farsi portare nella luce dell’alba.
 
QUARTA PROVA - EOLO E L’OTRE DEI VENTI
 
Nel libro X Odisseo e la sua flotta, salpano per l’isola di Eolo, il Signore dei Venti: un’isola galleggiante indistruttibile. L'isola di Eolo è una vera e propria roccaforte, protetta da rocce lisce e da mura di bronzo. Su quest’isola indistruttibile, abitava il dio e i suoi dodici figli, sei maschi e sei femmine sposati fra loro.
 
Che l’isola galleggi non solo rappresenta un luogo indefinito ma anche che chi davvero governa i venti si lascia andare, sospinto da un Vento superiore, al di sopra persino degli Dèi, quel vento sottile “che non sai da dove viene, né dove va”.
 
Il vento come elemento rappresenta lo spirito che aleggia sulle acque. Odisseo il signor Nessuno, avendo vinto il Guardiano di Soglia resta ospite per un mese sull’isola galleggiante durante questo tempo il Dio dei venti, il Pneuma, fa un grande dono all’Eroe, gli insegna, cioè lo addestra come gestire la propria mente superiore, come creare le forme pensiero.
 
Odisseo riceve da Eolo, il Pneuma, un otre fatto con la pelle di un bue di nove anni, in cui erano imprigionati gli uragani, i venti tempestosi che nella prima prova avevano spinto le navi ai confini del mondo. Legò con una catenella d’argento l’otre in fondo alla nave, lasciando solo uscire il dolce vento occidentale di Zefiro affinché lo riportasse verso casa.
 
 
Figura 1. Eolo
 
I venti impetuosi e di tempesta chiusi devono nell’otre di pelle (simbolo della parte fisica umana), ma legati da una cordicella d'argento, da sempre metallo chiaro, modello di purezza. Una mente pura può restare tale solo se la coscienza è sveglia. Odisseo per giorni evita di dormire ma, arrivato in prossimità della meta, si lascia andare: si addormenta.
 
Per nove giorni e nove notti, le navi furono spinte dai venti favorevoli e il decimo furono in vista di casa. Mentre Ulisse, il Pensatore dormiva, convinto al decimo giorno[1], in vista della sua isola, di essere pressoché giunto alla meta, i suoi uomini, le facoltà mentali ed emozionali incontrollate, prive del controllo del Pensatore, l’Anima, sciolgono l’otre mossi dall’avidità di scoprire quali tesori esso celava. Le facoltà incontrollate divennero nuovamente distruttive, i venti imbrigliati nell’otre scatenarono una violenta tempesta che riportò le navi all’isola di Eolo, il Pneuma, che, giustamente si rifiutò di accoglierli, avendo essi fallito la prova dell’autodominio. All’euforia per il superamento della prova della caverna seguì la depressione per aver fallito ad un passo dalla meta e pertanto essere ricacciati al punto di partenza.

[1] Nuovamente il ciclo di nove più uno, il ritorno al centro della circonferenza o ciclo.
QUINTA PROVA - I LESTRIGONI
 
Salparono sconvolti nel cuore remando in un mare privo di vento per sei giorni, al settimo arrivarono alla Terra dei Lestrigoni, giganti antropofagi. Entrarono in un porto cinto da roccia inaccessibile con due promontori sporgenti come una bocca stretta. Mentre i compagni di Odisseo ormeggiano le loro 11 navi in porto, la sola nave di Odisseo non vi getta l’ancora.
 
Odisseo mandò in esplorazione tre uomini che incontrarono la gigantesca figlia del re Antifate che attingeva acqua da un pozzo. Gli uomini guidati dalla giovane entrarono a Telepilo che significa “la lontana porta (degli Inferi)” nell’oscura città dei Lestrigoni, giunsero a palazzo, dove incontrarono una orribile donna grande come la vetta di un monte, la madre della giovane, che chiamò a gran voce il re anch’esso un gigante che afferrò uno dei tre uomini e lo divorò. Gli altri fuggirono ma il re lanciò un grido di guerra e i Lestrigoni accorsero in gran numero chiamandosi l’un con l’altro uccisero molti uomini, sugli uomini delle navi ancorate in porto infilzandoli come pesci guizzanti con delle aste, divorandoseli. Distrussero le navi della flotta lanciando enormi macigni risparmiando solo la nave di Odisseo che era fuori dal porto. Ulisse e i suoi compagni lasciano la terra dei Lestrigoni senza attingere l’acqua.
 

Figura N. 1. La nave di Odisseo
 
Omero quando descrive il paese dei Lestrigoni dice che un pastore rientrando chiama un altro pastore che uscendo risponde … perché sono vicini i sentieri del giorno e della notte[1]. È la terra del sole di mezzanotte[2].
 
La città omerica di Telepilo, detta dalle porte lontane, è interamente circondata da un’alta parete rocciosa, inaccessibile, difesa da due minacciosi promontori che delimitano una stretta apertura dove si trova un popolo di giganti, descritti da Omero mentre infilzavano gli uomini come se fossero pesci per poi mangiarseli cioè annichilirli.
 
Come nel mare i pesci, esistiamo immersi nel profondo buio. La Tenebra ci riempie e ci condensa.
 
I pesci nel santuario di Apollo in Licia erano chiamati Orphoi. Il nome di Orfeo è collegato all’oscurità dell’Ade, si hanno di fatti: Orphos dio del mondo infero, Orphne ninfa del lago Averno, Orphnaios cavallo di Plutone.
 
I sacerdoti egizi si rifiutavano di mangiare i pesci. I pesci, vivendo nell’acqua, elemento emozionale, erano l’immagine dell’anima non evoluta. Nel rituale egizio dei Morti, nella prima ora notturna il Candidato, assimilato al sole notturno, inizia il suo viaggio da “morto”, oltrepassa la porta e scende nel ventre liquido della materia. L’iniziando nel suo viaggio notturno è assimilato al dio Sokar, patrono dei morti.
 
In una raffigurazione (papiro di Nefer-Ubenef – Nuovo Regno) tre babbuini cercano di catturare con le reti i defunti sotto forma di pesci. I babbuini erano i custodi, i guardiani, delle porte di oriente e di occidente, cioè dell’alba e del tramonto.
 
“O voi pescatori che vagate nelle dimore delle acque, non mi prenderete nella vostra rete in cui prendete gli imbelli!”
 
In questo racconto i babbuini sono stati sostituiti dai Lestrigoni custodi della Porta Inferi e dei sentieri del giorno e della notte.
 
Nel mito narrato dai Sumeri, l’Eroe Gilgamesh nel suo viaggio alla ricerca della via dello spirito, giunge in un luogo inaccessibile, alla Montagna del Sole.
 
Gilgamesh giunse a Mashu, ai grandi monti di cui tante cose aveva udito. I suoi picchi gemelli sono alti quanto il muro del cielo. Alle sue porte fanno la guardia, gli Scorpioni, metà uomini metà draghi, terrificante è la loro gloria e il loro sguardo colpisce gli uomini a morte.[3]  
In entrambi i miti di Odisseo e di Gilgamesh sono descritti Picchi Gemelli, Due montagne, una Porta Stretta, come una bocca, sorvegliata da un popolo feroce che uccide coloro che vogliono attraversarla, delle alte mura di roccia che dalle profondità della terra, gli Inferi, salgono fino al cielo. L’Eroe nel suo viaggio, giunge fino ai confini del mondo, dove i Sentieri del Giorno e della Notte s’incontrano. Nell’Edda Poetica germanica vengono descritti i Cani del Giorno e della Notte che montano di guardia al luogo dove non si può andare. Il Kalevala dei Finni, descrive un misterioso sentiero posto sopra la  Luna e sotto il Sole, percorso dall’Eroe per giungere il tetro paese di Pohjola. A volte il viaggio avviene per mare come per Odisseo. I Sei Giorni di navigazione sono i sei segni dello Zodiaco che dal segno del Cancro[4] vanno al segno del Capricorno, il settimo, prima che il Sole ricominci la sua marcia verso la luce.
 
Se gli Yogi partono … nei sei mesi in cui il sole è decrescente verso il Sud, allora gli Yogi entrano nella luce lunare per ritornare negli stadi della manifestazione. Quelli della Luce e delle Tenebre sono gli eterni sentieri del mondo [5].
 
Nel Capricorno, al solstizio d’inverno, le Tenebre regnano sovrane, lì si trova l’oscura città dei Lestrigoni. La città di Telepilo rappresenta la Porta Inferi.
 

 
Figura 2. I due sentieri
 
L’Eroe che segue la via del Sole deve varcare tale porta, se vuole uscire dall’oscurità, ma per far ciò deve combattere contro i mostruosi guardiani della porta o soglia.
 
Il poema sumerico descrive questi guardiani come Uomini Scorpioni. L’equivalente egiziano del mostruoso guardiano di soglia era l’Ammit che divorava gli uomini che non avevano superato la prova della pesatura del cuore. Dopo aver fallito la prova con Eolo, l’iniziando deve ricominciare nuovamente il suo viaggio dagli estremi confini del mondo, privato di ogni potere.
 
Odisseo assiste alla distruzione di 11 delle sue navi. L’undici, essendo la prima cifra che segue il dieci, simboleggia l’inizio di un nuovo progresso, di un rinnovamento o anche di un capovolgimento. Odisseo vede uccidere i suoi uomini, i suoi poteri personali, viene così bastonato e umiliato. Questo stadio è quello della completa spogliazione contraddistinta da una forte amarezza e da un senso d’impotenza e di frustrazione.
 
Odisseo fallisce, nonostante che abbia superato la prova della caverna di Polifemo; egli non può passare deve ricominciare questa volta con una sola nave.
 
Quanti uomini aveva Ulisse? Nel cosiddetto catalogo delle navi, riportato dal II libro dell’Iliade, le navi dei territori di Metone, Taumacia, Melibea e Olizone sono a cinquanta vogatori (25 per lato) cioè 50x12=600 rematori; aggiungendo capitano e timoniere otteniamo il numero minimo di 52 uomini per nave.
 
Vincenzo Di Benedetto fa calcolo partendo dalle indicazioni di Omero. Per la nave di Odisseo apprendiamo nell’episodio dell’isola di Circe (X 203-9) che c’erano 46 uomini: infatti Odisseo divide gli uomini in due schiere, ognuna delle quali comprendeva 22 uomini e in più c’era il comandante, per un gruppo Euriloco, per l’altra metà Ulisse stesso. Inoltre prima di arrivare all’isola di Circe la nave di Odisseo aveva subito perdite di uomini: 6 erano morti a Ismaro, 6 erano stati mangiati da Polifemo, quindi 58. Non si sa se i tre che sono mandati in missione dai Lestrigoni(dei quali uno è mangiato da Antifate) appartenevano alla nave di Odisseo, se è così il totale sale a 61[6].

[1] Odissea, Libro X, 82 – 87.
[2] Robert Graves, I Miti Greci,pag. 679, Longanesi.
[3] Epopea di Gilgamesh, IV.
[4] Il solstizio estivo nel segno del Cancro, denominato dagli Ebrei, la Bara, rappresenta la Porta Larga, la caduta verso le tenebre, è l’ingresso nella via di chi dovrà conoscere la morte.
[5] Bhagavad Gita,VIII, 24, 25, 26.
[6] Omero ODISSEA Introduzione, commento e cura di Vincenzo Di Benedetto, pag. 510.
SESTA PROVA - CIRCE
 
E giungemmo all’isola Eèa. Là abitava
Circe dai riccioli belli, terribile dea dalla voce canora,
sorella germana di Aiete dai pensieri funesti;
entrambi sono nati da Helios (il Sole), che dà luce ai mortali,
e da Perse, la figlia a cui Oceano diede vita.
(Odissea canto X, 135-139)
 
Il signor Nessuno umiliato e battuto con la sua ultima nave approda all’isola di Circe, Eèa, dove dimora la melodiosa Maga. La dea era sorella di Aiete, padre di Medea. L’isola di Eèa (Αἰαία) prendeva nome da Eos, l’Aurora. Aiaia, l’isola di Circe è una parola di 5 lettere composta solo da 2 vocali. Le sette vocali greche rappresentano i sette tuoni, le sette potenze creatrici; nel nome dell’isola abbiamo la prima e la quarta potenza creatrice. Quattro erano le ninfe ancelle di Circe.
 
Per due giorni e due notti, gli uomini giacquero sulla spiaggia, ma quando giunse la terza alba, Odisseo, brandì la spada e la lancia e salì sulla collina. Aggiungendo tre giorni al 22 dicembre, giorno del solstizio del Capricorno, giungiamo al 25 dicembre il giorno della nascita del Sole Invincibile. Ventidue erano gli uomini di Odisseo entrati nella casa di Circe. Tre erano i giorni che l’iniziando restava nella buia cripta in stato di catalessi.
 
Odisseo scorse del fumo salire da un bosco, ma non andò in quella direzione. Un dio impietositosi fece trovare sul percorso un grande cervo dalle alte corna che viene abbattuto da Odisseo, è omologo all’episodio delle capre selvatiche nell’isola prospiciente la terra dei Ciclopi. Odisseo fece ritorno alla nave portando con sé un bellissimo cervo.
 
Il giorno dopo mandò in perlustrazione metà dei suoi uomini, che scoprirono il palazzo di Circe, fatto con pietre squadrate e con porte lucenti.
 
Allora io tutti i compagni dai begli schinieri in due schiere
divisi, e agli uni e agli altri un capo assegnai;
degli uni il capo ero io, degli altri Euriloco simile a un dio.
Subito in un elmo di bronzo agitammo le sorti;
e saltò fuori il contrassegno dell’intrepido Euriloco.
Si avviò in cammino e insieme con lui ventidue compagni,
piangenti, e noi gementi lasciarono indietro.
(Odissea, Canto X, 203-209)
 
Odisseo divide gli uomini in due schiere, ognuna delle quali comprendeva 22 uomini. Il dio Chronos era circondato da 44 Assistenti, 22 principali e 22 secondari, secondo il fenicio Sanchoniaton. Circe era la dea luminosa dai riccioli belli, nata da Perse figlia di Oceano e dal Sole. Intorno al palazzo vagavano animali non più feroci perché ammansiti da magiche bevande. Gli esploratori non entrarono nel palazzo ma udirono Circe cantare con una dolce voce e melodiosa, tessendo una grande e immortale tela[1], quale può uscire solo dalle mani delle dee, fine di grazia e di splendore. Circe dalla voce melodiosa è come Vach degli Indù, la  Voce, il suono melodioso, il potere misterioso del suono, l’agente magico di ogni creazione. Omero descrive Circe come “sovrana”, “dea luminosa dalle belle trecce”, “Circe riccioli belli”, “tremenda dea dalla parola umana”. In Virgilio Circe è una figura sinistra, una pericolosa forza della natura. La incontriamo all’inizio del settimo libro dell’Eneide, quando Enea ed i suoi Troiani stanno per approdare sulla costa italica. La descrizione di Virgilio riprende molti dei dettagli omerici: il canto di Circe, il telaio a cui la dea siede tessendo, il fuoco di legno di cedro. I gemiti terribili delle belve rendono l’atmosfera inquietante. Non vi è alcun segno di civilizzazione qui. Non ci sono le belle pietre levigate o le coppe d’oro descritte da Omero.  Circe è l’incantatrice afroditica ai margini del mondo, secondo la bella definizione del K. Kerényi. È la figlia del Sole, ma nonostante questo rappresenta pure l’archetipo di una Grande Madre tenebrosa.  La sua dimora è in un palazzo circondato da un bosco, abitato da festose bestie selvatiche. Virgilio (Æneis, VII, 19-20), ci dice che queste bestie altro non sono che uomini così ridotti dai sortilegi della dea che lei aveva incantato con filtri maligni: quos hominum ex facie dea saeva potentibus herbis induerat Circe in voltus ac terga ferarum.
 
Se si dovesse identificare Circe, Κίρκη, Kìrkē omerica con una figura geometrica, questa sarebbe il cerchio, a cui tutto sembra ricondurre: il nome stesso è assonante con Kyklon, il cerchio, ed è la forma femminile di Kyrkos, del falco, simbolo di Horus. Anche la sua isola, fuori dal mondo conosciuto, soggetta ad altre leggi di natura, è di forma perfettamente sferica.
 
 
La bevanda dell’oblio
 
Gli uomini chiamarono a gran voce la dea che li invitò ad entrare, solo Euriloco si rifiutò di entrare. La dea maga, fece sedere 22 uomini su alti seggi e servì loro formaggio, farina d’orzo, vino, e miele cioè somministra il ciceone, solo per l’aggiunta di una pozione velenosa la mistura preparata da Circe acquisisce una valenza infausta, per far dimenticare la loro meta.
 
La testa dell’uomo è fatta di 22 ossa, il numero degli aminoacidi che concorrono a formare l’impalcatura della vita è 22. Il Sepher Yetzirah ci presenta una creazione armonica in cui Elohim crea usando le 22 lettere dalle cui diverse combinazioni ha origine il molteplice, cioè la creazione materiale.
 
Essi bevettero e Circe li batté con una verga, trasformandoli in porci, li rinchiuse in un recinto e gettò loro delle ghiande, ed essi divennero dei mangiatori di ghiande. Come conseguenza della trasformazione in porci, Omero pone la dimenticanza della “patria”, del luogo d’origine. Il mito narra che la bevanda fatta bere a Demetra da una donna per dimenticare la perdita di Persefone (l’Anima) era fatta con il miele e con l’orzo fermentato. In ricordo di tale evento, gli Iniziati greci professavano: “Io digiunai, io bevetti la bevanda d’orzo”[2]. Il miele nei racconti mitici è legato al potere riproduttivo, alla generazione fisica. I compagni di Odisseo trasformati in porci, rappresentano i primitivi abitanti della terra.
 
I primi uomini, per Lucrezio, sono dei mangiatori di ghiande, come i maiali, animali sacri a Demetra. Károly Kerényi, in Miti Misteri, scrive che gli Orfici narravano che sul campo incoltivato posto fra Atene ed Eleusi, Demetra incontrò gente primitiva sorta dalla terra. Eubuleo, un membro di questa famiglia stava guardando i suoi porci quando si aprì la terra per inghiottire come in una tomba sia Persefone che i suoi porci. Nei riti sacri a Demetra e Persefone si sacrificavano i maiali. Odisseo possedeva ad Itaca 360 maiali, come i gradi del cerchio celeste, maiali che venivano sacrificati uno per ogni giorno. Odisseo è il signore che sacrifica i suoi maiali, il Pensatore che sacrifica o rinuncia ai suoi bassi desideri.
 
La magia di Circe sui 22 uomini di Odisseo si attua in tre passi, la somministrazione della bevanda, i colpi di verga e infine la frase finale dell’incantesimo come in seguito Circe cercherà di fare con Odisseo.
 
Euriloco il suo comandante in seconda, ritornò terrorizzato alla nave portando le cattive notizie. Invitando Odisseo a fuggire, fa un riferimento esplicito ai compagni presenti e in questo modo implicitamente suggeriva che gli altri dovevano essere abbandonati al loro destino. Il rappresentante delle forze della personalità Euriloco si mostra timoroso e implicitamente invita alla fuga.
 
Odisseo reagì armandosi con la sua grande spada di bronzo e l’arco. Sulla strada gli appare sotto forma di un giovane Ermes dall’aureo caduceo, che dona ad Ulisse un’erba miracolosa dalla nera radice e dal fiore simile al latte, un’erba che gli uomini difficilmente riescono a strapparla e che gli dèi chiamano Moly.
 
Mi diede il farmaco,
strappatolo dal suolo, e mi mostrò come era fatto.
La radice era nera, ma il fiore in sé era simile al latte.
Gli dei lo chiamano moly, e per gli uomini mortali
è difficile estrarlo da terra; invece gli dèi possono tutto.
(Od. X, 302-306)
 
Quando Circe dopo averti fatto bere la magica pozione, ti colpirà con la sua verga - gli spiegò Ermes - Tu ti avventerai con la tua spada, essa ti offrirà di giacere con lei, tu non rifiutare il letto di una dea.
 
Mi fece sedere su un seggio con borchie d’argento,
bello e ben lavorato; sotto c’era lo sgabello per i piedi.
In una coppa d’oro mi preparò la mistura, perché la bevessi,
e vi infuse un veleno, cose cattive meditando nel suo animo.
Me la diede, io bevvi, ma non riuscì ad ammaliarmi.
Allora mi colpì col bastone, mi chiamò per nome e mi disse:
‘Su, ora va’ nel porcile, sdraiati con gli altri compagni’.
Così disse, e io, tratta da lungo il fianco la spada affilata,
mi avventai contro Circe come se intendessi ucciderla.
E lei, con alto grido, si divincolò e mi prese le ginocchia,
e piangendo mi disse parole alate:
Chi sei? da dove vieni? dov’è la tua città, e i tuoi genitori?
(Od. X, 314-325)
Figura 1. Circe offre la bevanda magica ad Ulisse
 
Chi sei? La domanda che ritroviamo spesso in Omero presuppone due diverse risposte, la prima sono in guerriero e un pirata depredatore, la seconda sono un figlio del Cielo. Nel Libro egizio dei Morti è riportata la conversazione fra il Defunto (l’Iniziando) e i Guardiani della Porta:  “Apritemi! Chi sei? Dove vai? Qual è il tuo nome? Io sono uno di voi”.
 
Davanti ad essa (fonte delle Mnemosine) stanno i Custodi[3]. Parla loro: Sono figlio del Cielo Stellato e della Terra, la mia stirpe è Celeste e ciò lo sapete anche voi.  (Lamine di Petelia)
 
Dopo questa prova Circe si trasformerà da tremenda dea in un’amabile padrona di casa, offrendo ai naufraghi ospitalità per un lungo anno, ed usando infine i suoi poteri per aiutare Odisseo nel suo viaggio di ritorno ad Itaca.
 
Odisseo doveva unirsi con Circe in un sacro matrimonio, divenendo una cosa sola con la Voce, con il misterioso potere del suono. Odisseo salì il meraviglioso letto, accudito da quattro ninfe, nate dai boschi e dai fiumi sacri dell’isola. In un gran tripode Odisseo venne lavato “per togliere dalle mie membra l’angosciosa fatica”[4] dopo venne unto e ricoperto con una tunica e fatto sedere un trono a borchie d’argento. Solo dopo questa unzione, Odisseo, l’alunno di Zeus[5], poté richiedere a Circe di riavere i suoi uomini o poteri personali non più primitivi o maiali, ma degni degli uomini. Il trono è simbolo di regalità, l’argento di cui son fatte le borchie è simbolicamente associato alla Luna.
 
Dalle loro membra cadevano le setole, create dal veleno funesto, che a loro aveva dato Circe sovrana. E subito ridivennero uomini, e più giovani che prima,e molto più belli e più grandi a vedersi (Od. X, 393-396). Gli uomini che erano stati trasformati in maiali furono unti[6] con unguento magico ed essi tornarono ad essere uomini più giovani e più belli e più alti di prima. Circe era già uscita dalla sala,in mano la verga, e aprì le porte del porcile e fuori li spinse, simili a grassi porci di nove anni (Od. X, 388-390). Omero precisa che gli animali erano di nove anni per spiegare che il tempo trascorso nella loro natura umana durò un ciclo completo. Circe invita Odisseo ad andare alla nave dal resto dei suoi uomini.
 
E allora trovai sulla rapida nave i fidati compagni,
che miserevolmente gemendo versavano florido pianto.
Come campestri vitelle intorno alle mucche di mandria
che tornano alla stalla, saziate di pascolo, e quelle
tutte insieme saltellano a loro di fronte e più non le trattengono
i recinti, ma fortemente muggendo corrono intorno
alle madri. (Od. X, 408-414)
 
Il paragone delle vitelle che gioiscono al ritorno delle loro madri enfatizza l’attaccamento tra Ulisse e i suoi compagni. Questo paragone si ricollega con quello (Od X 216 ss.) relativo ai cani che scodinzolano con affetto intorno al padrone che arriva. Il riferimento è agli animali, simbolo dei nostri istinti e poteri della personalità.
 
Odisseo trascorse un anno con Circe, dietro le insistenze dei suoi compagni chiese il permesso di ripartire, permesso che gli fu concesso, ma prima doveva scendere nell’Ade per parlare con l’eidolon dell’indovino Tiresia.

[1] Circe come Penelope, tesseva una tela.
[2] Clemente Alessandrino, Protrepticus, 21.2.
[3] Nel Libro egizio dei Morti è riportata la conversazione fra il Defunto (l’Iniziando) e i Guardiani della Porta: “Apritemi! Chi sei? Dove vai? Qual è il tuo nome? Io sono uno di voi …”
[4] Odissea, X, 363.
[5] Odissea, X, 443.
[6] Il rituale dell’unzione indica l’entrata in un nuovo stato di consapevolezza, il risveglio dall’oblio, con la rinuncia alla grossolanità del corpo del maiale trasformato in un corpo umano bellissimo.
SETTIMA PROVA – LA DISCESA NELL’ADE
 
Circe, assumendo una funzione che spetta ad Ermes, si offre come guida di Odisseo nel Regno di Ade e di Persefone, regno delle ombre. Circe si rivolge ad Odisseo apostrofandolo “Divino Odisseo”.
 
Un altro viaggio c’è prima da fare e arrivare alle case dell’Ade e della tremenda Persefone, e interrogare l’anima del tebano Tiresia, il cieco indovino, di cui resta salda la mente: a lui solo Persefone concesse d’aver saggia la mente da morto; gli altri invece, come ombre vane svolazzano.[1]
 
Circe suggerisce ad Odisseo di andare alle case dell’Ade e cercare l’anima mortale (l’eidolon) del tebano Tiresia, il cieco indovino (che in vita aveva sperimentato su se stesso il mistero dei due serpenti di Ermes, il mistero della polarità). Odisseo, seguendo le indicazioni fornite dalla dea dai riccioli belli, a bordo della sua nave nera dalle vele bianche, s’inoltra per andare verso i confini del mondo nell’Oltretomba ad Occidente, verso una terra avvolta dal buio e dalla nebbia. La prova di Odisseo non avviene in un luogo fisico ben definito, ma in uno spazio interiore, in un’altra dimensione. Odisseo è solo, i suoi compagni sono i suoi poteri personali, che uno per volta li dovrà abbandonare. Questa è la prova che nei Misteri equivaleva alla discesa nella cripta, nel pozzo, negli Inferi: nei tre giorni di morte apparente l’anima del candidato libera del corpo ma rivestita nel suo eidolon (corpo delle passioni) conosceva e sperimentava il mistero della morte. Plutarco indicava questa morte apparente come la prima morte, quando Ermes improvvisamente e con violenza strappa l’anima dal corpo. La prima morte, aggiunge Plutarco, ha luogo nella regione sotto la giurisdizione di Demetra (Iniziazione), e per questo il nome dato ai Misteri telei, rassomiglia a quello dato alla morte teleutai.
 
Odisseo in questa prova, deve saper riconoscere il carattere effimero e ingannevole delle ombre dei morti che popolano l’Ade, gli eidolon dei Misteri. Omero descrive l’Oltretomba nell’estremo Occidente come la terra dei Cimmeri, dove regna sempre la nebbia e il buio, in cui si aggirano le anime dei morti descritte come tante immagini, eidolon, simulacrum[2], simulacri privi di forza e della luce della coscienza.
 
L’Ade e i suoi abitanti
 
Quando l’uomo muore, le parti inferiori costituenti il suo essere abbandonano per sempre il suo Ego spirituale: il corpo fisico, la vita o energia vitale e il doppio dell’uomo vivente l’eidolon dei Greci. Per gli Egizi queste parti erano rispettivamente: la mummia, il Ka e il Ba. L’eidolon, nella tradizione egizia era rappresentato come il Ba del defunto, quest’ultimo, era rappresentato sempre in movimento, dotato di forza prodigiosa con le sembianze di un uccello con il viso umano, in atto di tornare a visitare la mummia nella camera sepolcrale. Era associato al cuore organo del sentire e della memoria delle emozioni e dei pensieri dell’uomo in incarnazione, per questo nel rituale del Giudizio veniva pesato il cuore del defunto. L’Ade degli antichi, il Limbo, rigorosamente parlando è una località solo in senso relativo. Non ha estensione definita, né un confine, uno spazio impercettibile dai nostri cinque sensi, che sotto determinate condizioni può essere visualizzato con i sensi fisici. Questo spazio, non visibile, tuttavia esiste, ed è la che gli eidolon di tutti gli esseri che hanno vissuto, compresi gli animali, attendono la disintegrazione[3].
 
Per Lucrezio, gli eidolon, i simulacra, sono immagini atomiche, che egli accosta a membrane o a cortecce, poiché, in effetti, essi sono il corrispettivo visivo: tali “membrane” o gusci, si distaccano come corteccia dalla superficie esterna dei corpi per via di un “pulsare” dei corpi stessi e, volteggiando nell’aria, giungono ai nostri organi di senso, riportando fedelmente la forma e la disposizione mentale degli individui da cui giungono. Dai corpi, per Lucrezio, una qualche “tenue immagine, tenuis imago “ deve staccarsi: e, proprio perché tenue, e quindi leggera, non c’è da stupirsi che essa sia in grado di volteggiare per l’aria. Lucrezio afferma, con assoluta certezza, che il fatto stesso, che i simulacra siano costituiti da materia sottile fa sì che essi siano anche veloci, di velocità pari a quella del pensiero: dinamici e penetranti. Ricordiamo che il Ba degli Egizi era sempre rappresentato in movimento. Il mondo che ci circonda, anche se i nostri sensi in condizioni usuali non lo percepiscono, è continuamente percorso dai simulacra che volteggiano intorno a noi. Nel Libro II di De rerum natura, Lucrezio, per farci meglio capire perché noi non vediamo i simulacra, ci invita ad immaginare la penombra di una casa dalla cui finestra penetra un fascio di luce in cui scorgiamo una miriade di particelle di polvere, particelle che in condizioni normali non scorgevamo,ma erano lì sempre presenti. Ad esempio il poeta Omero viene raffigurato felice e beato nell’Elisio e contemporaneamente piangente sulle rive dell’Acheronte. L’Omero raffigurato sull’Acheronte non è altro che il suo simulacro, la sua immagine vuota e ingannatrice, un guscio.
 
L’evocazione degli eidolon
 
Dopo aver traversato una zona non ben definita dell’oceano, la nera nave di Odisseo, giunse ad una bassa spiaggia dietro cui si stagliavano i boschi sacri a Persefone, alti pioppi e salici dai frutti che non maturano mai, che si piegano malinconicamente sull’acqua. Odisseo scese nelle case putrescenti dell’Ade e recandosi presso la roccia dove i due fiumi infernali, il Cogito e il Flegetonte[4] s’uniscono formando l’Acheronte, seguendo il consiglio di Circe scavò una fossa di un cubito quadrato intorno alla quale colloca la libagione dei morti: prima miele e latte, poi vino, come terza libagione acqua e bianca farina. Farina d’orzo miele e vino era la bevanda dell’oblio nei Misteri. A Creta si narrava che Rea avesse partorito Zeus in una sacra grotta di api. A Creta Arianna, la fertilissima madre d’orzo, era la Signora del Labirinto o degli Inferi, a cui si offriva del miele.
 
Latte e Miele
 
Il miele era offerto in libagione ai defunti e serviva alla loro imbalsamazione, Persefone, che è divinità sotterranea dei morti, è detta Melitòdes, Mellita, la dea mielata. Sofocle disse delle anime: “Lo sciame dei morti ronza e ascende” Gli antichi erano soliti chiamare api anche le sacerdotesse di Demetra, preposte come dee terrene alle iniziazioni, e la stessa Persefone, Mellita. In greco “melissa”, colei che dà il miele, significa “ape”, ed era anche il nome di una confraternita di sacerdotesse di Demetra; della stessa Luna che era considerata presiedere alla generazione; e di un gruppo di ninfe. E ape chiamavano la Luna, quale protettrice della generazione. Il miele in passato era visto come un simbolo della morte, e perciò si sacrificavano alle divinità sotterranee libagioni di miele.
 
Il latte al pari del miele era simbolo di alimento materiale e di nutrimento per le creature in crescita. In Egitto, Hathor, la Grande Dea Madre era rappresentata con la testa di mucca, simbolo della dimensione materna creatrice del mondo e della capacità generatrice perché dispensatrice dell’acqua e del latte necessari alla loro vita. Gli egiziani rappresentavano la Dea celeste Nut, che imbeve nutrendo la terra della sua pioggia-latte, mentre porta sul suo dorso il dio solare. In India, la Dea Vach è descritta nel Rig Veda come la vacca melodiosa, dalla quale discende l’umanità.
 
Farina e Vino
 
La farina, la spiga di grano, era sacra a Demetra, la dea madre che fornisce il corpo fisico; il vino era sacro a Dioniso colui che infonde vita nel corpo. Il vino è sinonimo di sangue, la vita che alimenta il corpo fisico. Le Baccanti hanno il potere di far sgorgare dalle rocce latte, vino e miele, col solo tocco del tirso. Il dio Soma, equivalente indiano di Dioniso, perché patrono delle inebrianti bevande fermentate a base di miele, fu cucito come Dioniso figlio di Semele nella coscia della divinità celeste Indra, il dio del Cielo. Collocando la libagione dei morti attorno alla fossa di un cubito quadrato[5], Odisseo celebra un rituale quello della morte nella forma.
 
Evocazione tramite il sangue
  
Dopo aver eseguito il rituale della morte, Odisseo, si accinge alla prova più pericolosa, quella di evocare le stirpi dei morti promettendo sacrifici di animali, dopo di che, sgozza un ariete e una pecora nera, versando il nero sangue fumante nella fossa. Gli spettri bevendo il sangue riacquistano forze e vitalità, poiché secondo gli antichi, nel sangue vi era forza e spirito vitale. Nel sangue vi era la forza e la vitalità. Per questo motivo nell’antichità era uso sgozzare le vittime, animali o umane sopra le tombe dei propri cari[6].
Quanto si apprestava a fare Odisseo era solo prerogativa di chi era stato iniziato ai Sacri Misteri ed era sceso vittorioso nella cripta nella morte o era disceso agli Inferi, l’Ade, paragonabile ad un abisso, una cripta un luogo di morte. A Giobbe, che aveva vinto i terrori di questa prova, lo Gerofante lo apostrofa: Ti sono stati aperti i cancelli della morte, tu hai visto le porte dell’ombra della morte? Durante i Misteri si conosceva e si sperimentava nella discesa agli Inferi, il segreto dell’eidolon, lo spettro, il doppio, il veicolo e il contenitore di tutti i desideri e delle passioni grossolane del defunto. Psèllo ammonisce tutti coloro che non sono stati iniziati a cercare il contatto con i simulacra, le ombre.
 
 
Figura 1. Incontro con gli eidolon
 
Intorno alla pozza di sangue fumante, l’Eroe aveva riconosciuto Agamennone morto per mano di Clitemnestra e altri. Ciò che l’Eroe conosce e sperimenta in questa prova sotto la guida di Circe, la dea luminosa, è l’anima terrestre, l’Eidolon, non quella immortale. Messo in guardia da Circe, l’Istruttrice, Odisseo tiene sguainata la spada impedendo alle esangui teste dei fantasmi di avvicinarsi al sangue, prima d’aver consultato Tiresia. Compare dapprima l’ombra di Elpènore un loro compagno morto accidentalmente prima della loro partenza dall’isola di Circe. L’ombra si lamenta che il suo corpo era rimasto insepolto[7] e prega Ulisse al ritorno all’isola, di bruciare il cadavere insieme alle sue armi, ed infine di elevargli un sepolcro. Nell’Eneide, Virgilio  scrive che gli insepolti dovranno andare errando per cento anni.
 
Nell’Ade Ulisse incontra la madre Anticlea, e l’indovino cieco tebano Tiresia, che con uno scettro d’oro, gli predice che il suo viaggio alla volta della patria sarà ancora lungo e faticoso, e una volta giunto in patria dovrà combattere contro alcuni usurpatori e che infine, dopo aver riportato la pace sulla sua isola, dovrà nuovamente ripartire per un altro viaggio.
 
Odisseo per tre volte cerca di abbracciare lo spettro della madre.
 
Tre volte mi avvicinai: l’animo mi spingeva a stringerla;
tre volte volò via dalle mie mani, simile a un’ombra o a un sogno:
e a me un dolore acuto nacque più forte in fondo al cuore
.
(Odissea, XI, 206-208)
 
… quando muore, l’uomo mortale; i tendini disfatti  non congiungono più le carni e le ossa, tutto divora l’impetuosa furia del fuoco ardente, appena esce la vita dalle ossa bianche; vola via per l’aria l’anima, e si dilegua come un sogno. (Odissea, XI, 278-284)
 
Anche Enea nella narrazione di Virgilio protende gemendo le braccia per abbracciare Creusa, ma per tre volte egli stringe aria, e l’immagine si dissolve come un soffio di vento. Virgilio descrive l’apparizione di Creusa come infelice simulacro, ombra e immagine.
 
Oltre la madre Odisseo vide alcuni eroi che avevano combattuto con lui nella guerra di Troia: Agamennone, Aiace, Patroclo, Antiloco e, soprattutto, Achille che dice ad Odisseo:
 
«Divino Laerzìade, ingegnoso Odisseo,
ah pazzo! Che altra fatica maggiore mediterai nell'animo?
Come osasti scendere nell'Ade, dove fantasmi
privi di mente han dimora, parvenze d'uomini morte?»
Così disse, e io rispondendogli dissi:
«O Achille, figlio di Peleo, fortissimo fra gli Achei,
venni per bisogno a Tiresia. (Odissea, XI, 473-479)
 
Dal racconto omerico si traggono tre importanti indicazioni:
     
  1. Odisseo evoca  le anime dei morti con il sangue fresco versato in una fossa. Gli spettri bevendo il sangue riacquistano forze e vitalità, perché secondo gli antichi, nel sangue vi era forza e spirito vitale. Nel sangue vi era la forza e la vitalità. Per questo motivo nell’antichità era uso sgozzare le vittime, animali o umane sopra le tombe dei propri cari[8].
     
  1. L’Eroe per allontanare le anime-ombra dei morti dalla fossa deve usare una piccola spada (xìfos), poiché il metallo della spada era l’unica cosa di cui questi fantasmi avevano timore, come al contrario, il sangue era l’unica cosa di cui queste larve avessero bisogno. L’ombra di Tiresia si rivolge ad Odisseo dicendogli: ”Allontanati dalla fossa, ritira l’acuta spada, affinché io beva il sangue e ti narri il vero”[9]. Anche nel racconto di Virgilio, Enea, seguendo le indicazioni della Sibilla estrae dal fodero la spada puntandola contro le potenze tenebrose. Inoltre poiché la spada taglia, divide, separa, rappresenta la facoltà del discriminare il vero dal falso.
  2.  
  3. L’eidolon del morto o il fantasma è legato al corpo fisico, perché è la sua fedele immagine. Solo con la distruzione completa potrà trovare pace dopo che il suo corpo o le sue ceneri sono state messe sotto un tumulo, nel seno della madre terra. Solo la terra rende impotente questa immagine facendola piombare in uno stato di torpore, il riposo eterno dei riti funebri. L’annichilamento di una tale anima immagine non può essere istantaneo, può durare anche molti secoli essendo essa formata  da elementi materiali.
 
Nell’Eneide, Virgilio, fa dire alla bella regina Didone, che si toglie la vita per amore di Enea:
 
Vixi et quem dederat cursum Fortuna peregi, et nunc magna mei sub terras ibit imago …
Ho terminato la mia carriera terrestre, l’immagine della mia persona[10], va ora a discendere nel seno della madre terra.[11]
 
Nell’antica Roma, Servio[12], insegnava che l’anima sale al cielo, il corpo si disfa nella terra e l’umbra, creata col corpo fisico, perisce con esso, non è il corpo reale, ma un’immagine che non si può toccare, come il vento. Agli Inferi o nell’Ade, si recano soltanto le immagini o i simulacrum dei morti, queste immagini possono vagare nei sogni dei viventi, oppure possono essere evocate come fa Odisseo. Cerbero, il mostro canino che stava di guardia all’Ade è il simbolo degli innumerevoli mostri che popolano l’Oltretomba, dei gusci vuoti dei mortali.
 
Le altre anime che si affollano attorno alla fossa sono descritte come guerrieri che reggono ancora le armi insozzate di sangue quale immagine del loro corpo al momento della morte in battaglia. Secondo l’antica tradizione misterica, le morti violente, l’esposizione del cadavere all’aria, fanno soffrire il suo eidolon, che muore solo con la dissoluzione dell’ultima particella di materia che componeva il suo corpo. Queste anime o simulacri vagano attorno ai loro resti corporei fino a quanto essi non venivano ricomposti e sepolti. Odisseo, per ben tre volte cerca di abbracciare la madre e questa gli s’invola fra le mani “simile a ombra o a sogno[13].
 
Gli stregoni, i praticanti della negromanzia, si servivano e si servono ancora di questa conoscenza per obbligare gli Eidolon ad allucinare le menti[14] delle loro vittime per scopi delittuosi.
 
Odisseo nell’Ade ravvisò la forza di Ercole, cioè il suo fantasma, la sola parvenza di Ercole, descritta da Omero: “simile a nera notte con arco nudo e freccia, con torvo sguardo”. Omero[15] aggiunge che in realtà Ercole si diletta fra gli Dèi immortali. Nell’Ade si recano le immagini, i simulacra, gli eidolon, degli uomini, ma non le loro anime immortali che soggiornano fra gli Dei.
 
Virgilio, Ennio, testimoniano questa dottrina, in particolare Ennio scrive negli Annali:
 
A proposito della dottrina pitagorica … Lucrezio ha tracciato il quadro delle regioni sacre dell’Acheronte, dove non abitano né i nostri corpi, né le nostre anime, ma solo i nostri simulacri, la cui lividezza è uno spettacolo spaventoso.[16]
 
Gli antichi filosofi erano assolutamente contrari all’evocazione delle anime dei morti, perché chiarisce Psèllo[17]:
 
Non riportatela (l’anima) in terra, affinché ritirandosi non porti con sé qualcosa di terreno …
Voi non siete preparati a contemplarle prima che il vostro corpo non sia stato iniziato, perché per effetto di un inganno costante, esse seducono le anime di coloro che non sono stati Iniziati.[18]
 
È necessaria una potente attrazione magnetica per riportare un’anima spirituale nella densa atmosfera terrestre e una volta giunta, l’anima non potrà evitare di portare con sé qualcosa di terreno di cui dovrà liberarsi con molta sofferenza, prima di ritornare nella sua radiosa dimora. Psello, lancia un severo monito a coloro che non sono stati Iniziati di cercare il contatto con queste ombre, perché come dice Giamblico, è molto difficile distinguere un demone buono da uno malvagio. Platone[19] nelle Leggi prescrive a coloro che si dedicano alla negromanzia che siano condannati ed isolati dalla società:
 
Quelli che invece, simili a bestie, oltre a non credere all'esistenza degli dèi, o a ritenerli negligenti o corruttibili, disprezzano gli uomini, e incantano l'anima di molti viventi, vantandosi di saper evocare i morti e promettendo di persuadere gli dèi, come se li potessero raggirare con sacrifici, preghiere, ed incantesimi, e mettono mano, per sete di ricchezze, alla completa rovina di privati cittadini, delle famiglie intere e degli stati, per colui che fra costoro risulti dunque colpevole, il tribunale per quello stabilisca che sia condannato al carcere che sta in mezzo alla regione, secondo la legge, e mai alcun uomo libero si avvicini a questa gente, ed essi ricevano il vitto stabilito dai custodi delle leggi da parte dei servi. Quando muore, sia gettato fuori dai confini senza sepoltura; e se un uomo libero presterà il suo aiuto per seppellirlo, sia perseguito da chi vuole con l'accusa di empietà.

[1] Odissea, X, 490 – 495.
[2] Vedi Lucrezio: “Sulla natura delle cose (De rerum natura)”, Libro IV. Se al centro del Libro III era la discussione sulla natura dell'anima (intesa, secondo i dettami della filosofia epicurea, come un aggregato di atomi), il IV Libro introduce la dottrina dei simulacra , termine col quale traduce la parola che in Epicuro (e in Democrito) designava le rappresentazioni di costituzione atomica delle cose: gli eidwla.
[3] La seconda morte.
[4] Il Flegetonte in greco l’ardente era, nel Tartaro, il fiume in cui il candidato all’Iniziazione veniva immerso per tre volte dall’Iniziatore, dopo di che egli era un nuovo nato.
[5] L’Arca dei Sumeri era un cubo di 60 unità di lunghezza per lato.
[6] C. Pascal - L’oltretomba omerico: La morte e l’aldilà nel mondo pagano.
[7] Affinché l’anima del morto potesse attraversare l’Acheronte era necessario che il corpo fisico fosse stato sepolto.
[8] C. Pascal, L’oltretomba omerico: La morte e l’aldilà nel mondo pagano.
[9] Odissea,, XI, 95, 96.
[10] Il mio spettro glorioso.
[11] Eneide, IV, 654.
[12] Servio, Ad Aen. IV, 654.
[13] Odissea, XI, 207.
[14] S. Atanasio, fu accusato di praticare magia nera per aver conservato la mano del vescovo Arsenio in vista di operazioni magiche.
[15] Odissea, XI, 601.
[16] Ennio, I, 112 – 126.
[17] Psèllo Michele, scrittore, professore di filosofia e uomo politico bizantino, di cultura vastissima ravvivò in Costantinopoli lo studio di Platone, la cui filosofia cercò di conciliare col cristianesimo.
[18] Psello in Alieb., Chaldean Oracles.
[19] Platone, Le Leggi, 125.
 
INSEGNAMENTI TRADIZIONALI RIGUARDANTI L’UOMO
 
Pitagora, Platone, Timeo di Locri e tutta la Scuola d’Alessandria, dicevano che l’anima umana procedeva dall’Anima Universale (Aether). Empedocle credeva fermamente che tutti gli uomini e gli animali possedessero due anime. Aristotele chiama una di esse anima razionale, Nous[1], e l’altra anima, animale. Omero e Aristotele[2], in accordo con questa filosofia chiamano:
 
  • Nous, Anima razionale o Anima spirituale.
  • Psiché, Anima mortale che si divide in:
     
    1. Tumoides, Phren (secondo Pitagora), la parte unita allo Spirito, Anima umana.
    2. Thumos, l’Eidolon dei Misteri, la parte legata alla materia, Anima animale.
 
Platone e Pitagora, dice Plutarco, dividono l’anima in due parti: la razionale (poetica) e l’irrazionale (agnoia): quella parte razionale dell’anima dell’uomo è eterna; ma quella parte dell’anima che è priva di ragione (agnoia) muore. Platone insegnava che, quando Psiché si unisce al Nous, compie tutto il bene, ma quando si unisce all’anima irrazionale, va verso l’annientamento e il dolore. Plutarco seguendo l’insegnamento di Platone scrive:
 
L’uomo è un composto; sono in errore quelli che lo credono composto da due parti… Poiché l’intendimento (Nous) è tanto superiore all’anima (Psiché) quanto l’anima è migliore è più divina del corpo (thumos). Ora quest’unione dell’anima con l’intendimento genera la ragione; e l’unione di essa con il corpo forma la passione… Di queste tre parti congiunte ed unite assieme, la terra ha dato il corpo, la luna l’anima, il sole, l’intendimento…
La luna è l’elemento di queste anime, perché queste anime si dissolvono in essa come i corpi dei deceduti nella terra.
 
Plutarco afferma che: alla terra ritorna il corpo fisico, alla luna ritorna l’anima istintiva, al sole o all’Agathon (Padre Divino) ritorna la ragion pura. Il linguaggio usato da Plutarco è simbolico anche se più comprensibile di quello di Platone.
 
Servio, spiegava a Lucano il mistero della morte e della costituzione dell’uomo:
 
Dicevano i Filosofi (gli Iniziati alla conoscenza misterica) che, dovendo ogni cosa ritornare all’origine sua, l’anima che è parte di Zeus deve tornare al cielo e il corpo alla terra. E come qui l’ombra segue il corpo, risultando quasi dell’una natura e dell’altra (anima e corpo), così devono esservi alcunché di diverso dall’anima e dal corpo, che andava agli Inferi.
Gli uomini sono due volte due; anima (animale) e corpo; spirito e spettro. Questi quattro luoghi accolgono i due volte due. La terra ricopre la carne, lo spettro si aggira intorno al tumulo, l’anima sta nell’Averno, lo spirito va verso le stelle.[3]
 
Il mistero delle due morti
 
La prima morte è quella subita nel corpo fisico ed avviene secondo Plutarco, quando Ermes improvvisamente e con violenza strappa l’anima dal corpo. La prima morte, è sperimentabile in vita attraverso le pratiche misteriche dell’Iniziazione e pertanto ha luogo nella regione sotto la giurisdizione di Demetra (Iniziazione), e per questo, il nome dato ai Misteri telei, rassomiglia a quello dato alla morte teleutai. Plutarco spiega che l’uomo è triplice, composto di:
 
  1. Corpo fisico di carne e sangue;
  2. Thumos o l’Eidolon dei Misteri;
  3. Ragione o Tumoides, Phren.     
 
Ora delle due morti di cui moriamo, l’una fa che l’uomo da tre diventi due, e l’altra che da due diventi uno. La prima ha luogo nella regione sotto la giurisdizione di Demetra, e per questo il nome dato ai Misteri telei, rassomiglia a quello dato alla morte teleutai … Quanto all’altra morte, essa ha luogo nella luna o regione di Persefone.
 
La seconda morte, quella definitiva per l’essere mortale, avviene secondo Plutarco nella regione o dominio di Persefone, colei che regna nell’Ade. Per l’eidolon umano, questa seconda morte inizia quando l’Ego cosciente e pensante, il Sé superiore, si separa dai suoi principi inferiori, lo spettro, che rimanendo privo del suo principio pensante e non avendo più un cervello fisico attraverso il quale agire, si estingue. Questo fantasma è paragonabile ad una medusa che ha un’apparenza eterea finché sta nel proprio elemento, l’acqua. Per gli animali, la seconda morte avviene con la disintegrazione fino all’ultimo degli atomi come componevano il loro corpo psichico. Il Neoplatonico Proclo ha descritto le fasi della seconda morte:
  
Dopo la morte, l’anima continua a fluttuare nel corpo aereo fino a quando sia completamente purificata da ogni passione nutrita di volontà o di collera … allora attraverso la seconda morte, si sbarazza del corpo aereo come si era sbarazzata del corpo fisico, e poi, gli antichi dicono che esiste un corpo celeste unito all’anima che è immortale, luminoso, simile ad una stella.
 
La Luna o regione di Persefone è l’Ade, gli Inferi, dove sono lentamente disintegrati i principi non spirituali. Prima che questa seconda morte avvenga, è necessario che nelle praterie dell’Ade, Persefone separi la parte corruttibile da quella incorruttibile. Plutarco a questo proposito scrive che:
 
Sia con l’una, la terrestre, sia con l’altra, la celeste, Ermes dimora. Improvvisamente e con violenza strappa l’anima dal corpo; ma dolcemente e in un periodo lungo, Proserpina separa l’intendimento dall’anima … è decretato dal fato che ogni anima con o senza intendimento, quando è uscita fuori dal corpo, debba vagare per un certo tempo – che non è uguale per tutti – nella regione che giace fra la terra e la luna. Così che coloro che sono stati ingiusti soffrono allora la punizione per le offese fatte; i buoni e i virtuosi vi sono invece trattenuti finché si siano purificati[4]… vivendo nella regione più mite dell’aria, chiamata le Praterie dell’Ade, dove devono restare per un tempo prefissato e stabilito. E in seguito come se ritornassero alla loro patria[5] dopo un interminabile pellegrinaggio o da un lungo esilio, assaporando una gioia simile a quella che provano coloro che sono Iniziati ai Sacri Misteri.
 
Gli stadi post mortem
 
La teologia cristiana ci ha trasmesso l’informazione di tre stati post mortem: un inferno eterno, dove il fuoco brucia i peccatori, anche se i peccati sono stati commessi in un periodo limitato di fronte all’eternità; un purgatorio in attesa del paradiso; il paradiso luogo di felicità eterna e dove ingenuamente descritto dai commentatori cristiani medioevali, come un noioso luogo dove si canta e si suonano le arpe. Per l’insegnamento tradizionale greco questi stati erano:
 
  1. L’Ades, gli Inferi.
  2. Le Praterie dell’Ade, il luogo di purificazione.
  3. I Campi Elisi o celesti.
     
Quando L’Agathon, il Nous, il Phren si separano dai principi inferiori, avviene la seconda morte[6], quella del riflesso, la personalità dell’individuo. Inizia una lenta disintegrazione di tutte quelle particelle che compongono l’Eidolon. Questo è il segreto dell’Ade, della Ghenna ebraica, un deposito di ombre, un immondezzaio di forme che lentamente si disintegrano.
 
La luna è l’elemento di queste anime perché in essa si dissolvono come i corpi deceduti nella terra. Quelle che in verità sono state virtuose ed oneste e che hanno avuto una vita tranquilla e filosofica … si disintegrano rapidamente, abbandonate da Nous e non servendosi più delle passioni corporali, scompariranno senza indugiare.
 
Lasciato nelle praterie dell’Ade il rivestimento materiale, l’anima può avviarsi verso gli Elisi uno stato ininterrotto di beatitudine ma non eterno.  

[1] Gli Egiziani adoravano l’Unico, il Nout, e da questa parola Anassagora derivò la denominazione di Nous.
[2] S. Paolo sosteneva che vi era un corpo psichico seminato in quello corruttibile e un corpo spirituale che ascende e che è formato da sostanza incorruttibile. S. Giacomo, nella sua Terza Epistola, esprime il concetto del Doppio Aspetto della saggezza: la saggezza (intelligenza) diabolica e terrestre e la saggezza dall’alto.
[3] Servio, Ad Aen. IV, 654
[4] Il Purgatorio dell’insegnamento cristiano.
[5] Il ritorno di Odisseo.
[6] Giovanni, nel Quarto Vangelo scrive: “Io (Christos) sono la Vite , voi siete i tralci. Se un uomo non rimane in me, cioè nello spirito, è gettato via come un tralcio ed è seccato e buttato nel fuoco a bruciare”. I tralci secchi sono il rivestimento animale  le anime animali, gli Eidolon.
OTTAVA PROVA - LE SIRENE – LE ROCCE COZZANTI SCILLA E CARIDDI – L’ISOLA DEL SOLE
 
Odisseo, iniziato da Circe, ha impunemente sollevato il velo che nasconde in segreti dell’Oltretomba. Omero scrive che, temendo che Persefone, gli inviasse la testa di Medusa (le incontrollabili forze tenebrose degli Inferi), Odisseo si allontana dalla pozza per far ritorno all’isola di Circe. La dea dalla voce melodiosa li accoglie sulla spiaggia con la consueta generosità e parla ad Odisseo ed ai compagni con affetto. La notte, mentre tutti dormono, la dea si avvicina all’eroe, lo prende per mano conducendolo in un luogo dove possono parlare da soli e gli domanda del viaggio agli Inferi (Od. XII, 33-34)11. Poi gli fornisce altre informazioni utili sui pericoli che incontrerà, le Sirene, Scilla e Cariddi, le vacche del Sole.
 
Il Viaggiatore lascia l’isola di Circe e si allontana con la sua nave e gli uomini rimasti. L’immagine dell’isola in Omero serviva ad indicare un luogo che non è un luogo, ma un punto di forza che fatalmente, percorrendo gli itinerari di questi eroi, non si può non incontrare. Le isole in questione trasmettono l’idea dell’isolamento minaccioso, dell’invalicabilità metafisica, la rappresentazione di qualcosa interdetta all’uomo.
 
 
IL CANTO DELLE SIRENE

Che cosa vi è nel santuario di Delfo? La Tetractis perché in essa è l’Armonia, nella quale sono le Sirene[1]
 
Lungo la via del ritorno, Odisseo s’imbatte nell’isola delle Due Sirene alla cui voce nessuno sapeva resistere. Nei pressi dell’isola delle Sirene, la nave sembra essere prigioniera della bonaccia. Niente spaventava di più gli antichi naviganti, quanto la situazione di stallo che creava la bonaccia. Il sole sfolgora, ma non vi è un alito di vento, tutto è fermo, non c’è più quello che può essere considerato il respiro del mare e della terra.
 
Nelle raffigurazioni più antiche, le Sirene non sono donne dalla coda di pesce ma esseri alati con corpo di uccelli e volto di fanciulle. Forse in esse si può ravvisare l’immagine di guardiane di una soglia vietata ai mortali. Una soglia che conduce alla conoscenza di un remoto sapere, oramai agli uomini per sempre vietato.
 
Tu arriverai, prima, dalle Sirene, che tutti
gli uomini incantano, chi arriva da loro.(XII, 39-40)
 
Sirena viene da ειρω, “lego, incateno tramite un canto magico”. Un canto magico di morte che interdice a chi non sia predestinato l’ingresso alla dimensione degli immortali. Un canto esiziale che rammenta “il maleficio funesto” a cui allude Demetra, quando si accinge a rendere immortale Demofonte. Le Sirene non incantano tutti gli uomini, bensì tutti quelli che arri vano da loro. La prima informazione è quella che il canto delle sirene non è per tutti, ma solo per i predestinati.  Anche Ulisse è immobile, come il mare e il vento, perché legato all’albero della nave, quasi che in lui si rispecchi la natura del posto, un posto dove la vita è sospesa.
 
A colui che ignaro s’accosta e ascolta la voce
delle Sirene, mai più la moglie e i figli bambini
gli sono vicini, felici che a casa è tornato,
ma le Sirene lo incantano con limpido canto,
adagiate sul prato: intorno è un gran mucchio di ossa
di uomini putridi, con la pelle che si raggrinza.
Perciò passa oltre: sulle orecchie ai compagni impasta
e spalma dolcissima cera, che nessuno degli altri
le senta. Tu ascolta pure, se vuoi:
mani e piedi ti leghino nella nave veloce
ritto sulla scassa dell’albero, ad esso sian strette le funi,
perché possa udire la voce delle Sirene e goderne.
Se tu scongiuri i compagni e comandi di scioglierti,
allora dovranno legarti con funi più numerose.(Od. XII, 41-54)
 
L'insegnamento della musica e del canto era impartito nella Scuola Pitagorica e faceva parte dell'educazione greca in generale. Odisseo è rappresentato intento ad ascoltare il canto delle Sirene, le quali secondo gli Acusmatici compaiono nella Tetractis e secondo Platone costituiscono l’armonia delle sfere.
 
Il simbolismo misterico delle Sirene è completamente estraneo alla concezione ordinaria delle Sirene, e deve spiegarsi con la loro identificazione con l’Armonia delle Sfere. Platone nel mito di Er, spiega allegoricamente l’Armonia delle Sfere, collocando su ciascuna delle Sfere una Sirena, un Suono in ogni sfera che fa sentire la sua voce. L’Armonia delle Sfere è la voce delle Sirene o dei Sette Suoni Primordiali. Plutarco vede in Odisseo il filosofo che ascolta quest’armonia emanata dalle Sirene per Iniziarsi alla Sapienza Divina. Odisseo deve decidere se continuare la Via come Iniziato e Istruttore, oppure se terminare il suo viaggio e ritirarsi egoisticamente nella beatitudine divina.
 
Omero narra se Ulisse accetterà l’offerta delle Sirene e ascolterà il loro richiamo morirà. Le ossa sparse tutt’intorno testimoniano il destino che attende chiunque lasci la propria rotta e segua il loro canto. Muore nella materia abbandonando il corpo fisico di cui resteranno a testimonianza le bianche ossa. Le Sirene simboleggiano l’adescamento della beatitudine celestiale, o come dicono gli Indù “l’assaggio del succo di Soma”, cioè accettare la beatitudine come fine, invece di procedere oltre. Ulisse rinuncia al riposo spirituale recludendo dalla sua Via il Suono e si lega all’albero della nave, simbolicamente l’Albero della Vita e procede oltre senza fermarsi.
 
Le rocce cozzanti o vaganti
 
Le Rocce Cozzanti rappresentano la prima delle due rotte alternative, la seconda è Scilla e Cariddi. Odisseo per raggiungere l’Isola dei Beati, deve passare con la sua nave fra due rupi altissime che si cozzano l’una contro l’altra.
 
Quando i tuoi compagni le avranno oltrepassate
allora non potrò più dirti con certezza
quale sarà la tua strada: dovrai sceglierla tu,
nel tuo animo, tra le due che ora io ti dirò.
Nella prima strada ci sono rocce scoscese, si scagliano
con fragore le onde di Anfitrite dagli occhi scuri:
gli Dei le chiamano Rocce Vaganti.
Di lì non passano neppure gli uccelli, né le timide
colombe che portano l’ambrosia al padre Zeus;
un picco di roccia ne imprigiona sempre qualcuna
e il padre Zeus deve mandarne un’altra a sostituirla.
A queste rocce non è sfuggita nessuna nave che sia giunta lì,
le onde del mare e il vortice del fuoco distruttore
trascinano via insieme assi di navi e corpi di uomini;
una sola nave di lungo corso riuscì a superarle:
la celebre nave Argo, che tornava dal paese di Aieta anche lui sarebbe finito contro le grandi rocce:
la salvò Hera, perché proteggeva Giasone.
(Odissea Libro XII, 54-72)
 
Le colombe che vanno a prendere l’ambrosia per il Padre Zeus al di là delle Planctai Petrai, pagano l’attraversamento sempre a prezzo di una di loro, che resta intrappolata al passaggio fra gli Scogli Cozzanti. Circe dice ad Odisseo che solo la nave Argo con Giasone e il Vello d’Oro riuscì a passare fra queste rocce.
 

Figura 1. Le rocce cozzanti
 
Le Pleiadi furano immaginate come colombe, peledaies, inseguite dal cacciatore Orione. Si diceva che una delle colombe ogni tanto cadesse vittima del cacciatore o fosse schiacciata dalle rocce mobili, cozzanti, le Simplegadi. Nel Rig Veda (VI, 49, 3), gli Scogli Cozzanti, sono dei periodi, vale a dire il giorno e la notte, che, si dice, “cozzano l’uno contro l’altro” e si separano. Ai confini del Mondo, la Porta del Mondo di luce celestiale si trova là dove Cielo e Terra si abbracciano e le Estremità dell’Anno si ricongiungono[2]. La fessura fra le due rocce è l’orizzonte che separa la Terra dal Cielo.
 
Questa è la rappresentazione della Porta Attiva che di colpo si chiude come le fauci della morte, la bocca del Guardiano di Soglia, il Levitano. Di norma la Porta è chiusa, solo una Sapienza (Atena) superiore a quella umana può aprire. Questa è la Porta di Juana Coeli, la Porta del Sole. Le rocce cozzanti sono gli opposti, Cielo e Terra, e la fessura in mezzo è l’orizzonte, la via sottile come la lama di un rasoio. Dall’equilibrio degli opposti, quali beni e mali, simpatia e antipatia, caldo e freddo ecc., si crea il sentiero stretto come la lama di un rasoio o come la cruna di un ago.
 
Il mito raccontato da Omero delle isole vaganti nell’oceano ha una sua radice cosmogonia, perché i mondi nelle varie mitologie sono sempre stati rappresentati con fiori di loto galleggianti sulle Acque dello spazio. L’isola di Rodi è l’isola della Rosa, equivalente greco del loto, una terra emersa dalla profondità del mare. Si dice che il Sole ne fece la sua dimora e da lei generò sette Figli. Su questa isola del Sole fu posto il famoso Colosso di Rodi. Questo Colosso era un’immagine del Sole ed era posto all’imboccatura del porto con le gambe divaricate attraverso cui dovevano passare le navi. Le gambe formavano le due colonne, i due stipiti (jambs) della Porta del Sole. Giovanni ebbe la visione e poi scrisse l’Apocalisse (Rivelazione) quando risiedeva nell’isola di Patos, isola anch’essa sorta dal mare. Nel decimo capitolo (numero che chiude il ciclo), Giovanni descrive un Angelo possente che aveva la faccia come il sole e le gambe come colonne di fuoco. Nella mano teneva un piccolo libro aperto[3]. Avendo posto il piede destro sul mare e il sinistro sulla terra. L’immagine descritta da Giovanni è quella del Guardiano della Porta del Sole, della Porta Divina. Le due gambe di fuoco sono gli stipiti, gli opposti che poggiano uno sul mare, l’altro sulla terra ferma.
 
Scilla e Cariddi
 
Sull’altra strada ci sono due scogli: uno raggiunge il vasto
cielo con la sua cima aguzza, lo circonda una nuvola scura;
su quella cima il cielo non è mai sereno né d’autunno né d’estate: nessun uomo mortale
ci si potrebbe arrampicare e raggiungere la cima,
neppure se avesse venti mani e venti piedi:
la roccia è liscia come se fosse stata levigata.
Nel mezzo dello scoglio c’è una caverna rivolta verso le tenebre dell’Erebo, a occidente; lì voi
dovrete dirigere la vostra nave profonda, splendido Odisseo.
Dodici sono i suoi piedi, tutti deformi;
ha sei colli lunghissimi e ognuno ha una spaventosa: ogni bocca ha tre fila di denti
fitti e numerosi, pieni del nero della morte.
Metà del suo corpo sprofonda nella grotta
e dal baratro sporgono le teste.
Vicino vedrai un altro scoglio, Odisseo, ma più in basso
e vicino al primo (alla distanza di un tiro di freccia):
là c’è un grande fico selvatico, ricco di foglie;
sotto, la divina Cariddi ingoia l’acqua scura
tre volte al giorno rigurgita l’acqua, tre volte l’inghiotte
in modo spaventoso. Non trovarti là quando inghiotte!
Neppure lo Scuotitore della terra potrebbe salvarti dalla morte.
Tu dovrai accostare allo scoglio di Scilla e portare
subito la nave lontano: è molto meglio perdere
sei compagni che piangerli tutti!
(Odissea Libro XII, 73-110)
 
Odisseo scelse la via fra gli opposti, ordina ai suoi uomini di evitare le Rocce Cozzanti e di passare fra le Rocce Fisse di Scilla e Cariddi, la coppia di opposti che devono essere equilibrati procedendo sulla Via di Mezzo. Cariddi era una naiade, una ninfa figlia di Poseidone e Gea, dedita alle rapine e famosa per la sua voracità, un giorno rubò a Eracle i buoi di Gerione e ne mangiò alcuni. Allora Zeus la fulminò e la fece cadere in mare, dove la mutò in un gigantesco mostro. Cariddi come un vortice marino ingoia e rigurgita tre volte il giorno le onde e tutto ciò che le passa vicino. Cariddi passava il tempo sotto un albero di fico e tre volte il giorno ingurgitava le acque dello stretto per poi rivomitarle in mare. Si tratta di personificazioni delle selvagge correnti che si scatenavano in prossimità delle due rupi.
 
Alla sua vista, i rematori, atterriti, smettono di fare forza sui remi Odisseo riesce a rincuorarli e ad incitarli a dirigersi verso l’altra roccia. Anche lì, però, lo aspetta una dura prova: Scilla, l’orrendo mostro a sei teste e dodici piedi. Ulisse scordò gli ammonimenti di Circe, si armò e aspettò Scilla. Originariamente era una bellissima ninfa dagli occhi azzurri del mare dalla bellissima voce fu trasformata e in mostro a sei teste che latrava da Circe.
 

 
Figura 2. Scilla (rovescio DÌ un tetradracma DÌ Akragas, fine del V sec. a. C.)
 
Nella lotta che si scatena con il mostro, sei compagni di Ulisse come aveva predetto Circe vengono uccisi. Odisseo pagò la ritrovata voglia di guerra perdendo altri sei compagni. Scilla aveva sei teste, poste su lunghissimi colli, Odisseo nello scontro con il mostro perde sei compagni. Le bocche avevano tre file di denti, in totale 2x3=6 file di denti per bocca. Le sei teste del mostro del mare uccidono degli uomini di Ulisse, gli distruggono sei qualità negative legate ancora alla lotta cruenta. Sei teste di Scilla per un totale di 6x6=36 file di denti. Per effetto della duplice pulsazione Quaternaria, si ha l’espressione completa della Tetractis che secondo quanto afferma Plutarco, era chiamata dai Pitagorici il Mondo: 2+4+6+8+1+3+5+7=36. Il numero 36 è anche legato al conteggio del tempo, al ciclo. Le sei file di denti per bocca triturano le forme e riportano il tipo di materia che le componeva allo stato indifferenziato. Precedentemente il popolo dei Lestrigoni che dimoravano all’interno di una stretta apertura sul mare, sono descritti da Omero mentre infilzavano gli uomini come pesci per poi mangiarseli. La stretta apertura è l’immagine di una bocca sul mare, i Lestrigoni sono l’immagine dei denti. In seguito Polifemo mangia sei uomini di Ulisse, Scilla continua l’opera con altri sei uomini: “Così quelli erano trasportati verso la caverna, mentre si dibattevano. Al primo varco, Scilla li divorò mentre urlavano”. Scilla nell'Odissea latrava come un cane nata da Forco e dalla ninfa Cratèide; è opinione di alcuni che il nome sia un epiteto, la «Forte», per indicare una divinità che non si vuole menzionare.
  
Odisseo prima di partire chiese a Circe se mai riuscisse a scampare a Cariddi come potrebbe difendersi se Scilla gli portasse via i compagni. La dea luminosa rispose: “Pazzo, tu sempre azioni di guerra hai nel cuore, e lotta; non cederai davanti ai numi immortali?[4].
 
È molto meglio fuggire e chiedere aiuto a Crataeis,
la madre di Scilla, che la generò per la rovina dei mortali lei
potrà evitare che si scagli di nuovo contro di te.
 
Odisseo precipita in mare e dopo aver assistito imbelle alla morte dei suoi compagni d'avventura, riesce a scampare alla tragedia soltanto per l'intervento e la protezione concessagli da Cratèide, madre di Scilla, dall'eroe greco invocata dopo il suggerimento di Circe.

[1] Catechismo degli Acusmatici
[2] Ananda K. Coomaraswami, Il Grande Brivido, cap. Le Simplegadi, pag 483, Adelphi.
[3] Il libro aperto che Giovanni prese dall’Angelo e quello della Sapienza Divina. Giovanni mangiò il Libro sentendo nella sua bocca la dolcezza del miele e nelle viscere il suo opposto, l’amarezza. L’episodio tratta dell’Iniziazione di Giovanni.
[4] Odissea, XII, 116 – 117.
L’ISOLA DEL SOLE
 
Odisseo nonostante il parziale fallimento passa oltre e va verso l’Isola del Sole, dalle Tre Corna, la Trinacria. Quest’isola non sta indicare in primo luogo la Sicilia o, per lo meno, non è il riferimento a un luogo fisico che importa rilevare.
 
Circe prima della partenza avvisò Odisseo che non doveva rapire o uccidere sull’isola le vacche del Sole o di Iperione, sette mandrie, cinquanta capi ciascuna. Faetusa (la luce) e Lampezia (la risplendente) sono le guardiane, due ninfe dai riccioli belli. Odisseo e i suoi uomini approdarono all’isola del Sole e mentre il Pensatore, Qui Ulisse fece fare il giuramento ai suoi uomini di non mangiare la carne delle vacche per non attirare l'ira del dio del sole.
 
Significato del numero 50
 
Ilo, il progenitore dei Dardanidi, giunse In Frigia, in una località, dove partecipò a dei giochi che erano già iniziati, voluti da un re di cui si tace il nome, li vinse ed ebbe come premio 50 giovani e 50 fanciulle e una vacca multicolore come la vacca dei Kabiri. La Vacca kabirica è analoga ad Io la Dea trasformata in vacca[1] nel mito di Prometeo, e rappresenta la fertilità, la progenie della Grande Madre, cioè le sette razze umane. Le mandrie nell’isola del Sole erano appunto Sette, come le razze. Il numero 50 delle vacche o delle persone indica il tempo della Fenice che spetta a ciascuna razza nazione o gruppo etnico.
 
I racconti mitici riguardanti le vicende di Io trasformata in vacca e di Ercole che ruba nell’isola del sole morente, Eritia, i buoi rossi di Gerione, per poi traghettarli e portarli verso oriente, in giro per l’Europa, alludono a popoli.
 
Cinquanta erano le figlie di Danao, e cinquanta gli oscuri figli di Egitto. Cinquanta ancelle erano in casa di Alcinoo, il re dei Feaci, alcune schiacciavano il frumento, altre tessevano. La prima nave a cinquanta remi affidata a Giasone fu costruita per 50 rematori, gli Argonauti, con il legno delle querce di Dodona, da Argo su consiglio di Atena e dal suo costruttore prese il nome. Il periodo fra due celebrazioni o giochi ad Olimpia era di 50 mesi, mentre l’intervallo vero e proprio era di 49 mesi.
 
Anche le vicende di Eracle o Ercole sono legate con il computo del Tempo. Secondo Diodoro, il cui racconto si fonda sul Timeo[2], Eracle si sposò con 50 figlie di Thespio, le Thespiadi, dalle nozze con le cinquanta fanciulle o secondo un’altra versione con 49 fanciulle. Le fanciulle erano 50, ma una di loro non si sarebbe unita con Eracle, per cui ne fecondò 49 (7x7 = numero dei rinnovamenti della Fenice). Dalle nozze sarebbero nati 50 o 52 figli, cioè il numero delle settimane che compongono l’anno, un ciclo di 50 settimane per l’anno lunare e di 52 settimane per l’anno solare. Le fanciulle lunari generano dei figli, delle unità di tempo minori. Il periodo delle feste di Eros, il dio del desiderio e della generazione sessuale, le Erotidia a Thespio, presso Tebe, era appunto uguale a quello delle Olimpiadi, ed entrambi i periodi seguivano l’antica legge del rinnovamento scandito dal cinquantesimo mese, in ricordo del rinnovamento generale scandito dal cinquantesimo Anno Divino.
 
La completa perdita dei poteri personali
 
Per molti giorni seppero tener fede al giuramento ma dopo aver terminato le provviste presenti sulla nave, non resistettero più e si cibarono delle bestie sacre approfittando della momentanea assenza del loro capo.
 
I compagni sono estenuati dalla fame e Ulisse è assente: gli dèi lo hanno addormentato. Euriloco, il sé personale si pone come il capo, che si fa carico delle sofferenze dei suoi uomini e fa un discorso decisivo per la violazione del giuramento di non toccare le vacche del Sole.
 
Su, dunque, portiamo via le vacche più belle di Helios
e immoliamole agli immortali che abitano il vasto cielo.
E se mai giungeremo a Itaca, la nostra patria terra,
subito costruiremo un ricco tempio a Helios Iperione,
e vi porremo offerte votive in gran numero e belle.
(Od. XII, 343-347)
 
Mentre Ulisse, Odisseo, dormiva (per la seconda volta), i suoi compagni, i poteri della personalità, uccidono e mangiano per sei giorni molti animali del gregge. Ricompare il numero sei, come nell’episodio precedente, sei uomini sei teste della mostruosa ninfa. La ninfa Lampezia, la Risplendente, coinvolge nell’accusa al padre Helios anche Ulisse che si era fieramente opposto all’atto sacrilego contro le vacche del Sole: “Se non mi pagheranno compenso adeguato alle vacche, scenderò nella casa di Ade e risplenderò tra i morti”.
 
Odisseo, non riesce a controllare i suoi poteri personali, i suoi guerrieri, e li lascia liberi di uccidere, come conseguenza, al settimo giorno Zeus scatena contro gli uomini di Odisseo una tempesta, un forte vento d’Occidente, e scaglia un fulmine sulla nave che ruotando su se stessa affonda con tutto l’equipaggio. Ulisse, perduti tutti i suoi uomini, i suoi poteri personali, si salva legandosi per la seconda volta all’albero e alla carena.
 
Narrami, o Musa, dell’eroe multiforme, che tanto
vagò, dopo che distrusse la rocca sacra di Troia:
di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri,
per acquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni.
Ma i compagni neanche così li salvò, pur volendo:
con la loro empietà si perdettero,
stolti, che mangiarono i buoi del Sole
Iperione: ad essi egli tolse il dì del ritorno.
(Proemio Odissea)
 
Tuttavia, dopo che Iperione e Zeus scatenano un tempesta che distrussero la sua nave. La tempesta lo riporta indietro e ripassa fra Scilla e Cariddi. Ad un passo dalla meta, quelle che credeva forze già domate, si scatenano facendo un gran danno. Al sorgere del sole Ulisse, rigettato contro gli scogli dal flusso di Cariddi, si aggrappa a un ramo del fico selvatico.
 
… là c’è un grande fico selvatico, ricco di foglie;
sotto, la divina Cariddi ingoia l’acqua scura
 
Il fico e l’ulivo sono fra gli alberi più antichi del mondo. Entrambi gli alberi erano considerati doni divini e quindi ieratici e, per questo, erano piantati presso i Templi o sui «monti sacri», l’ulivo e il fico condividono il ruolo di «Asse del Mondo». Il fico era venerato già presso gli Egizi, dove era sacro sia a Iside sia ad Osiride. Il legno di fico era adoperato per la realizzazione dei sarcofagi, albero della vita e della morte, e si pensava che Osiride rinascesse al rinascere del fico sacro in primavera. Per questo l’albero era simbolo della rinascita, dell’eternità, della vittoria della vita sulla morte e, in ultima analisi, della stessa Fenice.                                                  
 
Un albero di fico era sempre presente nel Foro romano perché considerato di buon auspicio. Ogni volta che l’albero moriva, era sostituito da uno nuovo. Dallo stato di salute del «Fico ruminale» si traevano auspici importanti per la città, perché pare si ritenesse che se l’albero fosse seccato sarebbero accadute sciagure e calamità.
 
 
Figura 1. Ulisse aggrappato a un ramo di un fico[3]
 
Con un tronco-albero di ulivo Ulisse acceca Polifemo, all’albero della nave si lega per non cedere alle tentazioni delle Sirene, in un albero di fico trova la salvezza dal gorgo di Cariddi, in un albero di ulivo egli costruisce il proprio talamo nuziale. Ulisse rimase aggrappato al fico in attesa che il riflusso delle onde gli restituisca la chiglia della nave ingoiata dai flutti.
 
Quei legni comparvero fuori da Cariddi.
Da sopra lasciai andare i piedi e le mani,
e caddi con un gran tonfo nel mezzo, accanto ai lunghi legni,
e su di essi seduto mi diedi a remare con le mie braccia
 
Per nove giorni fu trascinato dai flutti, Al decimo giorno Odisseo venne gettato sulla spiaggia dell’isola dove abitava Calipso la dea dai riccioli belli, che lo ospitò e si prese cura di lui. Ulisse rievoca l’arrivo nell’isola di Calipso.
 
Me invece, l’infelice, al suo focolare portò un dio,
me solo, poiché la mia rapida nave con fulgido fulmine
Zeus la colpì e la spaccò nel mare del colore del vino.
(Od. VII 248-50).
 
Omero descrive il colore del mare rosso come il vino, allusione a Dioniso e ai suoi misteri.
Ogigia l’ombelico del mare
 
Secondo il racconto dell’Odissea di Omero era figlia di Atlante e viveva sull’isola di Ogigia Ὠγυγίη. Omero descrive quest’isola come “l’ombelico del mare”,lontanissima dagli uomini, forse l’isola dell’eterna gioventù, dove regna Crono, il Re dell’Età dell’Oro. Questa isola viene descritta da Ulisse come un posto paradisiaco della felicità e dell'immortalità.
 
E io(Calipso) lo raccolsi, lo nutrii e promettevo di farlo immortale e senza vecchiezza per sempre.
 
Se consideriamo che l’isola è l’ombelico del mare e che Calipso è immortale e propone ad Ulisse di donargli l’immortalità, l’isola è fuori dal tempo e dal mondo, una sorta di centro iniziatico, dove si conserva la Tradizione e di cui la ninfa è custode.
 
La Tradizione narra che l’isola di Ogigia era molto lontana dalla Grecia, in mezzo all’oceano. Plutarco colloca Ogigia a occidente della Britannia.
 
Un’isola, Ogigia, che si trova lontana nel mare, a cinque giorni di navigazione verso occidente dalla Britannia.
 
Per gli antichi Greci Ogigia era l’essenza della primordialità, qualcosa cioè che stava di là da tutto, oltre il mondo conosciuto, oltre l’esistente stesso. Era per definizione un posto incantevole, situato dove il mondo finisce di essere quello che conosciamo.
 
Zeus ordinò a me (Hermes), che non volevo, di venir qui:
e chi mai di sua volontà percorrerebbe tanto mare salso
infinito? E vicino non c’è città di mortali, che agli dèi
facciano sacrifici e scelte ecatombe.
Ma non è possibile che un altro dio trasgredisca
o renda vano il pensiero di Zeus egioco.
(Odissea, V, 99-104)
 
Come si arguisce dai versi, raggiungere l’isola non è facile e neanche gli dèi hanno interesse a visitarla. Ogigia non poteva che trovarsi agli estremi confini della Terra.  

[1] La Dea Vach degli Indù descritta nei Rig Veda come la vacca melodiosa, dalla quale discende l’umanità.
[2] K. Kerényi, Miti e Misteri, p.413-417, Adelphi.
[3] Disegno https://www.sacred-texts.com/cla/homer/aoo/aoo30.htm
NONA PROVA - CALIPSO
 
 
Immortale come tutti gli Dèi, Calipso figlia del Sole e sorella di Circe, non abitava sull’Olimpo, poiché non apparteneva alla schiera degli eletti che vi hanno dimora. Calipso raccolse Odisseo naufrago nella sua isola. La bellissima dea abitava in una caverna con molte sale, fra la rigogliosa vegetazione di ontani, pioppi bianchi e cipressi profumati, ombreggiavano la grotta della ninfa, e sui loro rami albergavano gufi, falconi, corvi marini. Queste piante sono collegate alla morte e resurrezione. Prezzemolo e giaggioli crescevano nell'orto lì accanto, che era irrigato da quattro ruscelli.
 
Una vite vigorosa tutta carica di grappoli con i suoi tralci si attorcigliava attorno alle rocce del’'ingresso. Nuovamente il collegamento con la vite, i tralci e il vino sacri a Dionisio
 
… e procedette fino alla grande spelonca in cui abitava
la ninfa dai riccioli belli. La trovò che era dentro.
Il fuoco ardeva sul focolare, un grande fuoco, e lontano
per l’isola arrivava il profumo di fissile cedro
e di tuia che bruciavano. Dentro cantava con la sua voce bella
e con l’aurea spola percorrendo il telaio, ella tesseva.
(Odissea V, 57-62)
 
 
Figura 1. Hermes e Calipso dalle belle trecce
 
Cantava la figlia del Sole, con una dolce voce e tessendo con una spola d’oro lo ristorò. Quel filo d’oro rappresentava il Sé quale continuità della Vita nella Presenza Universale e nell’universale tela o rete d’oro di tutte le esistenze.
 
Penelope tesseva, Circe tesseva, Calipso tesseva. Odisseo trova sull’isola, una dea, Calipso, l’elemento femminile, che lo rigenera, lo rinsavisce e finché Odisseo rimane sull’isola, potrà esser immortale. La Grande madre, Iside era denominata Signora della tessitura. La Grande Madre è la Signora del tempo, perché Signora della crescita. La Grande Dea quindi è anche una dea lunare, poiché la luna e il cielo notturno sono le manifestazioni evidenti e visibili della temporalità del cosmo, ed è la luna, non il sole, l’autentico cronometro dell’era primordiale.
 
La Grande Madre che tesse la vita e fila la matassa del fato, sia essa una grande tessitrice, sia essa, come spesso appare, una triade lunare. Si pensi alle tre Parche o Moire della mitologia greca. Cloto ( la filatrice), la giovane, fila le trame della vita; Lachesi (la misuratrice), la madre, la conserva e svolge il filo nel fuso; Atropo (che non può essere dissuasa), l’anziana, che rappresenta ciò che è ineluttabile, taglia il filo e la vita dell’uomo.
 

Figura 2.  Calipso che tesse e riceve la visita di Ermes - Penelope che tesse
 
Le Grandi Dee sono, dunque, in Egitto, in Grecia, presso i Germani e i Maya, tessitrici; e poiché la realtà è opera delle grandi tessitrici, tutte le attività, come l’intrecciare, il tessere, il legare, l’annodare, ecc., rientrano nelle azioni femminili che determinano il fato. La tessitura è lavoro di creazione e di parto. Quando il tessuto è terminato, la tessitrice taglia il filo che lo fissa al telaio e nel fare ciò nell’antichità essa pronunciava la formula di benedizione che recitava la levatrice rompendo il cordone ombelicale del nascituro.
 
Simbolismo del ragno
 
Calipso nella grotta del tempo tesse, con il telaio della vita, le esistenze di tutti gli esseri viventi, pronta a riceverli, quando il filo di ciascuno si spezzerà, nuovamente nel suo grembo dentro la grotta o montagna. Introdursi nella grotta e vedere la “Signora” equivale quindi a morire, perché si è penetrati nell’aldilà. Questa “morte” è alla base di ogni rito di rigenerazione, di rinascita ad una vita non più mortale. Questo racconto può essere considerato un’informazione preziosa, una fuga di antiche tradizioni concernenti i riti d’iniziazione. Calipso, la dea lunare che tesse la tela del destino aveva in passato come simbolo il ragno.
 
Il ragno[1] è la Grande Madre che determina il destino attraverso la tessitura. La ragnatela è costituita da raggi e cerchi concentrici e richiama il simbolismo della tessitura, dell’ordito e della trama. Tela e ragnatela sono sinonimi; la ragnatela è una potente immagine della manifestazione, dell’emanazione dell’essere. Nella ragnatela tutto esce e tutto si reintegra, come il ragno sputa e divora il suo filo. Il ragno, tramite il filo che lui stesso secerne e tesse rappresenta il nesso tra creatura e creatore.
 
Un ottava di tempo nell’ombelico del mondo
 
Atena[2], allo scadere del settimo anno, di permanenza di Ulisse sull’isola, prega Zeus di intercedere presso Calipso per costringerla a lasciar partire il suo protetto. Zeus, inviò Ermes da Calipso per ordinarle di lasciar andare Ulisse; ciò che la ninfa fece malvolentieri.
 
Ulisse rimane sette anni sull’isola con Calipso assimilando gli insegnamenti appresi da Circe, e il numero sette rimanda alla perfezione. Questo periodo rappresenta un momento di pausa e di riflessione dedicato alla conoscenza di se stesso. Quando Ulisse viene finalmente liberato dalla ninfa, è completamente purificato.
 
L’ipotesi che Ogigia possa essere un luogo sacro viene rafforzata dalla descrizione della residenza di Calipso, una caverna in mezzo ad un bosco che non può che rimandare ai boschi sacri di tante tradizioni. L’isola potrebbe essere un centro iniziatico di una precedente era ed ora inattivo di cui rimangono solo le vestigia.
 
Calipso aveva accolto, curato e amato (istruito nell’anima) il naufrago nel mare dell’emotività, tentando di far dimenticare ad Ulisse la nostalgia della sua Itaca, ma invano: egli non faceva che sospirare il ritorno. Alla radice dell’episodio, vi è il significato esoterico che vede Ulisse l’anima alla ricerca della sua realizzazione ed in Calipso un momento della ricerca e dell’esperienza. Il nome della dea significa “la nasconditrice” (da calyptein, nascondere). È l’allettante offerta della divina Calipso: restare con lei da immortale, eternamente giovane ma nascosto o partire.
 
Al termine dei sette anni Ulisse preferì alla promessa d’immortalità di Calipso il richiamo di un’altra tessitrice, Penelope.

[1]Ovidio, nelle Metamorfosi ( Libro VI ), narra il mito di Aracne, una principessa libica, conosciuta per la sua bravura nel tessere e ricamare e per la sua abilità si mormorava che fosse allieva d’Atena, Dea delle filatrici e delle ricamatrici. Aracne tanto piena di se, sfidò la Dea, la quale si travestì da vecchia e le consigliò di essere più modesta. Aracne la prese a male parole e a quel punto Atena si rivelò e ebbe inizio la sfida. Atena ricamò una tappezzeria raffigurando i Dodici Dèi olimpici e ai quattro lati la sconfitta dei mortali che osarono sfidarli mentre Aracne filò gli amori poco onorevoli degli Dèi. Atena arrabbiatissima distrusse il lavoro perfetto di Aracne e la colpì con la  spola. La principessa scappò e in preda alla disperazione s’impiccò, ma Atena non la lasciò morire trasformandola in ragno. Nel momento della metamorfosi, Aracne diventa la grande Dea Ragno e, in un certo senso, diventa Atena stessa.
[2] Atena, nata armata dalla testa di Zeus, personifica altre virtù, come la saggezza dello spirito e la ragione da cui nasce il coraggio.
LE DEE DAI RICCIOLI BELLI
 
Omero descrive l’Aurora provvista di bei riccioli, Circe come sovrana, dea luminosa, dalle belle trecce, dai riccioli belli, tremenda dea dalla parola umana. Omero[1], descrive Demetra la regina dai riccioli belli. Calipso la dea che voleva conferire l’immortalità ad Odisseo è descritta dalle belle trecce.  Circe dai riccioli belli, Atena la dea della Sapienza anch’essa dai bei riccioli. Le ancelle di Nausicaa sono descritte da Omero con bei riccioli.
 
Calipso ha la sua dimora ad occidente (dopo aver lasciato l’isola di Calipso per raggiungere Itaca, Ulisse – seguendo le indicazioni della ninfa – navigava con la zattera avendo a sinistra la costellazione del carro (Od. V, 276-77). Circe invece all’estremo oriente (XII 3-4) della regione dell’isola di Circe, Eèa, si dice che lì è la dimora di Aurora e lì è il sorgere del sole. La voce bella, il canto e il lavorare al telaio sono componenti che valgono per l’una e per l’altra ninfa[2].
 
Claudio Eliano nell’opera “La natura degli animali” scrive che le regine di Atlantide, portavano dei riccioli come segno del comando. Nelle antiche rappresentazioni egizie l’iniziato, veniva raffigurato su molte tombe rivestito di una pelle di pantera con i capelli raccolti a treccia. I sacerdoti di Osiride, non si radevano mai la chioma, al pari degli Indù e della setta ebraica dei Nazorei[3]. Una leggenda indù racconta di Shiva che ricevette le acque celesti sul suo capo per imprigionarle nei riccioli della sua capigliatura e frenarne o catturarne l’impeto. Per gli Indù e per i seguaci di Zoroastro, i capelli sono la sede della forza psichica, dei canali attraverso cui scorre nel cervello la potenza magnetica proveniente dall’anima. Quando la parola Nazar è un sostantivo, significa corona, testa consacrata, come la testa dei Giustificati.
 
 
Ulisse rifiuta da Calipso il dono dell’immortalità
 
… qui resteresti con me a custodire questa dimora,
e saresti immortale, benché voglioso di vedere
tua moglie, che tu ogni giorno desideri.”
“Dea possente, non ti adirare per questo con me: lo so
bene anche io, che la saggia Penelope
a vederla è inferiore a te per beltà e statura:
lei infatti è mortale, e tu immortale e senza vecchiaia.
Ma anche così desidero e voglio ogni giorno
Giungere a casa e vedere il dì del ritorno. (…)
(Odissea V, 208-210, 215-220)
 
La dea dalle belle trecce dà a Ulisse i mezzi per costruirsi una nave: un’ascia a doppio taglio col manico d’ulivo e gli indica, dove trovare gli alberi più alti e più solidi. Venti in tutto ne buttò giù, come un buon carpentiere li sgrossò e li fece dritti a livella. L’atto di Ulisse costruirsi una barca è stato equiparato dai greci all’atto di Argo che a Dodona costruì la mitica nave Argo con un ramo parlante della sacra quercia di Dodona. Ulisse aveva ad Itaca una cane di nome Argo, l’unico che possiede il dono della giusta visione, che sa vedere oltre la maschera[4], perché sa riconoscere il padrone anche se trasformato da Atena in un’altra persona.
 

Figura 1. Ulisse che s’intaglia la barca - Argo che incide un ramo della sacra quercia di Dodona                                                                                                             
 
Ulisse per costruirsi una zattera impiegò quattro giorni, all’inizio del quinto giorno è pronto a partire sulla sua zattera. Il quattro, la divina misura, è sempre riferito alla realizzazione di un’opera, il cinque, è riferito all’uomo. Calipso dopo averlo lavato Ulisse e dopo avergli fatto indossare vesti odorose e dopo aver rifornito la zattera con vino e acqua e pietanze prelibate, e lo lasciò partire in mare all’ottavo anno. Partirà da Ogigia su una zattera e arriverà nel ventesimo giorno a Scherìa, la terra dei Feaci.

[1] Iliade, XIV.
[2] Omero ODISSEA Introduzione, commento e cura di Vincenzo Di Benedetto.
[3] La setta dei Nazorei esisteva molto tempo prima delle leggi di Mosè e trasse origine dai popoli nemici di Israele, cioè dai popoli della Galilea. I Nazorei, dalla lunga chioma, erano gli appartati, non permettevano il taglio dei loro capelli.
[4] La personalità è la maschera, come ben sapevano i nostri antenati.
DECIMA PROVA – I FEACI
 
Per sette e dieci giorni navigò attraversando il mare (Od.V 278)”. Dopo 17 giorni di navigazione s’imbatte in una violenta tempesta. Il numero 17 era molto inviso ai Pitagorici, il giorno 17 del mese di Athir, scrive Plutarco, Osiride fu ucciso e rinchiuso in una bara. Poseidone, ancora irritato per l’accecamento di suo figlio Polifemo, scatenò una tempesta contro la zattera di Odisseo. Ancora una prova contro la tempesta delle emozioni e delle passioni.
 
Lo vide la figlia di Cadmo, Ino dalle belle caviglie, Leucotea
Togliti le vesti che hai, e lascia che la zattera sia portata via
dai venti; e nuotando a forza di braccia cerca di arrivare
alla terra dei Feaci, dove è destino che tu trovi scampo.
Tieni questo velo immortale, e stendilo sotto il tuo petto:
non c’è paura che sofferenza tu subisca o che tu muoia.
(Od. V, 333- 347)
 
La dea bianca del mare Leucotea[1] viene in aiuto a Ulisse, donandogli il suo velo.
 
Invoco Leucotea figlia di Cadmo, demone augusto,
molto potente, nutrice di Dioniso dalla bella corona.
Ascolta, dea, custode del mare profondo,
che ti allieti dei flutti, somma salvatrice dei mortali …
sola risolvi nel mare la sorte pietosa dei mortali,
sui quali slanciandoti giungi amica salvatrice …
portando agli iniziati sul mare un vento favorevole alla corsa delle navi.[2]
 

Figura 1. Leucotea
 
La tempesta (della vita) avvolge i naviganti facendoli vagare in balia dei flutti, alimentano dentro di loro l’incertezza e l’angoscia che li rende impotenti davanti alla vita, si sentono sbattuti dai flutti.
 
Leucotea è colei che aiuta attraverso l’intuizione, i mortali a trasformarsi in Dei (Iniziati), soccorrendoli nelle tempeste che attraversano il mare. Il mare delle emozioni, al di fuori del controllo del Nous, la Ragione, si trasforma in tempesta che può essere solo affrontata attraverso il timone dell’intuizione e del giusto intento.
 
Mettendo il velo di Leucotea intorno alla vita, Ulisse sarà sicuro di non annegare mai. Però dovrà ridiventare il signor Nessuno, essere praticamente nudo senza alcuna altra veste (simbolo di rivestimento materiale, e personale) e toccata terra dovrà gettare di nuovo il velo in mare. La tempesta infuria con accresciuta violenza: Ulisse ha appena il tempo di togliersi le vesti e di cingersi col velo appena toccato la terra dei Feaci.
 
Omero narra che l’eroe vittima della tempesta di Poseidone, rimase aggrappato ad un tronco per due giorni e due notti giungendo, ma quando il terzo giorno portò l’Aurora dai riccioli belli, il vento cessò e giunse all’isola dei Feaci. Ad Eleusi la suprema iniziazione dell’Epopteia avveniva in tre giorni: per due giorni il candidato era dato come morto, al terzo giorno emergeva dalle tenebre come trionfante.
 
Sulla spiaggia dell’isola di Scheria, all’alba del terzo giorno, completamente nudo, spogliato da ogni rivestimento che lo legava al passato, dove Nausicaa, consigliata da Atena, si era recata con le sue ancelle per giocare a palla e lavare delle vesti. Risvegliato dai loro giochi, Ulisse esce fuori da un cespuglio completamente nudo, facendo fuggire impaurite le serve, ed implora un po' di misericordia. Nausicaa “dalle bianche braccia” lo accoglie con eleganza e cortesia regalandogli dei vestiti e gli suggerisce la via per la dimora del padre Alcinoo, chiedendo di sua madre, la regina Arete, la cui saggezza è riconosciuta come superiore anche a quella del re, che si fida ciecamente del suo giudizio. La principessa Nausicaa che rappresenta il terzo incontro femminile, impartì ordine alle sue ancelle di fornirgli una nuova veste.
 
E allora disse alle ancelle dai bei riccioli
Ascoltatemi, ancelle dalle membra candide, che vi dico una cosa …
Quest'uomo giunge in mezzo ai Feaci simili agli dèi
prima infatti mi sembrava essere un uomo volgare,
mentre ora assomiglia agli dei che abitano l’ampio cielo[3]

Figura 2. Nausicaa e l’ancelle
 
La principessa infine si avvia con il suo seguito, temendo che il popolo, vedendola insieme con uno sconosciuto, possa fare inutile chiacchiera. Dopo Ulisse si reca alla reggia, dove viene accolto come ospite da Alcinoo e Arete.Odisseo segue Nausicaa nascosto in una nube, da Atena riccioli belli, la Sapienza.
 
La nube protettiva
 
Giunto nel palazzo, si rende visibile. La nube, nei libri sacri[4] è sempre simbolo di protezione. Atamante aveva una moglie di nome Nefele, convertita in Nube.  Nefele avvolse i propri figlio Frisso ed Elle in una nube, facendoli fuggire in groppa ad un montone dal vello d’oro. Servì da guida notturna la stella del Cane. In Egitto, il dio corrispondente di Ermes, Anubis era rappresentato con la testa di un cane, la faccia ora nera ora dorata, nella mano sinistra il caduceo o il Tau, nella mano destra un ramo di palma. Nella nube furono avvolti e salvati Enea ed Ecate dalla madre Venere.
 
Atena avvisa Odisseo che i Feaci non vedono volentieri gli stranieri e spiega che essi si fidano solo delle loro agili navi che l’abisso immenso traversano … rapide come l’ala e il pensiero.
 
Cinquanta ancelle erano in casa di Alcinoo:
alcune con mole moliscolo giallo frumento,
altre tessono tele e girano fusi,
sedute, simili a foglie di altissimi pioppi:
dalle tele in lavoro gocciola limpido l'olio.
Quanto i Feaci son sapienti sugli uomini tutti
a reggere l'agile nave sul mare, altrettanto le donne
son tessitrici di tele; a loro Atena donò in grado massimo
di far opere belle e d'avere savia mente.[5]
 
I simbolismi del numero Cinquanta e della tessitura sono stati spigati precedentemente, qui notiamo che vi sono cinquanta ancelle in casa di Alcinoo, a cui Atena fece il dono di una mente saggia, sedute simili a dee, moliscono, tessono come Penelope, Circe, Calipso, la trama della vita. Gli uomini sono esperti navigatori sulle ali del pensiero.

[1] Chiamata Thesan dagli Etruschi.
[2] Inno Orfico a Leucotea.
[3] Odissea, VI, 238 – 243.
[4] S. Paolo,  I Corinti 10; Esodo cap. IX; Numeri, XIV.
[5] Odissea, VIII, 103 – 111.
I FEACI, SIMILI AGLI DÈI
 
I Feaci rappresentano l’esatto opposto dei Ciclopi, originari di una terra vicina al paese dei Ciclopi, i Feaci, si trasferirono in seguito a Scheria. La terra dei Ciclopi è descritta simile nella natura a quella dei Feaci: tutto cresce spontaneamente, né gli uni né gli altri lavorano. Ciò che differenzia le due terre sono gli abitanti: da una parte vivono esseri mostruosi, prepotenti e selvaggi, dall’altra uomini gentili e sensibili allo spirito. I Ciclopi vivono sulla stessa isola ma sono lontani l’uno dall’altro, non comunicano se non per necessità, trascorrono la giornata in modo sempre uguale. Ciclope guarda solo ai suoi bisogni primari e col passare del tempo agisce meccanicamente, senza porsi domande. I Feaci al contrario dei Ciclopi vivono armoniosamente in comunità, essi vicini agli dei rappresentano il punto più alto. dell’evoluzione umana. “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”.
 
Gli studiosi vedono i Feaci sono un mitico popolo di antichi navigatori, ma Omero dice molto di più afferma che erano molto vicino agli dèi, come dei parenti. Il loro nome occupa un posto di assoluto rilievo nell’Odissea. Omero, a cosa si riferiva quando fece dire a Zeus che i Feaci erano simili agli Dèi (Odissea, V, 35). I Feaci abitano “ai confini del mondo e nessuno si mescola con loro”. L’isola è circondata da magiche nebbie, gli abitanti vivono nell’età dell’oro, dominano i mari e la Regina occupa un ruolo superiore al Re. Gli abitanti vivono come nell’età dell’oro, dominano i mari e la Regina occupa un ruolo superiore al  Re.  
 
Nella reggia di Alcinoo
 
Uno splendore come di sole o di luna
c’era nella casa dall’alto soffitto dell’intrepido Alcinoo.
Muri di bronzo si prolungavano ai due lati, dalla soglia
fino al vano più remoto, e tutto intorno un fregio di smalto.
Erano d’oro le porte che la solida casa dentro chiudevano,
d’argento gli stipiti che stavano ritti sulla soglia di bronzo,
d’argento era l’architrave, e d’oro l’anello della chiave;
e d’oro e d’argento ai due lati erano i cani
che Efesto aveva fatto con arte sapiente,
per vigilare sulla casa dell’intrepido Alcinoo.
(Od. VII, 84- 93)
 
Un fulgore avvolgeva tutta la casa, la soglia e le mura erano di bronzo le porte d’oro, d’argento e visibili dall’esterno erano i battenti della porta, gli stipiti e l’architrave e l’anello che faceva da maniglia. Accanto agli stipiti, visibili da chi stava per entrare, erano i cani magici anch’essi d’argento creati dal dio Kabirico Efesto a guardia della porta. Con bronzo, oro e argento era costruita la reggia del re dei Feaci. Il bronzo ha indubbi vantaggi rispetto al rame di cui è composto: è duro come il ferro[1] puro, ma viene intaccato diversamente dalla ruggine. Bronzo, Oro e Argento sono metalli esotericamente nobili non intaccabili dalla ruggine. Inoltre nella casa di Alcinoo i giovinetti fatti di oro che tenevano in mano le fiaccole e facevano luce durante la notte (VII 100-2). La reggia di Alcinoo è dunque una costruzione simbolica fuori dallo spazio comunemente inteso.
 
Lo straniero è accolto benevolmente a corte. Cala la sera, Odisseo rimane solo con il re Alcinoo e la regina Arete (altra forma di Ariete il montone dal vello d’oro). Trovato nudo sulla spiaggia da Nausicaa, figlia del re dell’isola, Ulisse non rivela il proprio nome e si inventa una nuova identità, diventa di nuovamente il signor “Nessuno”. Durante la permanenza di Odisseo sull'isola Demodoco (Δημóδoκος) un aedo cieco (come Omero), declama tre poemi. Due di questi sono tratti dal ciclo della guerra di Troia:
 
  • La lite tra Odisseo ed Achille
  • L’inganno del Cavallo di Troia.
   
Turbato nell’intimo dal canto dell’aedo, Ulisse inizia a raccontare ai Feaci  le sue vicende. Da questo momento in avanti egli cessa di essere Odisseo, l’odiato e diviene Ulisse colui che è stato segnato sulla coscia da un cinghiale. Nell’anca, Zeus nascose Bacco, il figlio di Semele, curandolo come in un utero paterno, fino al giorno del concepimento. Ulisse è Bacco, il nome dato nell’antica Grecia agli Iniziati coloro che superavano tutte le prove. Nel racconto Ulisse descrive non delle avventure come apparirebbe ad un ascolto superficiale, ma le sue prove nel percorso iniziatico per concludersi nell’insegnamento ricevuto nelle dimore di Circe e Calipso.
 
L’indomani il re organizza una gara sportiva tra i giovani principi, Odisseo si distingue per abilità e coraggio. Durante i festeggiamenti un aedo viene invitato a narrare della guerra di Troia e Odisseo nell’ascoltare il drammatico racconto si commuove fino alle lacrime. Il re chiede il motivo di tanta commozione e Odisseo o confessa la sua vera identità. Ulisse racconta le sue sventure al re e alla regina Arete. Entrambi sono incantati dall’aspetto poderoso dell’eroe e gli offrono ospitalità e la figlia  Nausicaa in sposa. Ma l’eroe non ha dimenticato Penelope ed Itaca e chiede per sé una nave. Al momento dell’addio, Nausicaa gli dice: “Non dimenticarmi, perché ti ho ridato la vita” indicando così il suo status di “nuova madre” nei suoi confronti.
 
Alla Regina Arete simile a una dea, e non al Re, su suggerimento di Nausicaa, Ulisse implora l’indispensabile aiuto per tornare in patria, e alla Regina brinda, non al re, con la doppia coppa aurea piena di vino prima della partenza, augurandosi, e sembra una captatio benevolentiae a lei rivolta, di ritrovare la consorte. E’ come se emergesse un sacro e magico parallelo fra Ulisse a Alcinoo e fra Arete e Penelope.
 
Arete mandò con lui le sue ancelle:
una portava un mantello pulito e una tunica,
l’altra lo seguiva per portare la pesante cassa;
un’altra ancora portava pane e vino rosso[2].
 
Odisseo riceve per il viaggio pane e vino, segni di Eleusi. Sembra un viaggio rituale e misterico, una morte simbolica ed iniziatica. Ulisse viene portato in Itaca come un offerta sacrificale, avvolto in un sudario bianco di lino, dormiente di un sonno magico, in un viaggio che salpa in silenzio e in raccoglimento, circondato da aurei e sacri doni che sembrano offerte votive: idre e tripodi. Entra nella terra beata dei Feaci dormendo e ne esce dormendo, perché è terra spirituale e visionaria, terra ultraumana[3]. I Feaci gli fornirono una nave ed un equipaggio con cinquantadue rematori per ritornare ad Itaca.
 
I Feaci non hanno nocchieri,
non ci sono timoni, come ne hanno l'altre navi,
ma sanno da sole il pensiero e l'intendimento degli uomini,
e san le città e i pingui campi di tutti,
e l'abisso del mare velocissime passano,
di nebbia e nube fasciate; mai hanno paura
di subir danno o d'andar perdut
e[4].
 
 
La nave guidata dal pensiero
 
Odisseo partirà dalla loro isola avvolto nella nebbia, e nella nube protettiva[5], trasportato da una nave magica che viaggia in un mare misterioso, non ben definito, e che conosce i pensieri e le intenzioni degli uomini. La regina Arète dopo aver fatto ricchi doni ad Odisseo lo esorta a chiudere bene l’arca che li conteneva:
  
Vedi tu ora il coperchio, facci un abile nodo,
che in viaggio nessuno lo forzi, quando tu appunto
dormirai dolce sonno, viaggiando sopra la nave nera.
Odissea, VIII, 443-445
 
Tale viaggio pare dipendere esclusivamente dal vigore dei rematori Feaci che rovesciavano il mare con il remo.
 
Ed essi stesero per Odisseo una coperta e una tela di lino sulla poppa della nave, in modo che egli potesse dormire … un sonno profondo cadde su di lui, un sonno dolce simile alla morte [6]
 
Il dolce sonno dei cinque sensi simile alla morte di Odisseo è elemento necessario per consentire non un viaggio, lungo una comune rotta marittima, ma il viaggio, impossibile per la ragione umana, per nulla incidentale né casuale. Il sonno per il modo illusorio della forma è la funzione dei Feaci, che donano ad Odisseo, un ritorno che nessun mortale gli avrebbe mai potuto donare, né lui da solo avrebbe potuto ottenere; davvero aveva ragione Alcìnoo di parlare di navi guidate dal pensiero, perché magiche erano le sue navi, e percorrevano non rotte marittime, ma spazi onirici e misterici.
 
La nave correva avanti sicura: neppure un falco,
che è il più veloce degli uccelli, poteva starle al fianco;
correndo così veloce, tagliava le onde del mare
e trasportava un uomo dalla mente acuta come quella degli Dèi,
che tanti dolori aveva sofferto nel suo animo
affrontando guerre di uomini terribili onde:
ora dormiva tranquillo, dimenticando i propri dolori.
Quando apparve la stella più luminosa, che più di tutte
annuncia la luce dell’Aurora figlia del mattino,
la nave dal lungo corso si accostò all’isola di Itaca.
(Odissea XIII, 86-95)    
 
Omero scrive che la nera nave dei Feaci correva sicura e diritta verso Itaca, portando un uomo che aveva la saggezza simile ai numi (sapienza divina), e molti dolori aveva patito nell’anima. Quella nave che correva sicura, diritta, più veloce del nibbio, dello sparviero non ritornò a Schèria, perché Poseidone il signore del mare burrascoso rivolse la sua ira sulla nave dei Feaci trasformandola in pietra, affinché “si fermino e smettano di accompagnare mortali”. La nave con i 52 rematori Feaci è trasformata in pietra perché non serve più, il viaggio è solo per Ulisse.
 
Alcinoo, per placare l’ira di Poseidone, prescrisse un sacrificio di dodici tori e decise che i Feaci mai più avrebbero trasportato con le loro navi altri mortali.
 
Come la lucentissima stella brillò, che più di tutte
Annuncia salendo il raggio dell’alba nata dalla luce, ecco che all’isola si accostava la nave marina.[7]
Odisseo ritornò: “all’ultimo giorno dei diciannove anni, che era anche il primo del ventesimo, la Luna Nuova avrebbe coinciso col Sole Nuovo del solstizio d’Inverno; ciò fu chiamato”l’incontro del Sole e della Luna”… Ulisse tornò ad Itaca “proprio al sorgere di quella stella luminosa che annuncia la figlia dell’alba”.
(Odissea, XIII, 93).”[8]
 
Il Viaggiatore, ritorna a casa, ad Itaca, proprio al sorgere di quella stella più luminosa che annuncia la figlia dell’alba. Il giorno dell’arrivo ad Itaca era quello della festa di Apollo, il solstizio d’inverno e della luna nuova. Il viaggio verso Itaca di Odisseo sulla barca dei Feaci è simbolico in quanto:
     
  • La sua mai definita durata temporale,  indirettamente rafforzata e resa più ambigua dalle ripetute affermazioni di Alcinoo che dice le sue navi possono accompagnare chiunque dovunque, ed  esser di ritorno in giornata.
  •  
  • Il fatto che, contrariamente a quanto normalmente avviene nell'Odissea, non si parla né del mare né del vento come degli elementi che permettono od ostacolano il viaggio di Ulisse; tale viaggio      pare dipendere esclusivamente dal vigore dei 52 (il numero di settimane      che compongono l’anno) rematori Feaci che rovesciavano il mare con il remo.
  •  
  • Questo episodio è narrato nel canto XIII, canto chiave      dell’opera: dall’Isola dei Feaci, ultimo luogo fuori dello spazio e del      tempo che Odisseo visita e dove conclude il suo racconto, per poi ritornare  carico di doni, oro, vesti, urne, tripodi, nella sua Itaca, senza riconoscerla. Tredici rappresenta il Sole e con i dodici segni dello zodiaco, o l’Eroe Solare e le dodici prove, il Dio Giano e i suoi dodici Assistenti. Il numero 13 ricorre spesso nell’Odissea: il viaggio dell’Eroe inizia con Odisseo e 12 navi, si presume che le navi fossero 13, a tale numero assomma la compagnia che con Ulisse entra nella grotta di Polifemo e per tredici giorni soffia Borea nel racconto che Odisseo fa a Penelope (Od. IXX, 202). Il numero dei rematori Feaci è quattro volte tredici 4x13=52.

[1] Contrariamente al ferro e all’acciaio, infine, man mano che si riporta una spada piegata alla sua forma originale, il bronzo che la costituisce tenderà a rafforzarsi e l’eventuale riparazione di una rottura completa dell’arma richiede solo di fondere nuovamente il bronzo e colarlo in uno stampo.
[2] Odissea, XIII, 66-69.
[3] Sul mistero dell’Antro di Itaca ovvero sulle ultime ninfe Penelope ed Elena - Giacomo Maria Prati.
[4] Odissea, VIII, 557, 563.
[5] La nube è il simbolo del pensiero astratto, invisibile, non percepibile alle menti (agli occhi) di coloro che vivono nel mondo dei cinque sensi e del pensiero utilitaristico.
[6] Odissea, XIII, 73 – 80.
[7] Odissea, XIII, 93 – 95.
[8] J. Campbell, Mitologia Occidentale, pag. 189.
UNDICESIMA PROVA – LA GROTTA DELLE NAIADI
 
 
I Feaci sbarcarono dalla nave deposero sulla spiaggia il lenzuolo di lino e la coperta splendente e sopra adagiarono Ulisse dormiente, poi deposero vicino alla porta dell’antro della Naiadi e ai piedi di un ombroso ulivo, l’albero sacro ad Atena, la Sapienza, i ricchi doni del re.
 
Porfirio scrive che non era infatti possibile per Ulisse, liberarsi facilmente di questa vita sensibile a colui che l’aveva orbata, e si era adoperato per annullarla di un sol colpo. Ma sempre tiene dietro a colui che osa tali cose l’ira delle divinità marine e materiali. Omero si premura di specificare che la nave dei Feaci giunse in un porto di Itaca sacro a Forchis. Nel Libro Primo dell’Odissea, si cita espressamente una figlia di Forco signore del mare instancabile, di nome Toosa, da cui nacque il Ciclope che Ulisse privò dell’occhio.
 
La grotta d’Itaca
 
C’è un porto sacro a Forchis, il Vecchio del mare …
In capo alla baia vi è in ulivo frondoso,
e lì vicino una antro amabile ed oscuro,
sacro alle ninfe che si chiamano Naiadi
Dentro anfore stanno crateri
di pietra; e là fanno il miele le api.
Lì alti telai di pietra, dove le Ninfe
tessono stoffe color porpora, meravigliose a vedersi;
lì ancora acque che sempre scorrono. Due sono le porte,
l’una che scende verso Borea è per gli uomini,
l’altra verso Noto ha (un carattere) più divino;
per di là non entrano gli uomini, ché è la via degli immortali.
(Odissea, XIII, 96 e seguenti)
 
Tutto il testo omerico riguardante l’Antro delle Ninfe è stato minuziosamente commentato dal neoplatonico Porfirio di Tiro. Omero si esprime in questi versi con un linguaggio allegorico e allusivo: scrive che in quest’antro ad un tempo amabile e tenebroso vi sono le Ninfe Naiadi.
 
L’antro la caverna cosmica
 
La caverna è un’immagine del cosmo; essa è oscura perché i misteri non sono in evidenza ma allo stesso tempo amabile perché vi si tessono e intrecciano le forme vitali Platone rappresentò il mondo come un antro o una caverna; nel settimo libro della Repubblica, si legge: “Ecco infatti gli uomini in un antro sotterraneo”. Perciò in Empedocle le potenze conduttrici delle anime dicono: “Ecco, siamo giunte nell’antro coperto”.
 
Le Ninfe Naiadi
 
Le Naiadi si trovavano presso le sorgenti, e traggono il loro nome dalle acque dalle quali sorgono fluenti; e lo attesta anche l’inno ad Apollo, nel quale si legge:
 
Per te aprirono le sorgenti delle acque dell’intelletto
che dimorano negli antri
alimentate dall’alito della terra
per l’ispirato oracolo della Musa;
esse sgorgando sulla terra...
senza posa porgono ai mortali brocche (colme) delle dolci correnti.
 
Porfirio scrive che, le ninfe Naiadi sono quelle anime che vanno verso la generazione:
 
”Ora, noi chiamiamo ninfe Naiadi in modo particolare quelle potenze che sono preposte alle acque, mentre (loro) chiamavano anche insieme le anime cadute nella generazione. Si riteneva infatti che le anime seguissero l’acqua; la quale è (esistenziata) dallo spirito divino, come dice Numenio; per questo afferma, anche, che il Profeta disse: ‘Lo spirito di Dio aleggiava sulle acque’… si deve sapere, tutte quelle anime che, cadute nella generazione, vengono avvolte dall’umido. Donde Eraclito: "Alle anime sembra diletto, non morte, il divenire umide: la caduta nel divenire è per loro diletto". E altrove: "La nostra vita sembra la loro morte, e la loro vita la nostra morte". Perciò il poeta chiama umidi" coloro che si trovano nel divenire, dato che le (loro) anime sono pervase dall’umido. Perché a queste riesce caro il sangue e l’umido seme, mentre a quelle "delle piante l’acqua è di nutrimento.”[1]
 
In un passo della Vita di Plotino, Porfirio narra un episodio autobiografico che implicitamente afferma il suo grado di iniziazione misterica:
 
Io avevo letto, nella festa di Platone, un poema “Il matrimonio sacro”, e siccome avevo detto molte cose da ispirato nel loro senso mistico e segreto, qualcuno osservò: «Porfirio è matto»; Plotino disse allora in modo che tutti lo udissero: «Tu ti sei rivelato insieme poeta, filosofo e ierofante».
 
Nella stesura del suo commento, Porfirio si rifà esplicitamente a Numenio di Apamea e a Cronio, forse anche a Massimo di Tiro, che già aveva interpretato Ulisse come il simbolo dell'anima che ritorna al’'Uno. I discepoli di Numenio[2] ritennero che Odisseo rappresentasse colui che passa attraversando tutti gli stadi della generazione, per ritornare in tal modo tra coloro che sono estranei ad ogni flutto e inesperti del mare.
 
Non poteva liberarsi senza dolore da questa vita sensibile, dopo averla accecata (in Polifemo) e aver cercato di distruggerla in un sol colpo perché chi osa fare queste cose è sempre perseguitato dalla collera delle divinità marine e materiali. Egli se le deve innanzi tutto riconciliare con sacrifici”. (Porfirio)
 
Perché all’interno della caverna vi erano crateri e anfore, non contenenti alcun liquido, nei quali le api serbano il loro miele come in arnie? E a cosa servivano quegli alti telai posti fatti non di legno ma della medesima pietra delle anfore e dei crateri?  Su questi telai di pietra le Naiadi tessono meravigliose stoffe color porpora.
 
Dentro anfore stanno crateri
di pietra; e là fanno il miele le api.
 
Il cratere è una coppa composta di un corpo tondeggiante, con corte anse per il trasporto e una larga imboccatura. Qual’ è poi la funzione di crateri e anfore, dato che non si menziona alcun liquido versato in essi, ma si dice che qui, come negli alveari, le api ripongono il loro miele.
 
Il miele e il piacere sessuale
 
Per quanto riguarda le api che depositano il loro miele nei crateri e nelle anfore di pietra, sono come le Naiadi, pura potenza al servizio della vita, perché il miele è una sostanza incorruttibile. Il miele è anche l'essenza che riempie i ricettacoli della materia. Gli antichi hanno simboleggiato con le api esclusivamente quelle anime che non tendono verso la generazione carnale:
 
Però non chiamano api indistintamente tutte le anime che scendono nella generazione — scriveva Porfirio - ma solo quelle destinate a ritornare di nuovo al luogo di origine”.
 
L’Iniziato, in tutte le Tradizioni magico misteriche, per conquistare il supremo bene - la libertà - deve risparmiare energia sessuale. Pertanto, queste anime-api mettono da parte, cioè nell’incorporeo, il ‘miele’ ed in tal modo accumulano l’energia necessaria al Corpo di Gloria per imboccare la porta di Noto. Cosa intendevano gli antichi per “miele”? Porfirio lo dice quasi esplicitamente: “Il piacere che deriva dall’unione sessuale”.
 
I Telai di pietra e le Stoffe color porpora
 
Lì alti telai di pietra, dove le Ninfe
tessono stoffe color porpora, meravigliose a vedersi.
 
Le Naiadi tessono, le divine sorelle Circe e Calipso tessono, Penelope la sposa di Odisseo tesse. I Feaci rappresentano l’occhio senza tempo dell’epos: il canto dell’Odissea è il racconto di Ulisse alla corte dei Feaci. I Feaci sono abili nel tessere, come Penelope, e Nausicaa e le sue amiche sembrano ninfe, mentre l’orto di Alcinoo abbonda di sorgenti come l’antro di Calipso e delle Naiadi.
 
Gli alti telai delle Ninfe non sono di legno, sono anch’essi di pietra come le anfore e i crateri. Secondo Porfirio, la pietra della grotta e degli oggetti che contiene è la sostanza o materia plastica di cui il mondo è una coagulazione, perché la pietra ha forma solo se le viene imposta. È lo stesso per le acque che sgorgano dalla roccia: pure loro sono un simbolo della sostanza, questa volta nella sua originale purezza e fluidità. Il contenitore della vitalità è fatto di pietra, ossa della Madre Terra, quelle pietre che Deucalione e Pirra si gettarono alle spalle per ripopolare il mondo dopo il Diluvio.
 
Omero scrive che le Ninfe tessono stoffe color porpora, e Porfirio commenta che le stoffe color porpora sono il simbolo della carne intessuta di sangue: difatti le tele assumono il colore purpureo dal sangue, e anche la lana è tinta con quello degli animali, e la formazione della carne si dà per il sangue e dal sangue. Il corpo è la veste dell’anima che lo indossi.
 
Le due porte della caverna
 
Omero descrive l’antro fornito di due porte, delle quali l’una è preparata per la discesa degli uomini, l’altra invece per gli dèi. E si dice che quella accessibile agli uomini sia volta nella direzione del vento di Borea, quella per gli dèi verso Noto. La caverna cosmica è dunque il luogo di manifestazione dell’essere: dopo essersi manifestato un certo tempo, l’essere ne uscirà per l’una o per l’altra delle due porte. Per la porta degli uomini dovrà ritornare ad un altro stato di manifestazione, rappresentato da un altro rientro nella caverna. Per la porta degli dei non c’è più ritorno nel mondo manifestato. Anche Platone parla di due bocche: attraverso l’una passano coloro che salgono in cielo, attraverso l’altra coloro che scendono in terra. E Platone aggiunge che quanti parlano delle cose divine fissano il Sole e la Luna quali ingressi delle anime; e per il Sole si sale, mentre per la Luna si scende.
 
Omero, annota Porfirio, non si è limitato a dire che la grotta aveva due porte. Egli ha specificato che una era rivolta al lato nord, e l’altra, più divina al lato sud, e che si discendeva dalla porta a nord, senza indicare i segni zodiacali corrispondenti. Non ha indicato se si poteva scendere per la porta sud. Dice solo: è l’entrata degli dèi. Mai l’uomo prende il cammino degli immortali. Porfirio spiega che vi sono due porte nella caverna cosmica: Cancro e Capricorno. Di queste, il Cancro è quella per cui le anime discendono verso la generazione fisica, ed il Capricorno quella per cui ascendono.                                                                                                        


      
                      
  
                    
Figura 1. La caverna cosmica
 
Per l’ingresso dell’antro volto a Borea discendono gli uomini, mentre la porta a Meridione per coloro che ascendono agli dèi. Per questa ragione Omero dice via non propria agli dèi, ma agli immortali, comune anche alle anime che sono per sé o per essenza immortali.
 
Del resto, prosegue Porfirio, è con ragione che si associano i venti alle anime che vanno verso la generazione, e a quelle che si separano dalla generazione, perché anche loro attirano lo spirito, come pensano taluni, e ritengono tale sostanza. Tuttavia, il vento di Borea è conveniente a quelle che vanno verso la generazione: perciò il soffio di Borea “rianima” coloro che sono sul punto di morire e “respirando male rendono l’anima” mentre quello di Noto dissolve. Infatti l’uno essendo più freddo, congela e trattiene nella freddezza della generazione terrestre, mentre l’altro, essendo più caldo, dissolve e rimette al calore del divino. Porfirio, nell’assegnare la porta nord al segno del Cancro si è riferito alla posizione nel cielo. Capricorno e il Cancro si trovano nella Via Lattea, della quale vengono ad occupare le estremità: il Cancro, quella settentrionale, il Capricorno, invece, quella meridionale. Nel ciclo annuale, i solstizi d’inverno nel Capricorno e d’estate nel Cancro, corrispondono rispettivamente al nord e al sud nell’ordine spaziale.
 
Resta da risolvere un’apparente contraddizione, che è questa: il nord è designato come il punto più alto ascendente del sole, mentre il suo cammino discendente è diretto verso il sud … ma d’altra parte, il solstizio d’inverno, che corrisponde nell’anno al nord, e segna l’inizio del movimento ascendente,  è in un certo senso il punto più basso, e il solstizio d’estate, che corrisponde al sud e dove termina il movimento ascendente,  è – sotto lo stesso profilo – il punto più alto … La soluzione di questa difficoltà risiede nella distinzione che è il caso di fare tra l’ordine ‘celeste’, cui appartiene il cammino del sole e l’ordine terrestre’, cui appartiene invece la successione delle stagioni … questi ordini devono, nella loro stessa correlazione essere inversi l’uno all’altro …[3] La porta solstiziale d’inverno, o il segno del Capricorno corrisponde al nord nel ciclo annuale, ma al sud in relazione al cammino del sole nel cielo … Secondo Proclo, Numenio le avrebbe rigidamente specializzate: la porta del Cancro, la caduta delle anime sulla terra; per quella del Capricorno l’ascensione delle anime nell’etere. In Porfirio, invece, è detto soltanto che il cancro è a nord e favorevole alla discesa … egli considera la loro posizione nel cielo; lo indica abbastanza chiaramente il fatto che, in quel che precede, sono in questione i tropici … che si riferirebbero invece più direttamente al ciclo annuale.[4]
 
La porta di Borea è l’uscita dalla vita umana, verso un nuovo ciclo di nascita nella forma corporea, destino comune a quasi tutti gli uomini. La porta di Noto, quella divina, è riservata agli Iniziati, a coloro che hanno saputo svincolarsi dai lacci della materia bruta. Come fare per imboccarla? Il segreto, come è stato precedentemente detto, è tutto nell’immagine delle api che immagazzinano il miele nell’oscurità della grotta.
 
Il risveglio
 
I marinai, che già conoscevano quel porto, spinsero la nave
che approdò sulla terraferma fino a metà della chiglia,
rapidamente: tanta era stata la forza delle braccia dei rematori,
Questi, scesi a terra dalla solida nave, per prima cosa
portarono giù Odisseo dalla concava nave
sollevandolo con la sua splendida coperta e il telo di lino;
poi lo deposero sulla spiaggia, sempre vinto dal sonno;
poi portarono a terra i doni dei gloriosi Feaci, poiché ora
lui tornava in patria secondo il volere della magnanima Atena.
I Feaci misero tutti i doni ai piedi dell’ulivo.
(Odissea XIII, 112-122)
 
Ulisse in questo stadio ha attraversato tutti i mari: egli ha navigato attraverso tutti gli elementi, prima in quelli burrascosi, dopo con l’aiuto dei Feaci, simili agli Dei, in uno stato di sonno profondo: “Un sonno profondo cadde su di lui, un sonno dolce simile alla morte”. Il mare che Ulisse attraversa, rappresenta gli elementi del nostro pianeta: egli passa nel grembo della madre terra, nella placenta della Madre Terra, dove viene avvolto dagli elementi e ricoperto di pelle, muore e rinasce a nuova vita, questa volta a differenza della prima nascita, egli rinasce in piena coscienza: questo stadio è detto il passaggio nella pelle[5], la rinascita, puramente fisica. Ulisse appare come un marinaio, si ricorda che la dea Iside oltre ad essere la patrona dei marinai lo era anche degli Iniziati, dei particolari marinai. L’Iniziato, prima dell’ultima prova, s’immerge negli elementi del grande mare, nuotando come un pesce. Si ricorda che i pesci nel santuario di Apollo in Licia erano chiamati Orphoi, e che Orfeo era paragonato ad un pesce, al pari di Bacco denominato IKΘYΣ, e di Gesù denominato IHΣ, il Pesce. Ulisse viene lasciato dai Feaci nei pressi di un ulivo e dell’antro amabile oscuro sacro alle Naiadi, le Ninfe della generazione, a significare che l’Eroe era rinato.
 
Odisseo si risveglia, ma non riconosce la sua Itaca! È triste e maledice i Feaci, convinto che non abbiano rispettato il patto di ricondurlo a casa. È Atena che gli fa apparire tutto diverso, ricoprendolo di nebbia:
 
Perciò, a lui che ne era il signore, tutte le cose apparivano diverse: le lunghe strade, i vasti porti, le aspre rocce e gli alberi rigogliosi .
 
La dea gli apparve sotto forma di un giovane pastore, molto delicato, quale un figlio di re. Indossava un doppio mantello sopra gli omeri e in mano teneva un giavellotto. Risponde alla sua domanda su dove sia approdato con un elogio di Itaca fatto apposta per inorgoglire il sovrano dell’isola. Ma Ulisse finge di essere arrivato lì in fuga da Troia per aver ucciso a tradimento Orsiloco, uno dei figli di Idomeneo (una storia inventata). Atena prese le fattezze di una bella ragazza alta e svela la propria identità ad Odisseo:
 
Sarebbe davvero abile e astuto chi ti superasse
in tutti gli inganni, fosse anche un nume ad incontrarti.
Sciagurato ed insaziabile tessitore di inganni!
Neppure adesso che sei in patria rinunci agli imbrogli
e alle parole bugiarde, che ti sono sempre care?
… Sono Pallade Atena, la figlia di Zeus,
che sempre, in ogni difficoltà, ti sto vicina e ti difendo
(Od. XIII, 291-302)  
 
La dea cancella i suoi dubbi dissipando la nebbia perché gli appaia la sua Itaca e Ulisse ne bacia i “campi fecondi”. Come vecchi compagni, nascondono i doni dei Feaci nella grotta delle Ninfe, e Ulisse chiude con un masso l’ingresso.
 
Ulisse entra dietro Atena nell’oscura caverna delle Naiadi per collocare i ricchi doni, lasciategli dai Feaci. Porfirio afferma che Omero in questo brano alluda a una verità più elevata, celata allegoricamente sotto i versi. E poi ipotizza che, nel caso che l'antro esista realmente, sia stato costruito dagli antichi con una simbologia mistica; in questo caso l'antro stesso, nella sua fisicità, sarebbe un «tesoro di antica saggezza», di cui si deve svelare il «carattere simbolico».  
 
Il tesoro donato dai Feaci simili agli dèi che Ulisse depone nell’antro. È nella grotta sacra che Atena gli fa riporre il suo tesoro, è suo, ma non può ancora utilizzarlo. Le ninfe Naiadi divengono così le custodi del tesoro di Ulisse, l’oro alchemico nascosto nella roccia occultatrice. Altro lavoro aspetta l’Eroe: sentimenti, ricordi, ordine da restaurare. Con Atena si siede al piede del sacro ulivo ombroso per meditare la morte dei Proci superbi che occupavano da tre anni abusivamente la sua casa.
 
Giunti a questo antro, dice Omero, bisogna deporre ogni possesso, denudarsi e assumere l'aspetto di un mendico dal corpo avvizzito, gettare ogni cosa superflua, staccarsi dalle sensazioni e allora deliberare con Atena, seduto con lei ai piedi dell'olivo, su come eliminare tutte le passioni che traviano la propria anima (l’Antro delle Ninfe, 34, 1-5). Ulisse, come Arjuna nella Bhagavad Gita ha dovuto individuare e uccidere tutti i suoi nemici, cioè i Proci, che albergavano nella sua casa, cioè nel suo essere.
  
 
L’Ulivo
 
Omero descrive un ulivo piantato accanto all’antro in capo al porto, non è detto semplicemente piantato, ma in capo [al porto]: In capo al porto un ulivo dalla lunga chioma vicino a lui l'antro... Esso scrive Porfirio, contiene l’oscuro significato dell’antro. L’ulivo è piantato accanto all'antro, immagine del mondo, quale simbolo della sapienza di dio. In effetti è l'albero di Athena, ed Athena è sapienza e le sue foglie si trasformano in inverno, obbedendo il ciclo annuale del sole. Questa è anche l’immagine dell’albero del mondo, il cui tronco, i rami e le foglie rappresentano la totalità degli esseri. L’ulivo, che è dunque per natura sempre verde, porta un frutto che è lenimento alle pene, ma è pure offerto ad Atena, e la corona per gli atleti vittoriosi. L’unzione rappresentava l’ingresso di un individuo nella cerchia degli eletti da Dio[6]. La cerimonia derivava il suo significato dall’identificazione dell’olio con lo spirito divino. Infine il riconoscimento di Penelope è ancora legato ad una pianta di ulivo: “C’era un tronco ricco di fronde, d’ulivo, dentro il cortile”. Odisseo[7], realizzò per Penelope, il talamo nuziale da un tronco ricche fronde, d’olivo florido, rigoroso.… “Letto ben fatto, che io fabbricai, e nessun altro”. Penelope tesseva la sua tela di giorno e la disfaceva di notte. La biancheria, la sposa, l’aveva dovuta tessere con le proprie mani, e non poteva essere colorata, ma bianca, cioè pura.
 
Sotto questo pianta avviene il colloquio di Ulisse con Atena, l’albero sacro alla dea. Sotto un ulivo si ritrova Odisseo quando scampa ad una tempesta scatenata da Poseidone ed approda sull’isola dei Feaci[8]. L’ulivo è testimone del progetto di Atena ed Ulisse per il massacro dei Proci. Ulisse nella caverna di Polifemo, sceglie un palo di legno d’ulivo acuminato ed indurito nel fuoco per perforargli l’unico occhio. È di legno di ulivo il manico della scure a due tagli[9] con cui Odisseo s’intaglia la barca per lasciare l’isola di Calipso.

[1] Porfirio, De Antro Nynfharum. Sito Web Zenit, Simbolica.
[2] Numenio di Apamea. - Filosofo neopitagorico, vissuto nella seconda metà del sec. II d. C. È uno dei principali rappresentanti del processo di transizione che dal platonismo conduce al neoplatonismo.
[3] R. Guenon, Simboli della Scienza Sacra, Le Porte Solstiziali. Adelphi.
[4] R. Guenon, Simboli della Scienza Sacra, il simbolismo dello Zodiaco nei pitagorici. Adelphi.
[5] In India, l’Iniziazione avveniva fatta attraverso la placenta di una vacca.
[6] La domenica delle Palme è in realtà la domenica dell’ulivo, la Pasqua cristiana consacrerà ramoscelli di ulivo che saranno rappresentati nei graffiti delle catacombe paleocristiane, l’olio d’oliva servirà al Battesimo, alla Cresima, all’Estrema Unzione, all’Ordinazione sacerdotale, alla consacrazione degli altari. La mirra era un olio arricchito di aromi.
[7] Odissea, libro XXIII, 189 e segg.
[8] Odissea, libro V, 476, 482.
[9] Odissea, libro V, 233, 237.
VERSO LA REGGIA
 
 
La perdita dei capelli e l’invecchiamento
 
Atena trasforma fisicamente Odisseo in un vecchio affinché nessuno possa riconoscerlo:
 
Ecco, ti renderò irriconoscibile a tutti, la pelle ti avvizzirò … i biondi capelli[1] farò sparire dal tuo capo, e di un cencio io ti vestirò. (Odissea, libro XIII, 397 – 399).
 
Nuovamente Ulisse diviene il signor Nessuno. La perdita dei capelli ha un significato nascosto, perché per gli Egizi, per gli Indù e per i seguaci di Zoroastro, i capelli sono la sede della forza psichica, dei canali attraverso cui scorre nel cervello la potenza magnetica proveniente dall’anima. I sacerdoti di Osiride, a differenza di quelli di Iside che avevano la testa completamente priva di capelli, non si radevano mai la chioma, al pari degli Indù e della setta ebraica dei Nazorei[2].
 
Fra gli Ebrei quando la parola Nazar è un sostantivo, prende il significato di corona, testa consacrata, come la testa dei Giustificati, gli Iniziati. La Genesi descrive Giuseppe come sommo Nazar. Samuele e Sansone nei Numeri vengono individuato come Nazar. Elia il profeta viene descritto come un Nazoreo[3]. I Nazorei, dalla lunga chioma, erano gli appartati, non permettevano il taglio dei loro capelli[4]. Solo una volta ai Nazar veniva permesso il taglio o la perdita dei capelli, al momento dell’Iniziazione. Il taglio era eseguito dal Sommo Nazar. Atena in questo caso nella veste di Maestro e guida nasconde la forza o i capelli di Ulisse, che appare come un vecchio calvo con la pelle avvizzita, privo di forza.
 
 
Il recinto dei maiali
 
Pallade Atena manda Ulisse da Eumeo, il fedele custode dei maiali, mentre lei andrà a Sparta per richiamare Telemaco, usando come base la capanna del custode dei maiali.
 
Quattro cani ringhiando gli vanno incontro minacciosamente ma Eumeo, sentendoli abbaiare, li calma e lo salva. Il porcaro lo accoglie calorosamente, gli da del cibo e ospitalità.
 
 
Figura 1. Eumeo offre cibo a Ulisse calvo[5]
 
Odisseo, passa la notte coperto dal mantello che Eumeo gli ha prestato prima di andare a sorvegliare i suoi animali. Nella capanna, Eumeo racconta a Ulisse la propria storia, figlio di Ctesio, re di una favolosa isola Siria, tradito e venduto schiavo da una serva, e comperato dal buon re Laerte, padre di Ulisse, il loro re scomparso. Ulisse dice al porcaro di essere un soldato cretese che partecipò alla guerra di Troia. Eumeo curava i maiali custoditi da quattro cani, in un recito circolare con dodici aperture disposto in una posizione elevata: l’immagine dello Zodiaco.
 
Fuori aveva disposto dei pali in cerchio, in fila continua
Spessi e serrati, squadrando tronchi di quercia;
dentro il recinto aveva fatto dodici chiusi[6]
 
Nuovamente il tema dei maiali, 360 era il loro numero, uno al giorno veniva dato in pasto ai re pretendenti di Penelope. Il nome latino di Odisseo, è Ulisse che significa ferito ad una coscia, ad allusione alla ferita provocata alla coscia di Ulisse da un cinghiale, un maiale selvatico. Tutto ciò ricorda le vicende di Adone e Attis colpiti e azzannati da un cinghiale. È bene ricordare che Zeus, mantenne in vita il figlio della donna mortale Semele, chiudendolo nella sua coscia fino al giorno del concepimento.
 
Il custode dei maiali rimasto solo con Ulisse uccise con un legno di quercia un maiale grasso di cinque anni lo arrostì con cura e lo divise in sette pezzi; Il primo pezzo è per le Ninfe della generazione e per Ermes il “ladro di anime”, il pezzo migliore fu donato ad Odisseo. Il racconto richiama il mito orfico di Zagreus-Dioniso, il misterioso figlio di Zeus che i Titani[7] dopo averlo ucciso e smembrato in sette pezzi lo arrostiscono e lo mangiano.
 
In miti narrati dagli Orfici, precedenti agli inni omerici, si racconta che Demetra, nel cercare l’amata figlia Persefone, mentre percorreva il campo di Raro, tra Atene e Eleusi, si imbatté nel contadino Dysaules, la moglie Baubo e i loro figli, Trittolemo, Eumolpo e Eubuleo, quest’ultimo era un porcaro e i suoi maiali furono inghiottiti nello stesso precipizio in cui sprofondarono Ade e Persefone e il fratello Trittolemo riferì la cosa a Demetra che lo ricompensò con i Misteri.
 
Il porcaro del racconto orfico venerato ad Eleusi si chiamava Eubuleo, il porcaro del racconto omerico si chiamava Eumeo, stranamente i due nomi prestano una certa somiglianza.
 
Trittolemo il cui nome significa triplice guerriero, fu ricompensato da Demetra, che lo armò di un mannello di spighe, un aratro di legno e un carro trainato da serpenti e gli affidò la missione di insegnare all’umanità intera la coltivazione del grano. Il triplice guerriero, venne trasformato dai Misteri, per mezzo di Demetra, in un uomo pacifico che coltivava cereali. La stessa trasformazione attende Odisseo che da odiato guerriero si trasformerà in un uomo spirituale e pacifico.
 
La quercia e la ghianda
 
La quercia usata per il recinto e per uccidere il maiale era sacra al sommo Zeus. Socrate giurava sulla quercia, l’albero divino degli oracoli e, conseguentemente, l’albero della saggezza. Con una parte della quercia parlante di Dodona, era fatta sotto il controllo di Atena, la magica chiglia della nave a cinquanta remi Argo che guidava gli Argonauti. Argo era anche il nome del fedele cane di Ulisse. La mitologia scandinava fa della quercia o del frassino i primi uomini. Il frutto della quercia di cui si cibano i maiali e gli uomini primitivi è la ghianda.
 
 
Figura 2. Demetra che porge le spighe di grano
 
La ghianda, dicevano gli antichi, eccita Venere. La ghianda, è feconda per eccellenza, si riconosce in lei non solo una fecondatrice tra gli alberi, ma la fecondatrice degli uomini.
 
Il maiale di cinque anni
 
Il maiale che si ciba di ghiande, è come stato spiegato precedentemente il simbolo dell’uomo primitivo[8]. Cinque sono gli anni del maiale che deve essere arrostito e mangiato in modo rituale; cinque è il numero dell’uomo, il microcosmo, il Pentalfa, una stella a cinque punte, segno di riconoscimento dei Pitagorici.
 
Atena arriva a Sparta e ingiunge a Telemaco di tornare immediatamente a Itaca, sbarca dalla parte opposta dell’isola dove i Proci hanno progettato di tendergli un’imboscata per ucciderlo. Ulisse ed Eumeo stanno consumando il loro pasto, quando si odono dei passi. Ma i cani non abbaiano: deve trattarsi di un amico: i cani stanno facendo festa a Telemaco.    
 
Figura 3. Atena Ulisse Telemaco
 
 
Dopo che Telemaco si è recato da Eumeo confidandogli della sua paura di tornare a casa, Ulisse rivela la sua identità a entrambi. Atena suggerisce a Odisseo che è venuto il momento di farsi riconoscere dal figlio. Ciò detto, lo sfiora con la mano, ed ecco che il vecchio coperto di stracci torna a essere Ulisse, vestito di abiti di lino fine, e i capelli grigi lasciano il posto a quelli castani. Odisseo si rivela al figlio, e lo abbraccia prima di scoppiare in lacrime. Così, Telemaco torna a casa da sua madre senza dirle nulla del ritorno di suo marito, per volere di quest'ultimo.
 
Telemaco tornerà subito al palazzo e farà togliere tutte le armi che vi si trovano, tranne due spade, due lance e due scudi, che metterà in luogo sicuro. Ulisse assicura Telemaco che sarà Atena a dare il segnale per sterminare i Proci. Nel frattempo, Atena ha ridato a Odisseo - Ulisse l’aspetto di un mendicante, in modo che Eumeo ritrovi lo stesso uomo che aveva lasciato. L’indomani mattina Telemaco si affretta ad andare dalla madre per accordarsi con lei. Odisseo ed Eumeo arrivano al palazzo. Mentre camminano vengono insultati dal capraio dei Proci, Melanzio, un servo di Odisseo che tradisce il suo antico padrone per mettersi dalla parte dei Proci. Figlio di Dolio e fratello della giovane ancella Melanto, vive sull'isola di Itaca e si contrappone per contegno ed etica ad Eumeo, il servo fedele. Il capraio ha una personalità tracotante e viscida. In Grecia si sacrificavano capre in riva al mare, ad Anfitrite, la sposa di Poseidone. Il capraio è in relazione con l’aspetto oscuro di Poseidone. Mentre il porcaro è in relazione con l’aspetto chiaro di Demetra. I due  custodi di animali formano una dualità. Quando incontra di nuovo Odisseo nella reggia, lo minaccia e solo l’arrivo dell’altro servo fedele dell’eroe - Filezio - separa i due. Cerca d’affiliarsi al pretendente di Penelope Eurimaco, al quale non fa mancare alcuna premura.
 
Argo
 
Alla reggia lo aspetta il primo grande dolore: nessuno si è occupato del suo cane, Argo, che trova malconcio in un immondezzaio; non appena vede il padrone, il cane non si fa ingannare dal travestimento e si alza per corrergli incontro, ma muore non appena arriva ai suoi piedi.
 
 
Figura 4. Ulisse e il cane Argo
 
Ulisse aveva nutrito e allevato Argo, abbandonandolo subito dopo, perché trascinato dal Fato a Troia. Eumeo, che accompagna Ulisse ricorda il coraggio e la fierezza di quel cane, un tempo infallibile cacciatore ed ora abbandonato da tutti su un mucchio di letame in balia delle zecche. È di notevole importanza far presente che la sola lacrima che versa Ulisse è per il fedele cane Argo. Il cane lo ha aspettato per ben vent’anni, per rendergli l’ultimo saluto ed ora può morire in pace.
 
Argo[9] significa bianco splendente simbolo del Fuoco, del Logos, la luce discriminante della ragione nel giudizio. Argo, la luce discriminante, riconosce il padrone nonostante la sua trasformazione.
 
Oltre al cane Argo, nessuno uomo riconosce Ulisse salvo la sua nutrice cieca, Euriclea, per via della cicatrice sulla coscia che gli era stata fatta da un cinghiale. Ulisse chiede espressamente a Penelope che sia la vecchia serva a lavargli i piedi, in modo che toccandolo lo riconosca. Adone era stato colpito alla coscia da un cinghiale. Zeus tenne in vita il figlio di Semele nella sua coscia. La nutrice promette di non rivelare la vera identità del mendicante.
 
I Proci trattano male lo sconosciuto mendicante, e comunque nessuno lo riconosce. Il canto diciottesimo è incentrato sulla lotta tra Ulisse e Iro, un mendicante che frequenta la reggia. Qui Ulisse tocca la vetta dell’umiltà perché, nella sua casa, oltre che essersi presentato da mendicante, deve contendersi il cibo con Iro, che vuole cacciarlo. Iro lo provoca malamente e Ulisse, che fa di tutto per evitare lo scontro perché non vuole correre il rischio di essere riconosciuto, lo abbatte e lo porta fuori dalla reggia per un piede. I Proci assistono divertiti alla scena, senza minimamente immaginare che fra poco toccherà pure a loro fare la stessa fine. A Ulisse si avvicina Anfinomo, uno dei Pretendenti di Penelope. Lo fa con gentilezza e Ulisse, mosso a pietà, cerca di avvertirlo del pericolo che incombe, ma lui non capisce o non vuole capire e resta lì andando incontro alla morte.

[1] Odisseo come Achille aveva come un nordico i capelli biondi.
[2] La setta dei Nazorei esisteva molto tempo prima delle leggi di Mosè e trasse origine dai popoli nemici di Israele, cioè dai popoli della Galilea.
[3] II, Re, 8; Giuseppe Ebreo, Ant. Giud. IX.
[4] “Sopra il cui capo non passerà mai il rasoio, perché il Fanciullo sarà un Nazoreo, consacrato a Dio dal seno di sua madre”. Giudici XIII, 5.
[5] Immagine https://www.sacred-texts.com/cla/homer/aoo/aoo31.htm
[6] Odissea, libro XIV, 11 – 13.
[7] I Titani nel mito Orfico erano due, stranamente il custode dei porci e il loro padrone sono anch’essi due. I pezzi di Zagreus mangiati dai Titani furono 2x7 = 14. Osiride fu smembrato da Set in 14 pezzi. L’anno solare di 365 giorni vale 3 + 6 +5 = 14. I giorni dell’anno si ottengono sommando i 360 maiali più 5 gli anni del maiale più bello. La circonferenza si calcola usando il numero p, i cui primi cinque numeri valgono: 31415, la cui somma è 14, due volte sette.
[8] L’ammonimento di Gesù di non gettare le perle ai porci si traduce: non dare le perle dell’insegnamento a chi non è evoluto (i porci) e non è in grado di comprenderlo, perché si avventerebbe su di te.
[9] Argo, denominato anche Argus Panoptes cioè “che vede ogni cosa” viene raffigurato come un cane dai cento occhi, che li chiudeva solo a metà quando dormiva. Alla sua morte, per mano di Ermes, fu trasformato da Era nella coda del pavone. Qui è presente la simmetria, sia a proposito dei favoleggiati 100 occhi per metà chiusi e per metà aperti (50 + 50), sia nel caso degli “occhi” che si possono ammirare sulla splendida coda del pavone, quando fa la ruota, il tempo ciclico.
 
PENELOPE
 
Il nome Penelope deriva dal termine greco πηνέλοψ, penelos, anatra. In Penepolos ritroviamo l’anatra, l’uccello acquatico, un alter-ego della Cicogna Pelarge. Non è un caso che il personaggio omerico si chiami così: quando Penelope bambina fu gettata in mare dal padre un gruppo di anatre accorse a salvarla. All’inizio dell’opera è stato spiegato che l’Iniziatrice era la dea Pelarge, la dea Cicogna, che appare nel nome della moglie di Odisseo, Penelope.
 
Penelope è il polo verso cui tende il racconto di Odisseo, e filo conduttore dell’intera Odissea, poiché tutte le avventure di Ulisse sono motivate dalla volontà di tornare a Itaca. Per Penelope, Odisseo è il centro di tutto: è per lui che passa vent’anni della sua vita sola, nonostante lo stesso Odisseo, prima di partire, l’avesse autorizzata a sposarsi nuovamente e trasferirsi nella casa del suo nuovo marito, una volta che Telemaco fosse stato grande abbastanza da poter gestire da solo la reggia di Itaca.
 
… e quando vedi spuntare la barba al ragazzo,
sposa chi vuoi, lasciando questa casa.”
(Od. XVIII, 269-270)
 
Penelope, astuta quanto Ulisse, tesse di giorno e disfa la tela di notte. Degna compagna dell’Eroe perché si dimostra come lui astuta e prudente. Si trovò circondata da un nuvolo di pretendenti al trono, che l’annoiavano dalla mattina alla sera per sapere chi fosse fra loro tutti il preferito per sposarla. Per ritardare la risposta, la furba Penelope, rispondeva sempre che non l’avrebbe mai detto, se prima non avesse finito di tessere un sudario per il padre di Odisseo, Laerte. E perché quella tela non venisse mai a fine disfaceva di notte la poca tela tessuta di giorno. Facendo retrocedere la tela appena tessuta, Penelope la usava come un orologio a cui si spostino le lancette a ritroso secondo il proprio desiderio. Questo il racconto omerico, che dà come scontata la possibilità che si possa far retrocedere un tessuto a uno stato precedente.                                                  
 
Figura 1. Penelope che fila
 
 
Per riportare la tela allo stato del giorno precedente, Penelope avrebbe dovuto necessariamente spezzare il filo della trama, rischiando non solo di compromettere il risultato del suo lavoro - un sudario destinato al re Laerte - ma anche di violare l'antichissima credenza che vede nella trama il simbolo di un processo lineare potenzialmente infinito.  Quando si dice “il filo del discorso” o “perdere il filo di un ragionamento”, si dà per scontato che questo filo sia qualcosa di continuo e irreversibile, che tenga insieme il discorso e gli dia senso.
 
Il racconto della tela di Penelope, un evento narrato tre volte nel poema, nel II e nel XIX e poi ancora nel XXIV canto.
 
Il telaio che storicamente la tradizione figurativa riporta accanto a Penelope è un telaio a pesi. Quest’ultimo fu il primo tipo di telaio inventato dall’uomo, nel periodo neolitico, e rimase in uso presso popoli antichi del Mediterraneo fin dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente. È un telaio molto semplice che ha la caratteristica di cominciare a costruire il tessuto, contrariamente ai telai moderni, nella sua parte alta.
 
 
Figura 2. Penelope e Telemaco[1]
 
I Proci non si comportavano correttamente nella reggia di Itaca: consumavano quanto prodotto nell’oikos senza ricambiare in alcun modo:
 
… non era questo una volta il costume dei pretendenti,
che volevano fare la corte ad una donna di nobile stirpe
e figlia di un ricco, e tra loro competere;
sono loro che portano i buoi e le pecore grasse
ai parenti della fanciulla per il convito, e danno splendidi doni:
ma non mangiano senza compenso la roba di un altro.”
(Od. XVIII, 275-280)
 
Peggio ancora, hanno nei confronti di Penelope e degli abitanti della reggia un rapporto di prevaricazione basato sulla superiorità numerica e sulla certezza che i pochi uomini di casa non hanno le risorse per fronteggiarli.
 
Penelope tiene con i Proci un comportamento dignitoso e distaccato: addirittura ogni volta che li incontra lo fa coprendosi sempre il volto con uno scialle e si fa accompagnare dalle ancelle. Dopo tre anni di rinvii di successo, una delle sua ancelle, Melanto rivelò il suo inganno, e i pretendenti impazienti chiesero con rabbia di sceglierne uno come suo marito immediatamente.
 
Melanto una delle ancelle di Penelope, che l’aveva cresciuta fin da piccola, era la degna sorella del capraio Melanzio[2] che tradì Odisseo. Si schierò cin il fratello dalla parte dei pretendenti e fu l'amante di Eurimaco, il pretendente più conosciuto dopo Antìnoo.
 
Nel canto XVIII è pure descritto lo scontro tra Ulisse e l’infedele serva Melanto, sorella dell’altro traditore Melanzio, il guardiano di capre. Fu fra le ancelle la più prepotente, ma non è noto se venga impiccata sotto ordine di Telemaco insieme alle altre serve infedeli dopo il massacro dei pretendenti (Od. XXII, 461-473).

[1] Chiusi, Siena - Museo Archeologico Nazionale - Penelope è rappresentata al telaio verticale in compagnia del figlio Telemaco Pittura vascolare su "skyphos" Attica a figure rosse (440 a.C. circa).
[2] Melan-zio e Melan-te hanno nomi quasi uguali per indicare che sono simili in tutto, si differenziano solo per la parte finale
DODICESIMA PROVA – I PROCI
 
Nel canto diciannovesimo vi è il primo incontro tra Penelope e Ulisse dopo il suo ritorno a Itaca. Il confronto è una vera e propria partita a scacchi dove entrambi cercano di capire a che punto è la vita dell’altro dopo venti anni di separazione. Ulisse incontra anche Penelope, ma non le si svela: dalle sue parole, capisce che la donna ha un forte desiderio di rivedere il marito. Sembra inverosimile che Penelope non riconosca Ulisse fisicamente, e Ulisse s’inventa, ancora una volta, una provenienza fantasiosa. Poi Penelope racconta a Ulisse come ha tenuto a bada i Proci per tre anni con la storia della tela che tesseva di giorno e sfilava di notte.
 
La regina tratta con cortesia e riguardo, l’ignoto viandante, quando ancora ignora che sotto le false spoglie di mendico è celato proprio Odisseo, gli parla e gli svela le sue angosce: continuare ad aspettare il ritorno dell’amato marito, o risposarsi perché i beni dell’oikos non vengano completamente dilapidati dai proci?
 
Penelope racconta ad Odisseo un sogno fatto qualche notte prima che l’ha turbata e gli chiede una sua interpretazione.
 
Ma ora ascolta questo mio sogno e spiegamelo:
venti oche, in casa mia, mangiano il mio grano
uscendo dall’acqua: io mi rallegro a guardarle;
una grande aquila dal becco adunco viene dal monte,
spezza il collo e uccide le oche, che giacciono ammucchiate
nella sala; l’aquila risale verso l’alto cielo
Nel sogno, io piangevo e singhiozzavo;
le donne achee dalle belle trecce stavano attorno a me,
disperata perché l’aquila aveva ucciso le mie oche.
Poi l’aquila tornava e si fermava su una sporgenza del tetto,
con voce umana mi chiamava e mi diceva
– Coraggio, figlia del glorioso Icario! Questo non è
un sogno, ma un presagio favorevole, che si avvererà:
le oche sono i pretendenti; io, che nel sogno ero
un’aquila, sono tuo marito: sono tornato
e darò una brutta morte a tutti i pretendenti
(Odissea XIX , 535-550)
 
Ulisse, l’aquila, ucciderà le 20 oche, i Proci che infangavano la sua casa, come bestie al macello: “alla maniera di animali essi caddero sordamente, materia inerte, come se l’anima fosse rimasta strozzata nei loro corpi”. Al ventesimo anno l’aquila Ulisse uccide le 20 oche o Proci, con il numero venti si conclude il doppio ciclo di dieci anni, l’allontanamento dalla propria casa e il ritorno.
 
L’aquila
 
L’aquila, era per gli antichi, il simbolo della giustizia, Uccello del Sole, 1’aquila fu presso antiche popolazioni anche il simbolo del fuoco e della luce; i Greci e poi i Romani 1’hanno rappresentata con i fulmini di Zeus-Giove fra gli artigli. Nella Storia naturale di Plinio si legge che 1’aquila è 1’unico volatile capace di fissare per lungo tempo ed intensamente il sole e che per provare la legittimità dei suoi piccoli, li espone alla luce accecante dei suoi raggi[1]. Per tali motivi all’aquila era affidato l’incarico e il vanto di recare i fulmini che Zeus scagliava contro chi lo faceva adirare o lo offendeva. Sui monumenti funerari siriani 1’aquila assumeva il ruolo che in Grecia era di Ermes, quello dello psicopompo, che accompagnava le anime dei morti verso la loro dimora. Ulisse appare in sogno premonitore assumendo la funzione di Zeus, quella di giustiziere divino.
 
Le Porte dei sogni d’avorio e di corno
 
La Dottrina antica spiega che vi sono tre tipi di sonno: il sonno senza sogni un buio per la coscienza, il sonno che è un caos di sogni, e il sonno i cui i sogni divengono realtà per il dormiente, il sogno premonitore di Penelope appartiene al terzo tipo.
 
Ospite, i sogni sono vani, inspiegabili:
Non tutti si avverano, purtroppo, per gli uomini.
Due sono le porte dei sogni inconsistenti:
Una ha i battenti di corno, l’altra d’avorio:
Quelli che vengono fuori dal candido avorio,
Avvolgono d’inganni la mente, parole vane portando;
Quelli invece che esco fuori dal lucido corno,
verità li incorona se un mortale li vede …
Io proporrò una gara …[2]
 
Penelope commentando il suo sogno, afferma che attraverso la porta d’avorio passano i sogni falsi, quelli che ingannano, mentre attraverso la porta di corno passano i sogni veri, quelli che si compiono e che si realizzano, a condizione che un mortale li veda. La mitologia greca narra che nei Campi Elisi[3] abitano due figli della Notte la dea Nyx,: Thanatos, il demone della morte, e Hypnos, il sonno. Figli di questi sono i Sogni, che abitano in una grande casa al di là dell’Oceano. Questa casa ha due grandi porte: una di avorio e una di corno. Dalla prima controllata da demone della morte escono sogni falsi e ingannevoli, dalla seconda sotto il dominio di Ipnos[4] escono sogni premonitori. Virgilio narra che Enea e la Sibilla che dall’Averno escono dalla porta d’avorio, affinché Enea non abbia ricordo del viaggio, se non vaghe sensazioni confuse.
 
Il corno
 
Il corno è simbolo di sovranità, forza, fecondità: “freccia spirituale, raggio solare, spada di Dio”. Il simbolo occidentale di questa spada di Dio è l’unicorno, in Cina rappresenta virtù regali: la comparsa dell’unicorno segnala la presenza di un saggio. Le corna rivolte verso l’alto, simbolicamente rimandano al mondo dello spirito, basti pensare alle corna che Michelangelo appose sul capo del suo Mosè. E’ inoltre un simbolo bipolare, unificatore dell’aspetto maschile, penetrante, e di quello femminile, creativo: se solo viene capovolto mostra la sua forma cava, a calice, che contiene e produce le ricchezze, il simbolo della cornucopia. Di corno di cervo è l’arco di Ulisse tramite il quale metterà fine alla vita dissoluta dei Proci.
 
L’Ascia sacra
 
La regina accetta il significato premonitore del sogno con l’aiuto di Atena, ha l’ispirazione della gara con l’arco e anticipa all’ospite che sta per proporre ai Proci una gara con l’arco, la preferita del marito, che consiste nel far passare una freccia tra dodici anelli posti in cima ad asce bipenne allineate.
 
Le dodici asce del racconto omerico le ritroviamo simbolicamente espresse presso gli Etruschi nell’ascia bipenne inserita in un fascio dodici di verghe (come quella trovata nella tomba detta del Littore a Vetulonia) per significare, oltre alla forza della folgore, l’autorità suprema del nume depositario della giustizia che regola e punisce. Le dodici verghe che “incoronano” la scure bipenne sono il ciclo zodiacale con la sua metà ascendente e discendente, aventi origine e fine nei solstizi d’inverno e d’estate. Ascia bipenne a duplice lama, attraverso la civiltà etrusca, divenne per Roma simbolo del potere imperiale[5]. La dualità simmetrica dei due tagli rappresenta l’integrazione creatrice delle polarità opposte. Tale incontro avviene in un punto dell’asse che è il centro immobile.
 
 
Figura 1. Ascia bipenne con anello
 
La freccia di Ulisse deve idealmente passare per il centro visualizzato con un anello posto in cima all’ascia. I tagli dell’ascia rappresentano esattamente “il simbolismo del fulmine”. L’ascia fu simbolo del fulmine per tale motivo le asce del tuono venivano realizzate con ferro meteorico caduto dal cielo. Con una scure a due tagli Odisseo si intagliò la barca per lasciare l’isola di Calipso.
 
L’arco e le frecce di Ulisse
 
Il vincitore della gara sposerà la regina. Penelope entra nella grande sala, portando l’arco e le frecce di Ulisse. La seguono le sue ancelle fedeli con le asce di cui si serviva Ulisse. Ulisse non aveva portato con sé a Troia il suo arco di corno di cervo[6], l’aveva lasciato ad Itaca; i commentatori non comprendendo l’aspetto simbolico, affermano che quest’azione era dettata dal fatto che i guerrieri Achei all’arco preferivano spada e lancia, cioè preferivano lo scontro ravvicinato perché più virile.
 
 
Figura 2. Penelope con arco e frecce di Ulisse
 
Omero descrive delle vicende mitiche dove i messaggi vengono dati in maniera figurata e simbolica. Omero, nell’ultimo canto dell’Iliade narra che Apollo e Artemide sterminano con arco e frecce, i figli di Niobe, una razza maledetta dagli Dei e il periodo d’ira durò nove giorni e nove notti per cessare al decimo giorno. Apollo e Artemide sono da un punto di vista misterico le divinità della Luce e della Sapienza, mentre dal punto di vista astronomico rappresentano il Sole e la Luna. Eracle nella fatica dei buoi di Gerione, punta l’arco e la freccia verso il cielo per ben due volte, tanto che sia Elio che il dio Oceano s’impaurirono. Gli antichi identificavano la freccia al fulmine.
 
Stando al racconto dell’Odissea l’arco divino di Eurito, dono proprio di Apollo, fu ereditato da Ifito, suo figlio, il quale lo regalò, come dono di ospitalità, ad Ulisse nel loro incontro a Messene. Ulisse usò proprio questo mitico arco per uccidere i Proci, al suo ritorno ad Itaca. Eurito era figlio di Menelao, a sua volta figlio di Apollo l’arciere. Secondo la tradizione omerica, egli volle rivaleggiare in bravura nel tiro con lo stesso dio Apollo che lo uccise. In miti che si riallacciano alla figura di Eracle, incontriamo Eurito che insegnò all’eroe l’arte del tiro con l’arco. Paride, il guerriero allievo e sposo di una musa della guarigione, aveva ucciso Achille con una freccia la cui traiettoria era stata guidata dal dio Apollo; secondo altre tradizioni era stato il dio stesso, dopo aver assunto le sembianze di Paride, a scagliare la freccia contro l’eroe greco. La morte di Paride avvenne a causa di una delle frecce avvelenate di Eracle scagliate da Filottete[7].
 
Il suono della lira e della rondine
 
Nel canto XXI a sorpresa il primo a proporsi per il tiro con l’arco è Telemaco che dopo tre tentativi falliti, al quarto potrebbe anche riuscirci, ma il padre con un cenno lo dissuade. Poi via via tocca ai Pretendenti. Ulisse, mostra la cicatrice sulla sua coscia ai suoi due servi fedeli, il porcaio Eumeo e il bovaro Filezio. Ulisse, sempre nei panni del viandante, appoggiato da Telemaco, chiede di far provare lui; i Proci ridono sprezzanti, ma lo straniero prende l’arco, lo tende senza nessuna fatica e scaglia la freccia, centrando al primo colpo gli anelli. Nel frattempo il fedele porcaio aveva chiuso dall’esterno tutte le porte del salone.
 
Egli prese in mano l’arco … quale un esperto suonatore di lira che tenda una nuova corda dopo averla avvolta con una chiavettina, lo tese senza sforzo; quindi lo prese con la mano destra e saggiò la corda, che mandò un suono dolce, come quello di una rondine. (Odissea, XXI, 405, 412).
 
Iside, quando trovò la bara di Osiride, nel palazzo del re di Biblo sigillata nella colonna ricavata da un albero, tutte le notti si trasformava in rondine e svolazzava intorno alla colonna, lanciando strida di dolore. Platone, nel Fedone, fa parlare Socrate che dopo aver bevuto la cicuta si appresta a morire. Socrate dice che adesso che si appressa la sua morte, è contento. Fa il paragone dei cigni che cantano meglio quando stanno per morire, perché vanno a congiungersi con il loro dio: Apollo. Dice anche che sono gli uomini ad avere inventato che quello è un canto di dolore: infatti non si è mai sentito un uccello cantare per il dolore. Riporta il mito dell‘usignolo, della rondine e dell’upupa, dei quali si dice piangano per il dolore. Quindi nessun uccello canta di dolore, ma poiché i cigni sono indovini sanno che stanno per congiungersi con Apollo nell’Ade. Anche Socrate si sente un po’ indovino come i cigni[8] Per questo è contento di morire, perché sa di andare a congiungersi con il proprio dio nell’Ade. Simmia dice a Socrate che il ragionamento che ha fatto fino a quel momento, lo si potrebbe fare anche di una “lira” e di un “accordo musicale”, dicendo cioè che l’accordo è incorporeo e invisibile e quindi bello e divino, mentre la ‘lira’, essendo corporea, è congeniale a ciò che è mortale. Se qualcuno rompe la ‘”lira” cioè il corpo, la lira perisce, ma l’accordo, l’anima rimane. Ulisse: “Saggiò la corda, che mandò un suono dolce, come quello di una rondine”.

[1] Nel Cristianesimo l’aquila divenne l’emblema della giustizia di Cristo: l’Aquila Christus.
[2] Odissea, XIX, 560,571.
[3] I Campi Elisi sono riservati ai giusti, ai virtuosi, ai saggi e agli eroi, dove essi vivevano eternamente sereni
[4] Ipnos aiuta gli uomini a riposare e toglie loro il dolore e la fatica.
[5] Il fascio romano si differenziò dal simbolo etrusco per la presenza di una scure ad un taglio anziché doppio.
[6] Il cervo era un animale sacro sia ad Apollo sia ad Artemide.
[7] Filottete, colui che custodiva l’arco e le frecce di Ercole, fu annoverato tra i pretendenti di Elena, quindi, partecipò alla spedizione contro Troia guidando un contingente di sette navi con quaranta arcieri, ma non vi giunse con gli altri capi. Durante uno scalo a Tenedo fu morso al piede da un serpente nel corso di un sacrificio; proprio a quel piede con cui aveva indicato il luogo della morte di Eracle che, così, volle punirlo. La ferita diventò ben presto infetta così da emanare un puzzo insopportabile tanto che Ulisse convinse gli altri capi ad abbandonarlo sull’isola di Lemno, l’isola dei Kabiri. Su questa isola egli rimase per dieci anni sopravvivendo grazie all'arco ed alle frecce di Eracle con cui andava a caccia.
[8] In Apologia, Socrate dice di essere servo di Apollo e dice che lui è consacrato allo stesso dio, per cui anch’egli possiede l’arte della divinazione. I cigni erano sacri ad Apollo.
 
L’UCCISIONE DEI PROCI
 
L’Eroe prese una freccia e la scagliò attraverso i dodici anelli posti in cima alle asce bipenne dimostrando così il passaggio attraverso le dodici prove, i dodici segni dello zodiaco. Un enorme tuono scoccato da Zeus è vissuto da Ulisse come approvazione divina del suo agire. I Proci impallidiscono e intuiscono cosa sta accadendo e precipitano nel terrore.
 
 
Figura 1. Ulisse scaglia la freccia                                                                           
 
Telemaco si mette di fianco al padre e la battaglia comincia (canto XXII). La prima freccia è per Antinoo, il capo, poi si ha una meschina scena di viltà di Eurìmaco, che cerca di addossare ad Antìnoo tutta la responsabilità di quello che è accaduto finora nella casa di Ulisse, sperando così di essere da lui risparmiato. Quando si rende conto che Ulisse è inamovibile nel portare avanti la battaglia, incita se stesso e gli altri alla lotta ma Ulisse lo centra nel petto con una freccia. Tutti i Proci vengono trucidati. L’anagramma di Proci è porci, gli animali sacrificati a Demetra.
 
La morte dei Proci non fu la conclusione triste e armoniosa di una vita eroica; alla loro vita di crapuloni mise fine con insospettata istantaneità, la vendetta dello sposo ritornato. Essi furono macellati come bestie … alla maniera di animali essi caddero sordamente, materia inerte, come se l’anima fosse rimasta strozzata nei loro corpi. Ermes “evoca” ora le loro anime. Questa parola significa normalmente l’evocazione degli spiriti dei morti che dimorano nelle tombe e negli inferi.[1] Qui Ermes fa l’evocatore dei morti prima che essi siano sepolti e non per ricondurre le anime sulla terra con la forza, bensì per condurle via dolcemente, verso i lontani campi dell’altro mondo … Il suo apparire lenisce l’effetto di una crudele vendetta di Ulisse, esattamente come anche la crudeltà di Achille ha ceduto nell’ultimo canto dell’Iliade dominato da Ermes.[2]
 
Poi tocca alle ancelle infedeli essere giustiziate tramite impiccagione dodici su cinquanta. Ulisse risparmia solo il cantore Femio e Medonte. Quest’ultimo è salvato da Telemaco perché lo aveva protetto quando i Proci tramavano per ucciderlo e perché non si è macchiato di infamia come i Proci. “Così, per la loro follia, destino infame hanno avuto”. (Canto XXII: V. 317)  
 
Durante la strage dei pretendenti il capraio Melanzio che già aveva insultato due volte Ulisse si prodiga per andare nei piani superiori a prendere armi per i Proci: una prima volta ci riesce, ma poi viene intercettato dal porcaro Eumeo. Per ordine di Odisseo, tuttavia, il capraio Melanzio non viene ucciso immediatamente: Eumeo lo prenderà prigioniero, incatenandolo in una posizione dolorosa. Alla fine della strage Melanzio paga il fio del suo tradimento in maniera atroce: Telemaco e al suo seguito i fidi Eumeo e Filezio gli mozzano naso ed orecchi, lo evirano, gettando quindi i testicoli del capraio ai cani, e per concludere l’opera gli amputano le mani, facendolo morire per dissanguamento.
 
Ulisse individua e stermina tutti i suoi nemici che insozzavano la sua casa, che in termini mistici significa il suo corpo. Euriclea ha il compito di purificare la reggia dal fiume di sangue, con lo zolfo e col fuoco: sala, soffitto e cortile. Nell’insegnamento tradizionale islamico, la guerra santa è di due tipi: quella esteriore la piccola guerra santa e quella interiore, la grande guerra santa[3].
 
La Dodicesima Porta è quella nel segno zodiacale dei Pesci che sono anche il segno della morte sotto vari aspetti. Talvolta è la morte del corpo, ma è il segno della morte della personalità. Liberazione dell’anima dalla prigionia. Se noi potessimo scorgere ciò che è oltre la personalità, sollevando i suoi veli che ci oscurano la visione, noi la lasceremmo andare.
 
Nella sacra Camera del Concilio, Colui Che Presiedeva rivelò al Maestro la Volontà di Ciò che Deve Essere.
Egli è perduto e ritrovato; morto eppur vibrante di Vita. Il servitore diviene il salvatore e ritorna alla sua dimora.”[4]
 
All’inizio del canto XXIV si ripropone il tema della morte con le anime (eidolon) dei Proci che sono guidate da Ermes nell’Ade. Nel regno dei morti gli eidolon degli Eroi della guerra di Troia Achille e Patroclo, Aiace, Agamennone e Antìloco e altri ancora parlano del tempo che fu, come se niente fosse cambiato nemmeno lì. Quando Agamennone vede giungere lo spettro di Anfimedonte, un Itacese ucciso nella strage dei Proci (Agamennone lo riconosce perché da vivo era stato ospite del padre), gli chiede il motivo della sua morte. Anfimedonte ripercorre il ritorno di Ulisse a Itaca, la gara con l’arco e la strage finale.
 
La dodicesima prova sarà conclusa solo adempiendo la profezia di Tiresia: egli terminerà di viaggiare per mare (le emozioni) viaggerà per terra fino a che non vedrà un “segno” che gli confermerà l’arrivo e troverà un viandante che scambierà il suo remo con un ventilabro, con il quale potrà liberare il buon seme dalla sua scoria.
 
Ulisse ordina ad Euriclea di fare scendere la regina da lui, che si era rifugiata al piano superiore della reggia. Euriclea dà a Penelope la grande notizia che Ulisse che è tornato, lei lo ha riconosciuto dalla cicatrice fattagli dal cinghiale sulla gamba. Nel canto ventitreesimo, Ulisse e Penelope si ritrovano di fronte, ma quando Penelope vide Ulisse, ma dalla sua bocca non uscì nessuna parola, e rimase muta.
 
  • Penelope va a sedere presso la parete che sta di fronte al focolare, vicino alla fiamma che ha conservato viva per vent’anni, come il suo amore;
  • Odisseo, invece, sta in piedi appoggiato ad una solida colonna, come a sorreggere la casa.
   
Abbiamo una doppia identificazione, Penelope con il Focolare e Ulisse con la solida colonna. Ritroviamo più volte nel racconto omerico l’immagine del focolare con una figura femminile accanto. Hermes trova Calipso all’interno della grotta seduta accanto al focolare, con l’aurea spola percorrendo il telaio, ella tesseva; Nausicaa è anch’essa descritta accanto al focolare, filando di porpora lucente. Telemaco informa Ulisse che troverà Penelope seduta al focolare, alla luce del fuoco, dalla rocca filando lane purpuree. Il Focolare nella reggia di Ulisse è posto al centro della sala, simbolo del Fuoco sacro centrale (Sole) custodito dalle Vestali.
 
Visto il mutismo della madre Telemaco, le chiese perché stesse lì senza parlare, visto che Ulisse, suo marito, di cui attendeva il ritorno da tanto tempo, era lì, di fronte a lei, in attesa del suo riconoscimento.
 
Penelope gli rispose che non sapeva se lo dovesse interrogare, perché loro avevano molti segreti in comune non conosciuti da altri. Ulisse sorride quando sua moglie parla. Egli, allora, ribatte dicendo che dopo essersi messo nuove e ricche vesti, lei lo potrà meglio riconoscere e dopo lo potrà interrogare.
 
Eurinòme, la dispensiera, lavò Odisseo, l’animoso; lo spalmò tutto con l’olio; lo rivestì di tunica e di una magnifica stola. Atena sul volto allora gli diffuse una avvenente solenne maestà che lo rese più splendido, più forte e grande; e sul capo fece spuntar chiome fluenti come fior di giacinto: come un perfetto artefice, ispirato da Efesto e da Pallade Atena in tutti i segreti dell’arte, lavora l’oro e l’argento e ne trae oggetti di superba finezza, così Atena soffuse di grazia il capo e gli omeri di lui. Figura di un dio immortale, egli uscì dalla stanza da bagno e andò a sedere sulla sedia di dove s’era levato, di fronte a sua moglie.[5]
 
Intanto, all’interno della casa,Atena rende Ulisse più bello. Anche in questo episodio compare Atena, che lo aiuta in un momento cruciale per l’avvenire. Alla fine Ulisse chiede alla nutrice di condurlo a letto, ma Penelope chiede a Euriclea di portare lì il letto e imbandirlo di nuove lenzuola.
 
Il segreto custodito dal letto era a conoscenza di tre persone: Penelope, Odisseo ed Attoride, una serva che custodiva il solido Talamo, non nominata in alcun altro luogo dell’Odissea. Un segreto è celato in questo letto: un’appendice nascosta che lo vincola a terra, il tronco di un ulivo. Ulisse, per farsi identificare dalla sua sposa, deve raccontarle come aveva, a suo tempo, costruito il loro letto nuziale. Ma prima del riconoscimento occorreva un’altra purificazione, un lavaggio del corpo e delle vesti, seguito da un’unzione.

[1] Vedi vicende di Odisseo nell’oscura terra dei Lestrigoni.
[2] K. Kerényi, Miti e Misteri, p. 66, 67.
[3] Renè Guenon, I simboli della Scienza Sacra, Sayful Islam.
[4] A.A. Bailey, Le fatiche di Ercole – Dodicesima prova.
[5] Odissea, XXIII, 154 - 164
IL NAOS, IL TALAMO DELL’ULIVO – IL MATRIMONIO SACRO
 
Il letto di Ulisse, nascondeva un gran segreto, Ulisse senza alcun testimone lo ricavò all’interno di un grosso albero di ulivo[1] : gli tolse la chioma, lo squadrò in modo da farne un montante. Fece un’operazione che viene chiamata la quadratura (la sezione del montante) del cerchio (la sezione dell’albero). All’interno del tronco Ulisse ricavò lo spazio per la camera nuziale e fu data forma del letto, tutto senza spiantare l’albero.
 
Un segno importante c’è in quel letto
così ben fatto: fu mio il lavoro e di nessun altro.
C’era dentro al cortile una pianta frondosa di olivo,
rigogliosa, fiorente, e massiccia come una colonna.
Io la cinsi di un talamo, che fui io a costruire, fino alla fine,
con pietre compatte, e con perizia feci la copertura.
Ci misi infine solidi battenti, strettamente connessi.
Poi tagliai via la chioma dall’olivo dall’esteso fogliame,
e il ceppo sgrossai fin dalla radice, e tutt’intorno con il bronzo
lo spianai con competenza e perizia, e a filo lo livellai,
creando con arte una base e tutto lo traforai con il trapano.
E poi, di seguito, spianando feci il letto. E così lo finii,
intarsiandolo d’oro e d’argento e d’avorio,
e vi tesi cinghie di bue, splendenti di porpora.
Ecco, questo è il segno che ti rendo manifesto; ma non so
se il mio letto è ancora al suo posto, o donna, o se qualcuno
l’ha già messo altrove, di sotto tagliando il ceppo d’olivo.
Odissea, XXIII, 188 – 204.
 
Il letto, lavorato ad arte, nasconde un gran segreto: è opera di Ulisse senza testimoni o aiuti.
 
L’ulivo è l’albero di Atena, la Sapienza divina, in esso Ulisse, l’Io, ha ricavato in principio, prima di lasciare Itaca, il suo talamo nuziale. Il Viaggiatore abbandona la sua Casa per 20 anni, un primo ciclo di dieci anni, la caduta nella forma, e dopo un secondo ciclo di 10 anni, può far ritorno alla propria Dimora, a condizione di aver eliminato completamente gli ostacoli materiali. Solo dopo aver ucciso come aquila solare le 20 oche, gli animali acquatici, cioè i Proci che insozzavano la sua dimora, il triplice corpo fisico emotivo e mentale del Sé, dopo aver ucciso il suo aspetto animalesco, l’uomo inferiore, che Ulisse, può unirsi con la sua amata Penelope, con l’Anima spirituale, in un abbraccio con la Sapienza divina.
 
L’espressione “prendere in matrimonio” (eko bhu, diventare uno) significa anche “morire”, proprio come in greco τελεω, che vuol dire “perfetto”, ma anche “essere sposato”, “e morire”.[2]
 
Il luogo di questa riunione è sacro, un Naos o piccolo tempio, situato ad un livello superiore rispetto alla terra. Dal punto di vista architettonico, il talamo descritto da Omero, appare dunque come un piccolo tempietto, eretto su un basamento in blocchi di pietra. Al cuore del Naos posto al piano superiore si accede passando una soglia squadrata ad arte di legno quercia, l’albero sacro a Zeus, per affermare che ha diritto di varcarla solo colui che è Figlio di Zeus . Sopra la soglia, Ulisse piazzò gli stipiti con porte splendenti chiuse da battenti che muggivano come un toro. Omero descrive Ulisse come un provetto falegname o carpentiere[3], che ha posto la sua dimora in alto all’interno dell’Albero della Sapienza dove potrà unirsi con la legittima sposa, Penelope, la propria anima.
 
Le operazioni che Ulisse esegue sul ceppo dell’ulivo sono di tre tipi: tagliare, spianare (nel senso di sgrossare e levigare), trapanare.
 
  1. Tagliare. Ulisse recide i rami e il fogliame dell’ulivo, in modo che resti solo la parte massiccia del tronco e del ceppo. Il tagliare si riferisce alla eliminazione delle protuberanze irregolari, operazione di sgrossatura. Il simbolo albero colonna indica la sgrossatura della pietra grezza in modo che abbia forma definita.
  2. Spianare. Operazione compiuta da Ulisse con un’ascia di bronzo. Operazione di levigatura, finizione in superfici lisce. Infine interviene una operazione di livellamento. Ulisse modifica la forma del ceppo da una sezione circolare a una sezione rettangolare.
  3. Trapanare. I fori eseguiti con il trapano servono a Ulisse per sistemare sulla superficie superiore le strisce di cuoio che costituiscono la parte morbida del letto. I fori sulle superfici laterali del parallelepipedo, servivano probabilmente per fissare ad esse quegli elementi decorativi di oro, di argento e di avorio.
     
All’inizio del viaggio ventennale fu il talamo nuziale, quello che Ulisse costruì in un ulivo secolare ben piantato in terra e intorno al quale edificò la sua stanza da letto, lo spazio sacro da condividere soltanto con Penelope, l’unica a conoscere il segreto di quel singolare letto ben ancorato al suolo da tortuose radici, attorno al letto aveva costruito la camera ed eretto il palazzo.
 
Costruttivamente, ritroviamo in successione un ingresso, di due vestiboli: uno per Odisseo ed uno per Penelope, di due scale che salgono al piano superiore all’unico spazio-letto. Il cuore del Naos, il luogo dove potevano entrare solo il sacerdote e la sacerdotessa, è il letto che è misura della cella, ed è completato alla sommità da tre coperture: il “cielo” per zanzariera, il soppalco delle “vesti odorose” e la copertura a ire spioventi convergenti.
       

Figura 1. Il Talamo - il Naos
 
Solo dopo la rivelazione del costruttore del talamo nuziale, Penelope si scioglie in lacrime e abbraccia il suo sposo. Dopodiché, la sposa disse saggiamente: “Il tuo letto è pronto. Vieni a raccontarmi delle tue traversie. Mi sembra giunto il giorno che io le conosca, ed è meglio che le conosca subito”.
 
Ulisse si unì alla moglie al compimento del diciannovesimo anno e all’inizio del ventesimo anno dalla partenza.
 
L’unione di Ulisse con Penelope è l’immagine il matrimonio sacro, la sottomissione dell’uomo esteriore all’uomo interiore, dell’individualità attiva a quella contemplativa.
 
Come un uomo abbracciato dalla sua amata perde la cognizione di un io e di un tu, così l’io, identificato al Sé onnisciente, perde ogni cognizione di un me stesso interiore e di un te stesso esteriore.”[4]

[1] Bastoni e clave di legno d’ulivo erano quelle dei ciclopi; anche il bastone grande quanto l’albero di una nave, conficcato nell'occhio del ciclope era d’ulivo.
[2] A. K. Coomaraswamy, Induismo e Buddismo, pag. 29, Rusconi Editore.
[3] Gesù era figlio di un falegname, di un carpentiere. Ulisse dimostra anch’esso di essere un buon falegname oltre alla costruzione del Naos, egli nel primo ciclo costruì o diede le istruzioni per far costruire un cavallo di legno, nel secondo ciclo si costruì la zattera con la quale iniziò il ritorno verso casa. Vishvakarman, il dio dei Misteri indù, è denominato architetto, Takshaka “intagliatore di legno”, o falegname. La sposa di Vishvakarman è Yoga-Siddha, che vuol dire Sapienza, come la Sophia degli Gnostici.
[4] A. K. Coomaraswamy,  Induismo e Buddismo, pag. 28,  Rusconi Editore.
LAERTE                                                  
 
Prima che qualcuno in città sapesse che era tornato, dopo aver ingiunto a Penelope di salire al piano di sopra e non prendere iniziative, all’apparire dell’Aurora Ulisse si avvia al podere di Laerte col figlio Telemaco e i fedeli pastori Filezio ed Eumeo.
 
Mentre si avvicinava al podere, vide un vecchio che lavorava nella vigna, scavando attorno a una pianta. Quando venne da lui vide che questo vecchio non era uno schiavo né un servo ma Laerte, suo padre. Quando lo vide sprecato con l'età e tutto incurante, Ulisse rimase immobile, appoggiando la mano contro un pero e dolorante nel suo cuore. Il vecchio Laerte tenne la testa bassa mentre stava scavando intorno alla pianta.
 

Figura 1. Ulisse incontra Laerte
 
"Vecchio, ti prendi bene cura di questo giardino e tutte le cose qui sono fiorenti: fico, vite, ulivo e pera”.
"Chi sei tu che mi parli così?" disse il vecchio Laerte, sollevando la testa.
"Sono un estraneo a Itaca," disse Ulisse.
 
Nuovamente la domanda chi sei, e Ulisse dapprima risponde che era solo un estraneo, un signor Nessuno, poi mostrò la cicatrice dovuta al cinghiale sulla gamba, ed infine andarono nel giardino e mostrò “tredici alberi di pere e dieci alberi di mele, e quaranta fichi, e cinquanta i filari di vite ciascuno maturava a sé”, piantati per lui da suo padre quando lui era un bambino. Laerte riconobbe il figlio e lo abbracciò.
           
  • Tredici alberi di pere. La forma di pera è indicativo della forma femminile. Come tale ha una grande influenza come simbolo della sessualità femminile e la fertilità. Tredici è il quinto numero primo o incorruttibile, è il numero dell’uomo spirituale.
  • Dieci alberi di mele. La mela è il frutto della conoscenza: è il frutto che diede inizio alla guerra narrata nell’Iliade. È il frutto dell’Albero della Vita che aprì gli occhi ad Adamo ed Eva e discriminarono il bene dal male. Dieci è il compimento il quattro che diventa dieci, il tutto.
  • Quaranta alberi di fico. Nell’antica Grecia, era l’albero sacro ad Athena, dea della saggezza e a Dioniso dio del mistero. Platone ritiene questo albero amico dei filosofi. Quaranta è il numero della traversata il periodo della prova. Ulisse si salvò dall’immane gorgo di Cariddi aggrappandosi a un fico.
  • Cinquanta filari di vite. La vite e l’uva sono sacri a Dioniso. Il periodo fra due celebrazioni o giochi a Olimpia era di 50 mesi, in accordo con l’antica legge del rinnovamento scandito dal cinquantesimo mese, in ricordo del rinnovamento generale scandito dal cinquantesimo Anno Divino.       
 
La somma degli alberi e dei filari del giardino è 13+10+40+50=113, che è il 30° numero primo, e poiché 30 è la pienezza del Pleroma, quale arcano segreto nasconde?, nel suo Libro “L’Origine delle Misure”, Ralston Skinner scrive:
 
La  primissima Parola posseduta dagli Ebrei, chiunque essi fossero, per rendere l’idea di un uomo. L’essenza di questa parola era 113 (o il suo valore numerico). [1]
 
In ebraico, una delle forme di parola per l’uomo è ATSH il cui valore numerico delle lettere (300 +l0+l) vale 311; leggendo in modo inverso da destra a sinistra si ottiene 113. Riducendo il numero 113 si ottiene 1+1+3=5, il numero dell’uomo, la stella a cinque punte.
 
Ralston Skinner spiega che la parola ebraica per l’anno lunare o SHANAH ha valore numerico (50+5+300) o 355. Rapportando i due numeri:  355/133= π/1, il rapporto tra cerchio della manifestazione e diametro, il Figlio (il Diametro) che si manifesta nello spazio (Cerchio).

[1] Scritto inviato a H.P. Blavatsky e citato in Cosmogenesi, pag. 134.
 
 
L’OSCURA PROFEZIA DI TIRESIA
 
Odisseo nell’Ade parlò con l’indovino Tiresia[1] che, bevuto il sangue, gli dice che, ritornerà a Itaca, terra dei suoi padri, ma solamente dopo molte difficoltà dovute all’ira di Poseidone, perché aveva accecato suo figlio Polifemo.
 
E quando i pretendenti nel tuo palazzo avrai spento,
con l’inganno, o apertamente col bronzo affilato,
allora parti, prendendo il maneggevole remo,
finché a genti tu arrivi che non conoscono il mare,
non mangiano cibi conditi con sale,
non sanno le navi dalle guance di minio,
né i maneggevoli remi che son ali alle navi.
E il segno ti dirò, chiarissimo: non può sfuggirti.
Quando, incontrandoti, un altro viatore ti dica
che il ventilabro tu reggi sulla nobile spalla,
allora, in terra piantato il maneggevole remo,
offerti bei sacrifici a Poseidone sovrano
– ariete, toro e verro marito di scrofe –
torna a casa e celebra sacre ecatombi
ai numi immortali che il cielo vasto possiedono,
a tutti per ordine. Morte dal mare
ti verrà, molto dolce, a ucciderti vinto
da una serena vecchiezza. Intorno a te popoli
beati saranno. Questo con verità ti predico.
(Odissea XI 119-137)
 
Significativamente la profezia viene pronunciata da uno spettro a un vivo, ma non solo: sarà Odisseo a raccontarla in prima persona sia alla corte dei Feaci (Od. XI 90-137), e quindi a uomini abitanti in un mondo ideale.
 
Dopo aver ucciso i Proci ripartirà per il suo ultimo viaggio, andrà in molte città, portando sulla spalla un remo. Odisseo “volgendo le spalle al mare” si dirigerà verso una valle dell’entroterra, fino ad arrivare in un luogo dove le “genti” non conoscono il mare, né le navi con i fianchi purpurei, né i remi e non si nutrono di cibi conditi con il sale.
 
Tiresia gli predice che il “segno” dell’arrivo in quel luogo, sarà quando troverà un viandante che scambierà il remo con un ventilabro. Il viandante, infatti, chiederà a Ulisse se è un “ventilabro” quello che porta sull’omero. Dopodiché dovrà subito piantarlo in terra e offrire in sacrificio a Poseidone un toro, un ariete ed un verro aggressivo. Solo allora, dopo aver piantato in terra il remo e sacrificato a Poseidone, Odisseo potrebbe finalmente tornare a Itaca e restarvi sino alla morte, che lo coglierebbe consunto da splendente vecchiezza e circondato da popoli ricchi.
 
Prima di compiere lo Yoga della rinuncia e della liberazione, quando secondo la profezia di Tiresia, abbandonando l’ultima isola, Itaca, giungerà in un luogo di pace[2] dove dovrà piantare il remo nella terra, terminando così di viaggiare nel mare dell’emotività.
 
La profezia fa espressamente riferimento al mare, sale, al remo e al ventilabro, solo attraverso la conoscenza del loro significato simbolico si potrà sperare di poter svelare l’oscuro significato della profezia.
 
In Omero non c’è mai, né nell’Iliade né nell’Odissea, un apprezzamento estetico per il mare in quanto tale. Sono sentimenti iracondi, come la rabbia e il desiderio di vendetta, a spingere in mare alla volta di Troia i principi achei, ed è piuttosto il desiderio delle rive che spinge Odisseo a viaggiare.
 
Tiresia  profetizza che questi abitanti non sanno le navi dalle guance di minio (rosse). Le guance delle navi sono la prua. Per i Greci, epístema l’ornamento della prua della nave che fende le onde del mare, è il simbolo dell’imporsi della nave sulla fluidità minacciosa del mare.
 
Per Platone, le distese delle acque, il mare e flutti rappresentano la materia. L’anima umana, dopo essere caduta nella materia (simboleggiata dall’acqua, dal mare, dal remo, dal sale) desidera tornare alla sua vera patria, all’Assoluto e per fare questo attraversa molte peripezie passando attraverso tutti gli stadi della rigenerazione, profetizza Tiresia fino a ritornare tra coloro che sono “estranei ad ogni flutto ed inesperti del mare”, e “fino a quando tu giunga da uomini che ignorano il mare né mangiano cibo mescolato al sale del mare”. Odisseo si libererà dalle sofferenze, ma solo quando sarà del tutto uscito dal mare e tra anime che ignorano a tal punto le opere del mare e della materia da ritenere, per la loro assoluta inesperienza degli strumenti e dell’attività del mare, che il remo sia un vaglio.
 
Il sale
Per i greci hals il sale, è il mare inteso come materia. I marinai perché bagnati dalle onde del mare sono ricoperti di un sottilissimo strato di sale. L’Odissea è un viaggio di ritorno per mare, all’inizio con 12 navi, alla fine condotto ad Itaca su una nave che viaggia non più sul mare caotico ma sulle ali del pensiero.
 
I sacerdoti egizi si astenevano dal consumare il sale perché al tempo si riteneva suscitasse desiderio sessuale. Gli egizi utilizzavano il sale per mummificare i cadaveri; questo potere di salvaguardare i corpi dalla decomposizione e mantenere la vita, ha conferito al sale un alto valore.
 
Il remo
Il remo, strumento di navigazione indispensabile sul mare. Per Platone l’acqua del mare, l’onda, sono la sostanza materiale. Sul mare, di isola in isola, di terra in terra, avveniva il viaggio di ritorno di Odisseo. Poseidone il signore delle acque è anche il signore del mare delle emozioni e dei desideri tipici degli uomini.
 
Il ventilabro
Il Ventilabro, è il Vaglio, l’antico ventaglio dei misteri di Bacco strumento di separazione e di discriminazione. Osiride il giudice dei Defunti, col ventaglio in mano libera l’Amenti (l’Ade) dai cuori peccaminosi, così come usa il vaglio ventila sul pavimento i chicchi di grano e chiude il buon frumento nel granaio e brucia la pula. Matteo, fa descrivere Gesù da Giovanni Battista, come Osiride:
 
Egli ha il suo ventilabro (vaglio) in mano e netterà l’aia sua e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma arderà la pula (la scoria) con il fuoco inestinguibile.[3]


 

[1] Tiresia, l’indovino rimasto cieco perché “vide”, a sette anni, Atena mentre si lavava. Il verbo “vedere” ha un significato assai più che concreto: è svelare la divinità, varcare il confine tra umano e divino.
[2] Nell’Islam, la pace “es-salâm”, può essere ottenuta solo con la sottomissione alla volontà interiore, divina “el-islâm”, mettendo ordine nel proprio essere, non sottomettendosi alla volontà di un predicatore o di una setta religiosa.
[3] Matteo III, 12.
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