Il mistero della flotta atlantica templare - Sapienza Misterica

SAPIENZA MISTERICA
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Il mistero della flotta atlantica templare

I Cavalieri del Tempio

LA MARINA TEMPLARE
 
I Templari possedevano la flotta, mercantile e da guerra più potente di tutto l’occidente, perché loro stessi erano provetti navigatori e valorosi marinai. Nonostante le scarne informazioni, per lo più tramandateci dai ben pochi documenti storici rimastici e dalle narrazioni del periodo, sappiamo che l’Ordine del Tempio fu, nel momento di massimo splendore, la forza più potente che tutto il mondo allora conosciuto avesse mai visto: la flotta templare era costituita da navi ben equipaggiate e dotate di strumenti difensivi e offensivi notevoli. Come sono fatte le navi del Tempio? Si tratta di imbarcazioni rotonde a vela (dunque possono definirsi come bastimenti, diffusi durante il periodo delle Crociate per le loro caratteristiche di leggerezza e velocità) con un equipaggio di una quarantina di uomini. Sono adatte a ogni tipo di trasporto: pellegrini, armati, mercanzie, cavalli. Migliaia di pellegrini, i crociati, lo stesso re francese San Luigi, utilizzarono le navi templari per i loro spostamenti. I Templari disponevano anche di galere.

 
Il collegamento tra Oriente e Occidente era essenzialmente marittimo. Per i Templari, il termine “oltremare” significava l’Europa mentre “di là dal mare” e più specificamente il Mar Mediterraneo, rappresentava l’Oriente. Per il trasporto merci, armi, pellegrini e cavalli, l’Ordine dei Templari aveva costruito le proprie navi. I posti di comando situati nei porti svolsero un ruolo importante negli affari dei Templari. La sede principale della flotta templare era a San Giovanni d’Acri. La “volta” di San Giovanni d’Acri era il nome di uno degli insediamenti di proprietà dei Templari che comprendeva un castello e gli edifici conventuali e si trovava vicino al porto tra via dei Pisani e via di Sant’Anna. La Regola dell’Ordine ci dice che “tutte le navi d'alto mare della casa di Acri sono al comando del Comandante della Terra. E il Comandante di Acri, e tutti i fratelli che sono sotto i suoi ordini e il suo comando e tutte le cose che fanno le navi devono essere riferite al comandante della Terra”.
 
I vascelli templari si potevano rintracciare nei principali porti del Mediterraneo e dell’Atlantico. In Italia a Pisa, Genova, Venezia, Messina, Brindisi. Buona parte delle navi dell’ordine in servizio sulle rotte dell’Adriatico meridionale svernava nel porto di Brindisi, dove venivano calafatate e rimesse in sesto per riprendere il mare con i convogli di primavera. Nel nord Adriatico la Rotta templare sfruttava i porti della Repubblica di Venezia. A Civitavecchia (per citare una località di sicura storia templare anche se spesso misconosciuta) i Templari gestiscono un porto con quattro moli.
 
Nel porto de La Rochelle, si conosce il nome di tre imbarcazioni: la Templere, il Buscart du Temple, il Buszarde du Temple. Nel Mediterraneo, all’ancora nel porto di Marsiglia, sono note imbarcazioni del Tempio: la Bonne Aventure e la Rose du Temple. Nell’Italia del Sud sono note, la Santa Maria, l’Angelica e il Falcone.
 
L’Ordine possedeva dei porti importanti sia nella Francia settentrionale, sia nella Francia meridionale come a Nizza, Saint Raphael sulla costa provenzale, come il porto di Boulogne, di Marsiglia o come quello di Séte che serviva a mantenere i contatti con l’Inghilterra. Possedeva una flotta con base a Maiorca, e un’altra in Portogallo. Sulla costa atlantica i Templari possiedono porti in Inghilterra, in Portogallo, in Spagna, e nella Francia settentrionale atlantica, l’importante porto de La Rochelle.
 
La permanenza degli stati europei in Terrasanta non significa solo costosa missione militare, ma assume anche sviluppi politici ed economici. Le Repubbliche Marinare italiane hanno creato solide basi per il commercio e il trasporto di pellegrini con l’Oriente. Le Repubbliche Marinare italiane hanno creato solide basi per il commercio e il trasporto di pellegrini con l'Oriente; in tutte le principali città orientali sono presenti importanti residenze diplomatiche e magazzini per le merci. Nel 1204, con l’aiuto dei crociati, Venezia conquista Costantinopoli e la supremazia nel Mediterraneo Orientale a danno di Genova e Pisa: è l’inizio di conflitti tra le repubbliche marinare.
 
 
I Templari s’inserirono nei trasporti marini garantendo una maggior sicurezza nel servizio di trasporto, essendo militarmente scortati per tutta la durata del viaggio che rassicurava i passeggeri, un fattore essenziale in un’epoca in cui i poveri pellegrini che partivano per la Terrasanta erano talvolta venduti dal capitano della nave come schiavi al miglior offerente. I Templari realizzarono importanti postazioni per il commercio di stoffe, porcellana, vino, vetro e spezie con le regioni mediterranee e il trasporto di pellegrini In Terrasanta i Templari portavano pellegrini armi e uomini e compravano prodotti orientali. I loro clienti sedevano nelle Isole Britanniche e nelle città tedesche della lega anseatica o dell’Hansa. E qui entra il gioco soprattutto il porto francese di La Rochelle. Dalla città di La Rochelle situata sull’Oceano Atlantico, dove c’era un’importante commenda dell’Ordine del Tempio, si dipartivano ben sette rotte principali che attraversavano la Francia e permettevano una veloce distribuzione delle merci in tutto il Paese. Questa precettoria era stata creata in seguito a una donazione fatta nel 1139 da Eleonora d’Aquitania, all’epoca mogli do Luigi VII di Francia. I Templari possedevano una flotta che nel periodo di massima potenza, annoverava oltre 250 vascelli e poteva raffrontarsi con quelle, messe assieme, delle quattro Repubbliche marinare italiane.
 
Immense ricchezze erano depositate presso il Tempio di Parigi, come in molte altre commanderie sparse per tutta l’Europa. I traffici commerciali e marittimi erano sinonimo di sicurezza se ci si affidava alle navi templari. I primi sistemi bancari a lettere di credito erano frutto dell’ingegno economico dell’Ordine e lo stesso possedeva beni immobili in tutta l’Europa.
LA SCOMPARSA DELLA FLOTTA TEMPLARE

Il 13 ottobre 1307 il re di Francia Filippo il Bello, in perfetto accordo con il Papa Clemente V, con una spettacolare azione poliziesca, fece arrestare tutti i Templari [1]. Da qualche tempo il suo occhio ingordo aveva preso di mira le ricchezze dell’Ordine. Il rifiuto di una somma di denaro in prestito acuì la sua acredine nei confronti dei cosiddetti banchieri d’Europa. Troppo potenti, questi Cavalieri dai bianchi mantelli, troppo influenti per un re ambizioso, e poi c’era il sospetto di eresia. Infine, il pericolo più grande, la realizzazione da parte dell’Ordine del Tempio di uno Stato Europeo che spazzasse via re, papi e principi.
 
Filippo IV detto il Bello che bramò di mettere finalmente le mani sulle ricchezze cui Filippo avrebbe attinto per risanare le disastrose finanze del suo regno tesoro del Tempio e sulla sua flotta, si sbagliò. Quando le guardie del re entrarono nel Tempio di Parigi, la sorpresa fu seconda solo all’ira di trovare il quartier generale dell’ordine quasi totalmente vuoto, Anche l’archivio dell’Ordine era sparito. Nonostante le forze di polizia avessero cercato in tutte le sedi dei Templari, non trovarono nulla, né ori né documenti. L’immenso patrimonio culturale ed economico contenuto nella più importante commanderia dell’ordine era semplicemente sparito. L’altro mistero che accompagna la scomparsa del tesoro del Tempio è la scomparsa della sua potente flotta, che sparì nel nulla poco prima che fu decretato l’arresto dei Templari. Che fine fece dopo il venerdì nero 13 ottobre 1307, quella flotta navale Templare, che era stata uno dei motori trainanti non solo delle crociate, ma anche del commercio e della sicurezza nei mari da essa controllati?
 
Probabilmente il tesoro e i documenti segreti dormono ancora nascosti in qualche luogo segreto della Francia. Quando si parla del tesoro del Tempio, non si deve pensare ai depositi di oro e preziosi, ma anche a un patrimonio culturale e religioso di scritti antichi, documenti importanti, reliquie e altri oggetti simbolici che facevano parte della tradizione dell’Ordine. È evidente che, nonostante gli arresti siano avvenuti di sorpresa, molti furono ugualmente informati sulla catastrofe imminente ed ebbero tutto il tempo di pianificare il salvataggio dell’archivio e del tesoro e che alcuni dei maggiori fratelli abbiamo deciso di sacrificarsi. Non si tratta di una supposizione una prova che i Templari sapevano, è data dalla deposizione processuale del Templare Jean de Châlons della magione di Nemours:
 
“Fratello Jean de Châlons[2], templare stazionato nella magione di Nemours nella diocesi di Troyes, sergente (…) Egli asserisce che alcuni dignitari dell’Ordine, i quali sospettavano l’arresto, sono fuggiti e di essersi egli stesso opposto al fratello Gérard de Villiers con cinquanta cavalieri; e di aver udito che de Villiers è salpato in mare con diciotto navi; e che fratello Hugues de Châlons[3] è fuggito con tutto il tesoro di Hugues de Pairaud. (Archivio Vaticano)”.
 
Nel 1307, dopo l’arresto dei Templari francesi, il comandante di La Rochelle, l’ottantenne Guillaume de Liege, consegnò la sua commenda al re per sfuggire alla tortura, ma non le navi, quelle erano lontane dal porto. Per quanto tempestiva e segreta sia stata la manovra di Filippo, l’Ordine aveva i miglior informatori. Inoltre sappiamo dell’esistenza di ben due liste (una conservata alla Biblioteca Nazionale di Parigi e l’altra all’Archivio Vaticano) che testimoniano la fuga di diversi dignitari dell’Ordine prima degli arresti. I Templari sapevano, e fecero salpare le loro navi nel momento più propizio, senza dare nell’occhio.
 
Con grande rapidità le navi dell’Ordine ormeggiate al porto di La Rochelle sulla costa atlantica francese scomparvero dalla sera alla mattina senza lasciare alcuna traccia? Il fatto è storico e non è cosa da sottovalutare. La partenza immediata di almeno diciotto navi cargo di grosse dimensioni in grado di prendere il mare contemporaneamente nell’arco di alcune ore rappresenta certamente un fatto: era prevista e organizzata, si attendeva solo l’ordine della partenza. La flotta templare che dalla sera alla mattina levò l’ancora dai porti dell’Atlantico e del Mediterraneo è uno dei tanti interrogativi che riguardano la storia dell’Ordine del Tempio. La loro flotta che, pur non potendo attraccare nei porti delle nazioni fedeli al Papato, poteva ugualmente contare su porti amici in Sicilia, Portogallo, e Norvegia. Dopo il venerdì nero la Flotta Templare aveva avuto diversi destini ed era stata suddivisa in più parti:
 
  • Quella meridionale di stanza nel Mare Mediterraneo che si trasformerà poi in navi battenti la bandiera del Templare Ruggero il Normanno, Re di Sicilia;
  • Quella ancorata in Portogallo, agli ordini dei Cavalieri di Cristo, che si sarebbe trasformata nella gloriosa flotta di re Enrico il Navigatore. In Portogallo, i Templari che non entrarono in clandestinità dopo il processo e la loro messa al bando, cambiarono il loro nome in Cavalieri di Cristo. Nel 1492, è probabile che appartenenti a questo gruppo abbiano fornito uomini e mappe[4] per la spedizione di Cristoforo Colombo, e la croce rossa dell’antico ordine sarebbe comparsa sulle vele bianche quadrate delle sue navi.  
 
Le conseguenze più importanti scaturite dopo il 13 ottobre 1307 sarebbero state quindi:
 
  • La costituzione della flotta di esplorazione del Portogallo agli ordini dei Cavalieri di Cristo, Ordine in cui si erano trasformati i Templari;
  • La comparsa di carte e mappe navali di una precisione mai vista (Portolani): i Templari erano in possesso di antiche mappe marinare che avrebbero utilizzato per la traversata dell’Atlantico.
 
Parte della flotta templare che stazionava nel Mediterraneo per fuggire dovette necessariamente transitare attraverso lo Stretto di Gibilterra con intuibili difficoltà per poi fare tappa in Portogallo, paese fedele all’Ordine. In Portogallo i Templari non furono perseguitati e per evitare persecuzioni avevano cambiato nome, trasformandosi nell’Ordine dei Cavalieri di Cristo e il Re Alfonso IV fu eletto Gran Maestro dell’Ordine. Fu una solo una coincidenza che non appena il Re Alfonso IV dette ospitalità ai Templari fuggitivi il Portogallo avesse contestualmente dato il via ai viaggi sue navi nell’Atlantico? Una solida tradizione continuata da suo nipote Enrico il Navigatore Gran Maestro dell’Ordine che, sotto l’insegna della Croce Templare, esplorò gran parte della Costa Africana.

[1] Filippo e il Papa morirono un anno dopo la morte sul rogo del Gran Maestro Templare.
[2] Ci si riferisce a Châlons- en- Champagne.
[3] Qui ci si riferisce a Châlons- sur- Saone.
[4] Documentazione conservata secondo il prof. Umberto Bartocci, già docente di Storia della Scienza presso l’Università di Perugia, presso il Centro di Sagres, tenuto dagli appartenenti all’Ordo do Cristo, i successori dell’Ordo do Templo templare in Portogallo.
LA ROTTA ATLANTICA
 
Se si considera la funzione delle commende d’Occidente nell’economia del mondo templare paiono più funzionali i porti del Mar Mediterraneo e in particolare quelli italiani, in Francia Marsiglia e in Portogallo Collioure[1]. Eppure i Templari investono fortemente sul porto atlantico di La Rochelle che divenne il principale punto di raccordo della flotta templare, tanto che fruiscono di un passaggio privato che congiunge direttamente, il recinto del Tempio con le acque del porto. Perché la flotta Templare era dislocata nel porto francese di La Rochelle, situato nell’Oceano Atlantico? Strano, giacché La Rochelle si trova a Ovest della Francia, sull’oceano, una posizione anomala per raggiungere il Mediterraneo. A cosa serviva ai Templari un porto sull’oceano? Da qui l’ipotesi che le flotte Templari avessero anche altre destinazioni.

Quando fu fondato in Francia, l’Ordine del Tempio numerosi discendenti scandinavi della fratellanza dei guerrieri Vichinghi dei Jomvikings[2]divennero Templari e molti di loro erano depositari di antiche conoscenze. Gli Jomvikings come i Templari facevano voto di celibato, avevano un sigillo fatto di due lance incrociate a forma di “X”, il loro mantello era bianco, la loro croce, dai rami uguali, rossa, e il loro cavallo nero. La colonizzazione ‘settentrionale, comprese le coste nord-orientali dell’America del Nord. Poiché i Vichinghi, durante i loro viaggi, avevano raggiunto l’America e i Cavalieri del Tempio erano informati dell’esistenza di terre di là dall’oceano.
Figura 1. N. Roerich Visitatori dal mare (Vichinghi)
 
Adamo di Brema, teologo e storico tedesco vissuto nell’XI secolo nel quarto libro - Descriptio insularum Aquilonis delle sue Gesta ci parla del Vinland, la porzione di America settentrionale scoperta dai vichinghi islandesi, descrivendola come una grande isola ricca di viti. Stando alla saga groenlandese del 1200, Leif Eriksson figlio di Erik il rosso intorno all’anno 1000 spiegò le vele e raggiunse le coste americane settentrionali con i suoi uomini, ma in realtà aveva avuto un predecessore. La scoperta dell’America spettava a un altro valoroso vichingo, cioè Bjorn Herjulfsson. Secondo la saga groenlandese, il giovane dopo aver scoperto che suo padre non stava più in Islanda, ma era emigrato in Groenlandia con Erik il Rosso, decise di raggiungerlo, sebbene non avesse mai navigato nel mare di Groenlandia. Infatti, venne mandato fuori rotta da improvvisi venti da nord e da svariati giorni di nebbia.
 
Alcuni ricercatori osservando che il porto di La Rochelle era un punto di partenza strategico per intraprendere navigazioni fuori dall’Europa suppongono che le navi templari potrebbero aver raggiunto il continente americano, quasi duecento anni prima di Colombo. Questo spiegherebbe la grande quantità di argento che sarebbe provenuto dalle miniere del Messico di cui l’Ordine sempre dispose. L’idea non è assurda, del resto, l’enorme quantità d’argento che all’improvviso circolò in Europa poteva solo provenire dall’America.
 
Louis Charpentier scrive: “Certamente mancano le prove, ma d’altra parte non vi sono mai prove quando si tratta del Tempio”. Essi sapevano mantenere i segreti, cancellavano accuratamente le tracce mani avide si sarebbero subito impossessate delle loro conoscenze e dei loro saperi. Non per nulla quando le guardie del re entrarono nel Tempio di Parigi, furono sorprese di trovarlo quasi totalmente vuoto.
 
Gli studi dell’archeologo Jacques de Mahieu[3] sul campo hanno portato alla luce delle formelle per la fusione dell’argento, in pieno suolo americano. È possibile che il famoso tesoro dei Templari venisse dalle miniere del continente americano. Jacques de Mahieu sostiene di aver trovato tracce di insediamenti dei Cavalieri del Tempio nel continente americano. Sussisterebbero somiglianza sbalorditive fra alcune statue inca e le statue dei Santi della cattedrale gotica di Amiens[4] .
 
Stando a Louis Charpentier la chiave di tutto è proprio l’argento, nel suo libro “I misteri dei Templari”, individua nel porto de La Rochelle un luogo importante nell’economia dell’Occidente templare ed evidenzia come almeno sei strade partano dal predetto porto per arrivare nelle principali località della Francia. In questa zona come nella Foresta d’Oriente, si nota una doppia cerchia di commende molto vicine tra loro, tutto ciò non è casuale. Il porto de La Rochelle aveva una grande importanza per la flotta templare. Non si può non condividere la valutazione di Charpentier quando afferma che La Rochelle era il centro principale per la gestione delle commende e delle balie templari del versante ovest francese. Charpentier risponde facendo appello a Jean de la Varende, che nel suo libro “Les Gentlshommes (I Gentiluomini)” racconta che i Templari andavano regolarmente in America, riportando argento dalle miniere che sfruttavano nel nuovo continente. L’argento era molto raro nel Medioevo e valeva più dell’oro. Le poche miniere erano in Germania e in Russia e non sfruttate, perché poco conosciute. Alla fine del Medioevo la moneta d’argento era la moneta corrente. Da dove proveniva tutto questo argento? L’argento proveniva dalle miniere del Messico.
Figura 2. Le vie templari da La Rochelle
 
Questo è il motivo per cui il popolino, parlando dei Templari, era solito dire ils avaient de l’argent, hanno dell’argento; espressione passata nella lingua popolare a significare ricchezza. Charpentier osserva in che altro modo sarebbero servite al Tempio le sette grandi strade che s’irradiavano su tutta la Francia da La Rochelle che a quei tempi non era neppure una città. Con quali ricchezze si poterono costruire tutte le bellissime cattedrali gotiche, se non si ammette il finanziamento templare? La Rochelle sarebbe dunque il porto da cui i Templari si imbarcano per sfruttare le proprie miniere dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. A conferma di tali osservazioni, Louis Charpentier enumera sei punti giustificativi:
     
  1. I Templari avevano una propria flotta e quindi marinai legati all’Ordine;
  2. Alcuni di questi marinai erano Normanni e dunque discendenti di quei Vichinghi che partendo dalla Groenlandia hanno presumibilmente raggiunto la Terra Nova, la Wineland, l’odierna America;
  3. Tra questi marinai c’erano dei Bretoni di cui sono attestate alcune testimonianze nella zona di Filadelfia;
  4. I Templari avevano visitato numerosi porti fenici, i quali, secondo alcune fonti, avrebbero intrapreso i medesimi itinerari marini;
  5. Al momento dello scioglimento dell’Ordine gli uomini del Tempio si trasferiranno in quegli ordini iberici che così rapidamente e fruttuosamente saranno in grado di realizzare la scoperta ufficiale del nuovo mondo. Non solo, nel timpano del nartece di Vézelayviene effigiato, tra i popoli della terra, un “indiano dalle lunghe orecchie”, non un Indiano delle Indie ma un Indiano d’America; al tempo della costruzione, 1150 circa, non si dovrebbero trovare testimonianze in tal senso.
Figura 3. Nartece di Vézelay indiano dalle lunghe orecchie
 
Quando Cristoforo Colombo arrivò in America con le tre caravelle le cui vele erano Templari (bianche con una croce scarlatta al centro) gli indigeni mostrarono di aver già visto quel simbolo e si mostrarono fin troppo amichevoli, in più quando Colombo tornò, disse che gli indigeni avevano le orecchie stranamente grandi.
 
La basilica di Santa Maddalena a Vézelay, in Borgogna è uno dei luoghi più sacri sulle rotte del pellegrinaggio francesi; per le persone in viaggio per Gerusalemme e per Santiago de Compostela era punto di sosta obbligato. Costruita in origine come luogo di culto per le reliquie di Maria Maddalena, nell’XI secolo, è anche il luogo in cui san Bernardo predica la Seconda Crociata nel 1146 e da dove re Riccardo Cuor di Leone e Filippo II partono per la Terza. Proprio qui, all’entrata, il pellegrino di nove secoli fa sollevava gli occhi verso il timpano, dove troneggia un grande Cristo dalle braccia spalancate nell’atto di inviare gli apostoli, raggruppati intorno a lui, a predicare il Vangelo nel mondo. Per farlo, si dovranno spingere ai quattro angoli della terra, fino ai confini del mondo, fino alle rive invalicabili dell’oceano, che qui è rappresentato sinteticamente nel bordo ondulato che li circonda. Dovranno affrontare paesi mai visti, popoli esotici, genti lontane dalle strane abitudini e dalle strane fattezze.
 
Stranamente è nel centro Italia, lontano dal porto de La Rochelle, che troviamo una conferma indiretta che i Templari, possano aver attraversato l’oceano per raggiungere il Nuovo Mondo. Due formelle del Duomo di San Cristoforo a Barga[5] in Toscana riportano la pianta di Mais sconosciuta in quell’epoca perché importata secoli dopo da Cristoforo Colombo dall’America. La pianta del mais la ritroviamo scolpita in altre chiese della Toscana, come nella Chiesa di S. Pietro a Grado (PI) e nelle Marche a Caramanico Terme (PE), e nel Lazio nella chiesa Santa Maria della Libera, vicino alla città di Aquino (FR).

Figura 4. S. Pietro a Grado - Duomo di Barga - Formella con pianta di mais
 
Sulla SP 66 a circa 6 km da Caramanico Terme, nella frazione di San Tommaso, si trova una chiesa edificata nel 1202 e intitolata in origine a San Thomas Becket, l’arcivescovo di Canterbury, assassinato nella sua cattedrale nel 1173. La chiesa fu fondata negli anni immediatamente successivi. A finanziarne la costruzione fu il feudatario normanno Riccardo Trogisio. Si possono ammirare formelle isolate con il fiore della Vita e il Green Man, e una pannocchia in un filare di mais[6]. Troviamo inciso il simbolo della triplice cinta utilizzato dai Templari e una formella con una croce templare. All’interno troviamo un affresco con San Cristoforo, un altro collegamento indiretto con Barga. La figura di San Cristoforo, simbolo cristiano di pellegrinaggio e di viaggio interiore verso la verità della parola di Cristo, è anche simbolo di elevata importanza per la dottrina misterica[7]. Il nome Cristoforo è visto, nella tradizione cristiana, col significato di “colui che porta il Cristo”. Portatore di Cristo o Cristoforo fu il nome di Colombo.
Figura 5. San tommaso a Caramaico- Formella con pannocchia di mais
 
Enrico Calzolari[8] studioso e ricercatore di simbologie templari in Toscana, e particolate in Lunigiana, ha documentato molte testimonianze di simbologie dell’America Meridionale. Lungo i percorsi medioevali ha trovato raffigurazioni della pianta di mais giovane e adulta, del cacao, dell’ananas[9].
 
Enrico Calzolari ha catalogato nella Lunigiana molte sculture di simboli Templari, comparandoli con quelli già noti in Italia ed Europa, notando particolari similitudini con simboli sud e meso-americani e indizi sull’antica navigazione astronomica. La Lunigiana nel Medioevo era ben dotata di passi e di porti e per questo vi circolavano informazioni che potevano essere fatte conoscere soltanto a pochi iniziati, invitandoli ad accedere ai segreti delle rotte atlantiche, che dopo tre secoli sarebbero divenute elementi della politica coloniale degli stati ed elementi d’interesse primario per la Chiesa.
 
Le simbologie che oggi, dopo settecento anni, sono divenute finalmente percepibili in tutta la loro valenza negli edifici storici di Lunigiana, hanno consentito di fornire una prova logica della conoscenza della Mesoamerica e dell’America del Sud, e quindi della rotta che avrebbe potuto essere indicata dai Templari come “Rotta dell’Argento” (e da ciò è nato il nome dell’Argentina), ma che doveva invece rimanere riservata, perché costitutiva il “Secretum Templi”; soltanto la conoscenza di ciò ha permesso di capire come siano potute sorgere le stupende cattedrali di Francia, pagate con il metallo che veniva sbarcato al porto della Rochelle. Cristoforo Colombo, dopo aver rubato il segreto del calcolo della Longitudine ai navigatori portoghesi dell’Ordo do Cristo – eredi dei Templari e delle loro conoscenze – poté concepire di “Buscar el Levante por el Poniente” e dalla sua impresa nacque il Mondo Moderno[10].
 
Nel marzo 2001 a Pieve di Codiponte (MS) Enrico Calzolari fotografò il portale murato nella cortina orientale dell’antichissima pieve medioevale, ricca di simbologie. Notò dei bassorilievi i cui soggetti indossano in un caso dei copricapo di piume e in un altro una pelliccia, dopo qualche anno e altri ritrovamenti scrisse il suo primo libro sui Templari in Lunigiana (nel 2006), insieme al Prof. Luigi Battistini, dove si ipotizzò che fossero rappresentazioni di amerindi[11].
Figura 6. Indios raffigurati a Pieve di Capodimonte (Massa)
 
La tesi che si trattasse di indios americani è stata data poi data per possibile, in un articolo della rivista Fenix nel Febbraio del 2010, dalla Prof. Maria Longhena, un autorevole scrittore ed accademico dell’Università di Bologna, esperta dei Maya e di altre civiltà sudamericane. E. Calzolari nel suo libro “Lunigiana e rotta atlantica dei Templari” ci informa che presso l’Archivio di Stato di Pisa, la pergamena del Fondo Roncioni del 28 gennaio 1255, documenta tutte le stazioni navali della Milizia del Tempio in Italia, tra cui la Stazione Navale di Pertusola di Lerici (all’interno del golfo della Spezia, uno dei migliori “porti naturali” del Tirreno), che portava l’antico appellativo di Fenoclaria, con cui era identificato il Maestro di tutte le stazioni navali, Frà Dalmazio da Fenoclaria. L’autore ha identificato a Volastra di Riomaggiore (Cinque Terre, La Spezia) un simbolo della marina da guerra Templare, teschio con tibie incrociate e indizi sull’antica navigazione astronomica, sulla quale ha scritto vari saggi e articoli.
Figura 7. Volastra – Cippo templare  con teschio e tibie incrociate
 
Il ritrovamento di Calzolari a Volastra[12] consiste in un cippo di pietra arenaria posto sul sagrato della chiesa un tempo dedicata a San Lorenzo, scolpito con un teschio con tibie incrociate, il simbolo della marina da guerra dei Templari. Sopra il teschio, è scolpita una pianta con 4 coppie di foglie e tre in cima, in totale 11 foglie, ai lati due uomini in preghiera. Il numero undici ridotto diviene due 1+1=2. Due uomini, due San Giovanni, due cavalieri Templari uniti su uno stesso cavallo celano il Mistero dei Templari. Il numero 11 anziché essere rappresentato nella forma 5+6, cioè microcosmo unito al macrocosmo, è qui rappresentato nella forma 8+3, il numero otto, il doppio quadrato, l’ottagono, tanto caro ai Templari e il numero 3 la cui rappresentazione templare è il giglio a tre petali o fiore di Lys, onnipresente nelle chiese e cattedrali templari.

Figura 8. Scultura Maya teschio e tibie incrociate
 
Il simbolo della marina da guerra templare del teschio con le tibie incrociate lo ritroviamo anche tra gli antichi Maya del Centro America.
 
La traccia vichinga pesa solo per le informazioni dell’esistenza di un continente di là dall’oceano, perché i Vichinghi raggiunsero il continente americano dal Mare del Nord, dall’Islanda e Groenlandia; ma se i Templari raggiunsero l’America per procurarsi l’argento, dovettero per prima cosa effettuare altre rotte diverse da quelle vichinghe. I Templari attinsero a informazioni e mappe, ben più antiche. Per seconda cosa i Templari per forza di cose presero contato con la popolazione indigena locale con la quale fecero degli scambi in cambio del loro argento.
 
La traccia templare in Portogallo pesa parecchio. Sappiamo che il nuovo Ordine di Cristo si stabilì nel 1356 nella fortezza di Tomar. La tradizione templare in Portogallo era grande. Non per nulla le tre caravelle di Cristoforo Colombo[13] che nel 1492 raggiunsero l’America portavano sulle bandiere le croci patenti dell’Ordine del Tempio. Sappiamo che il suocero di Colombo apparteneva anch’egli all’Ordine di Cristo e non è da escludersi che abbia consegnato al genero carte di navigazione particolarmente importanti. Il grande navigatore era solito apporre come firma una criptica sigla forse templare in un triangolo.
Figura 9. Firma di Cristoforo Colombo
 
 La firma inizia con una sigla, dove compare la lettera S scritta tra due punti “.S.” disposta ai vertici di un triangolo che contiene la lettera “A”. Che potrebbe essere interpretata: Santo, Santo, Altissimo, Santo. Seguono altre tre lettere X, M e Y che per alcuni starebbero per Cristo, Maria e Gesù-Yussuf, parole di riconoscimento segrete dei terziari francescani. La sigla è composta di sette lettere. Segue la firma vera e propria, Xpo Ferens, che potrebbe significare: Christoferens, portatore di Cristo, cioè Cristoforo. La firma potrebbe indicare che egli era Cavaliere dell’Ordine di Cristo, che aveva la fortezza a Tomar in Portogallo. Il sigillo dei Cavalieri dell’Ordine di Cristo con xp e la firma di colui è noto con il nome di Colombo.  

 

[1] In Catalogna a Collioure, i Templari dovevano possedere delle navi perché re Pietro III nel 1285 le requisisce per combattere il re di Francia.
[2] Detti anche “pelli d’orso”. La leggenda dei vichinghi Jom appare in alcune delle saghe islandesi del XII e XIII secolo.
[3] Esistono alcune prove archeologiche, portate da Jacques de Mahieu, che testimonierebbero la presenza dei Templari addirittura del Sud America.
[4] La statua inca a Tiahuanaco nota come El Fraile, il monaco,  è secondo l’autore simile con quella si uno dei dodici apostoli di Amiens. In entrambi i casi la statua regge un libro nella mano sinistra e porta un rametto sulla manica destra, di forma cilindrica. Confrontando le due statue ho notato che esiste solo la similitudine del libro e del rametto, ma non della forma e delle proporzioni.
[5] Vincenzo Pisciuneri “Simbolismo templare a Barga e Lucca”.
[6] https://montezaga.wordpress.com/tag/caramanico/
[7] A San Cristoforo è dedicata la Cappella Templare di Montsaunès nei Pireni.
[8] Il suo primo libro sui Templari in Lunigiana risale al 2006, scritto insieme al Prof. Luigi Battistini.
[9] E. Calzolari ha catalogato nella Lunigiana molti esempi di simboli Templari, comparandoli con quelli già noti in Italia ed Europa, notando similitudini con simboli sud e meso-americani.
[10] E. Calzolari: “Lunigiana e rotta atlantica dei Templari”  Edizioni5terre.
[11] Pieve di Codiponte (Massa) – il portale oggetto di damnatio memoriae, ora murato nella cortina orientale della pieve che contiene i bassorilievi che indicherebbero la conoscenza dei Templari, della rotta atlantica verso l’America.
[12] http://www.enricocalzolari.it/templariluni.html
[13] Una delle cose più controverse è proprio la sua città di nascita. La tesi dominante e la più accettata, lo vuole genovese, anche se non si è sicuri se nacque a Genova o in Liguria o in uno dei possedimenti della Repubblica dell’epoca.
LE ANTICHE CARTE GEOGRAFICHE
 
Perché i Re di Catiglia e di Aragona avrebbero dovuto impegnare mezzi, soldi e uomini in un’impresa, quella di Cristoforo Colombo, senza uno straccio di prova per la sua riuscita? Dopotutto, i Re di Spagna sicuramente erano attratti più dall’aspetto economico dell’impresa rispetto a quello della scoperta di nuove terre. Colombo era sicuro di trovare qualcosa oltre le Colonne d’Ercole: da qui la sicurezza di Colombo di trovare oro e l’oculata scelta di portare perline e specchi da donare agli indigeni. Che Cristoforo Colombo disponesse delle carte nautiche è implicitamente confermato da una lettera del famoso cartografo Toscanelli che lo invitava a rifornirsi nelle “Antilie”, dando così per certa la loro esistenza. Fu proprio grazie a queste carte che Cristoforo Colombo individuò la meta del suo viaggio, secondo quanto scrisse il figlio Ferdinando nella “Vita dell’ammiraglio Cristoforo Colombo”. Fra le carte in suo possesso o almeno fedelmente copiate vi era la mappa nota come “Carta Benincasa” del 1.482, che mostrava oltre l’Arcipelago delle Isole Felici, due grandi isole, denominate Antilla e Selvaggia. Aristotele cita l’isola di Antilia come approdo cartaginese (nome molto simile alle odierne Antille) e narra che il segreto era talmente ben conservato da condannare a morte chiunque ne parlasse.
 
Gli studiosi, stranamente dimenticano che sia la Carta Benincasa che quella di Toscanelli, mostravano le due grandi isole prima ancora della loro effettiva scoperta. Le due grandi isole facenti parte delle Grandi Antille, si possono identificare con l’odierna Cuba e Haiti (Hispaniola).
 
Persino Magellano pare che avesse carte nautiche che mostravano il passaggio che gli permise di raggiungere il Pacifico (e che prese proprio il nome di Stretto di Magellano), carte che custodiva gelosamente. Magellano non partì senza alcuna documentazione alla ricerca del passaggio fra l’America del Sud e il continente australe (allora ancora sconosciuto), era tanto sicuro che tale passaggio “esisteva”, che lo cercò in ogni insenatura.
 
Nel 1.520 l’ammiraglio ottomano Piri Reis[1] compilava l’atlante “Kitabi Bahriye” destinato ai navigatori. Nei suoi scritti l’ammiraglio Piri rivela l’origine delle sue carte: nel 1.501 durante una battaglia navale contro gli spagnoli, un ufficiale turco di nome Kemal catturò un prigioniero che aveva partecipato ai viaggi di Cristoforo Colombo che disse di aver preso parte ai tre storici viaggi di Cristoforo Colombo, e che possedeva una serie di carte nautiche davvero eccezionali. Il marinaio confessò che Colombo scoprì l’America usando quelle carte geografiche. Tra i documenti sequestrati dall’ufficiale Kemal al prigioniero spagnolo, c’erano anche delle carte disegnate da Colombo in persona nel 1498, ossia sei anni dopo la scoperta delle Antille. Il bottino rappresentato dalle misteriose carte disegnate da Colombo finì nelle mani di Piri Reis il quale, sulla base delle voci che correvano a quei tempi, racconta nei suoi scritti che “Cristoforo Colombo, nel corso delle sue ricerche, trovò un libro risalente all’epoca di Alessandro Magno e ne rimase così impressionato che, dopo averlo letto, partì alla scoperta delle Antille con le navi ottenute dal governo spagnolo”.
 
Fra quelle carte[2] in possesso di Piri, una dipinta su pelle di gazzella, riporta una parte dell’Europa e dell’Africa e in maniera completa i continenti dell’America del Nord e del Sud, la Groenlandia e l’Antartico (scoperto nel 1.918), del tutto sconosciuti ai tempi di Cristoforo Colombo.Il vero enigma della carta non è tanto quello dell’Antartico scoperto all’inizio di questo secolo, ma delle rappresentazioni della linea costiera della terra della Regina Maud sgombra da ghiacci.
 
Figura 1. Particolare della carta dell’ammiraglio Piri Reis
 
Piri Reis ci informa con annotazioni di suo pugno che non fu lui ad effettuare i rilevamenti e i disegni cartografici originali, al contrario ammette che la mappa fu ricavata da un vasto numero di carte sorgente.
 
Nel 1.963 il professor Hapgood[3] nel suo libro ” Antiche Mappe dei Re del Mare” (Turnstone libri, Londra 1979, prefazione), propose una soluzione al problema della carta di Reis: le carte sorgente a cui si era riferito l’ammiraglio risalivano al quarto secolo a.C., che a loro volta si rifacevano a documenti più antichi risalenti al 4.000 a.C. “Sembra che una corretta informazione sia stata trasmessa da persona a persona. Sembra che le tabelle possano avere avuto origine da un popolo sconosciuto e poi siano state diffuse forse dai Fenici, che sono stati, per un migliaio di anni e oltre, i più grandi navigatori del mondo antico. Abbiamo la prova che i dati sono stati raccolti e studiati nella grande biblioteca di Alessandria (Egitto) e la elaborazione di questi è stata effettuata da geografi che hanno lavorato lì.”
 
Il professor Hapgood nel suo libro “Maps of the Ancient Sea King” ritiene che queste antiche mappe e pergamene ricopiate e tramandate da millenni risalgano a una razza di navigatori le cui rotte toccavano ogni parte del mondo. Le copie sarebbero state raccolte nelle grandi biblioteche dell’antichità, di Alessandria d’Egitto e di Pergamo in Asia Minore. Si deve ricordare che la città di Pergamo diede nome alla pergamena di pelle d’agnello, che sostituì il papiro. Il popolo di navigatori sicuramente è quello dei misteriosi Fenici.
 
Secondo Hapgood da Alessandria copie di queste antiche carte furono trasferite ad altri centri di sapere, quali Costantinopoli. Durante la Quarta  Crociata, Costantinopoli fu conquistata dai veneziani, e da allora le mappe passarono di mano in mano. Secondo la ricostruzione di Hapgood, Piri Reis probabilmente entrò in possesso delle carte antiche a Costantinopoli dove copie di questi documenti e di alcuni disegni  originali furono probabilmente trasferiti dalla Biblioteca di Alessandria, la più importante biblioteca di tempi antichi, dopo quella di Cartagine, entrambe incendiate dai Romani. Poi, nel 1204, anno della quarta crociata, quando i veneziani entrarono a Costantinopoli, quelle mappe hanno cominciato a circolare tra i marinai.
 
Queste ipotesi provocarono freddezza di rapporti e sarcasmo da parte dei custodi del sapere. Nelle mappe di Piri Reis vi sono alcuni errori minori “sospetti”. Si ripete due volte il corso del Rio delle Amazzoni e viene ignorata l’esistenza del Rio Orinoco. Il primo errore viene attribuito ad Hapgood al fatto che l’ammiraglio ha copiato il fiume dell’Amazzonia due volte da due carte distinte. In uno dei due sbocchi al mare si riconosce il delta del fiume con l’isola di Marajo al suo interno; l’altro sbocco è privo di delta e di isola per cui doveva trattarsi di una carta di 13.000 anni fa, quando l’isola di Marajo era unita al continente e il Rio Orinoco non si era ancora formato.
 
La tradizione scientifica vuole che la cappa di ghiaccio dell’Antartico, nella sua attuale estensione e forma, abbia milioni di anni. Ad un esame più attento, questa opinione rivela un grave vizio, talmente grave che non siamo tenuti a supporre che la carta geografica disegnata dall’ammiraglio Piri Reis riproduca la Terra della regina di Maud come appariva milioni di anni fa. La migliore documentazione recente indica che la Terra della Regina di Maud e le regioni vicine mostrate sulla carta attraversarono un lungo periodo senza ghiacci che forse si concluse definitivamente solo seimila anni fa.[4]L’americano Arlington H. Mallery, un’autorità nel campo della cartografia, ha chiesto all’Ufficio Idrografico degli Stati Uniti di esaminare la “Carta di Piri Reis”. Ed ecco che cosa ha dichiarato in proposito il comandante Larsen: “L’Ufficio Idrografico della Marina ha esaminato un antico documento detto ‘carta di Piri Reis’, compilato più di cinquemila anni fa. Esso è talmente preciso, che solo un sorvolo mondiale potrebbe giustificarlo.” La longitudine segnata sulla “carta di Piri Reis” è esatta, il che è molto strano, visto che si è appreso a calcolarla solamente duecento anni fa.[5]
 
Charles Hapgood nella sua ricerca di portolani antichi, oltre alla carta di Pirì Reìs, si imbatté in una raffigurazione del 1531, opera di Oronzio Fineo chiamata, appunto, “Mappamondo di Oronzio Fineo”. Tale mappa è il risultato di copiature di numerose carte sorgenti e rappresenta la parte costiera del continente antartico priva di ghiacci. In essa il continente antartico è fedelmente riprodotto e posizionato, geograficamente, perfettamente.
Figura 2. Mappa di Oronzio Fineo
 
Oltre alle mappe dell’ammiraglio Piri, e di Fineo, altri cartografi, Mercator[6] nel 1.569 e Bauche nel 1.737 disegnarono mappe che includevano l’Antartide, quando questa non era stata ancora scoperta. Significativamente Mercator inserì il mappamondo di Oronzio Fineo nel suo atlante del 1.576 e raffigurò l’Antartico in diverse altre carte. Bauche geografo francese del diciottesimo secolo disegna copiando da un’antica mappa greca, nel 1.737 una carta del continente australe prima che fosse ufficialmente scoperto.
Figura 3. Mappa di Bauche
 
Bauche disegnò il continente australe con una precisione così come doveva apparire prima di essere ricoperto dai ghiacci. Nella carta appare un canale di navigazione completamente sgombro che attraversava l’Antartide, ma solo milioni di anni fa esistevano canali navigabili, dove ora vi sono solo ghiacci. Le terre che ora si trovano all’interno del Circolo Polare Antartico, due o tre milioni di anni fa erano temperate o tropicali, tanto che sono state trovate delle foglie di palma fossilizzate.
 
Charles Hapgood ipotizzò che le antiche carte geografiche salvatesi dall’incendio della Biblioteca di Alessandria passarono a Costantinopoli e poi agli Ottomani turchi nel 1453.
 
L’immagine più estesa della navigazione degli antichi Egiziani è stata sempre associata ai loro viaggi sul Nilo; esiste tuttavia una grande quantità di indizi indicante inequivocabilmente la loro presenza sul mare. Su pitture murali antiche più di 3000 anni appaiono scene di marinai con le loro imbarcazioni che danno prova della profondità del mare vicino alla costa, usando un peso attaccato a una lunga corda. Erodoto narra che durante il regno del faraone Necao II (616 a.C.) fu intrapresa una spedizione su incarico del faraone in cui si scelsero i migliori marinai del tempo, i Fenici.  Per due anni, una flotta fenicia armata da Necao II realizzò un viaggio di più di 20.000 chilometri attorno al continente africano.
 
Erodoto ci informa che i marinai Fenici navigarono oltre le Colonne di Ercole, termine ultimo del mondo allora conosciuto, essendo un popolo soprattutto di mercanti facevano di tutto per mantenere il riserbo su quelle rotte misteriose e sui loro nuovi traffici. Un riserbo mantenuto con tanta forza da arrivare ad affondare le navi che seguivano le loro, o, in estrema soluzione, ad autoaffondarsi. Essi circonavigarono l’Africa, giunsero fino alle Indie, giunsero anche sulle coste dell’America[7] L’ammiraglio cartaginese Imilcone così descrive una sua spedizione oltre le Colonne d’Ercole: ” … Non vi è brezza che spiri guidando la nave, tanto fermo è il pigro vento dell’ozioso mare … alghe dovunque sparse tra le onde impediscono la rotta come fossero rami. Il mare ha poco fondo … mostri marini spaventosi si aggirano nuotando fra le navi che lentamente avanzano …”. Un posto simile realmente esiste nell’Oceano Atlantico, ed è il Mar dei Sargassi, tristemente noto per le alghe (il Sargasso per l’appunto) che lo ricoprono e per le improvvise e durevoli bonacce, che costringevano le navi a vela a fermarsi. Infatti, quella zona è anche conosciuta con il nome di Latitudine del Cavallo, chiamata così dagli Spagnoli che erano costretti, al terminare delle scorte di cibo, a uccidere i propri cavalli per sopravvivere.
Figura 4. Nave Fenicia
 
Una delle sette più intellettualmente importanti nel mondo islamico è quella degli Ismaeliti, i Fatmidi. Il movimento ismaelita, nato dallo scisma del 756, divenne nello spazio di due secoli una vera e propria religione esoterica, che considerava abrogate tutte le religioni ufficiali, compreso l’Islam formalista, e un vasto movimento politico dal quale sorse la potenza della cosiddetta dinastia dei Fatimidi, padrona dell’Egitto e di tutta l’Africa settentrionale per almeno due secoli (IX-XII sec.). Nel momento di massima espansione nel X secolo, essi controllavano il Nord Africa e la Sicilia, la Mecca e Medina. La loro base principale era al Cairo in Egitto, dove fondarono le prime università anticipando di 200 anni quelle europee. Nel 1090 la setta era in declino, furono sostituiti dalla dinastia degli Abbasidi, eccetto che in Spagna, dove costituirono l’emirato degli Omayyadi con capitale Cordova, con una popolazione che superava il milione di abitanti. Cordova come Cadice era un’antica città fondata dai Fenici nel XI secolo a.C., e poi governata nel VII secolo dai Cartaginesi, entrambi navigatori per eccellenza. Cordova divenne un centro di cultura come prima era stata il Cairo, vantando una biblioteca di più di 400.000 volumi. Cordova a quei tempi attirava migliaia di uomini in cerca di sapere: arabi, cristiani, ebrei. Fiorirono scuole di medicina, alchimia matematica, astronomia. Tra gli uomini attirati dal suo raggio di luce, c’era colui che sarebbe diventato papa Silvestro II, l’uomo più istruito dell’epoca che indossò la tiara papale. Alla sua morte nel 1003, fu tacciato di eresia e cancellato dalla storia del Vaticano. Tale era il potere della conoscenza e la paura che essa suscitava.
 
Purtroppo però la caduta che portò alla distruzione della metropoli: la città reale di Medina az-Zahara fu distrutta, e nel 1031 Cordoba diventò sede di uno dei vari regni Taifa, ma il suo chiarore continuò a risplendere presto quando nel XII secolo l’ebreo Maimonide, e l’arabo Averroè diventarono i più celebri rappresentanti di quest’epoca. Con le loro opere di teologia, matematica, filosofia, medicina e fisica contribuirono ad aumentare la bellezza della città, finché nel 1236 Ferdinando III non riportò in città il cristianesimo rompendo per sempre la lunga e fiorente dominazione araba durata ben 525 anni.
 
Cordova era sulla via templare che collegava il santuario di Le Puy con il santuario di San Giacomo a Santiago de Compostela.  Nulla vieta che si ammetta che molte delle opere della Biblioteca di Alessandria siano passate alle università del Cairo e poi con la cacciata Ismaeliti nella biblioteca di Cordova. Senza andare troppo lontano, a Cordova i Templari hanno trovato la documentazione, cioè le mappe, necessaria per le loro rotte atlantiche.

[1] Piri Reis è un personaggio la cui identità storica è comprovata. Ammiraglio della flotta turca ottomana, considerato un esperto delle terre del Mediterraneo, scrisse un celebre libro sulla navigazione, che forniva una dettagliata descrizione delle coste, dei porti, delle correnti ecc. Fu decapitato nel 1.554 dopo essere caduto in disgrazia presso il sultano.
[2] Le carte nautiche dipinte su pelle di gazzella di questo atlante furono scoperte in uno scaffale polveroso dal direttore dei musei nazionali turchi il 9 novembre 1.929.
[3] C. H. Hapgood è membro della Royal Geographical Society.
[4] Impronte degli Dei, Graham Hancock, Corbaccio Editore, pag. 10.
[5] I Segreti dell’Atlantide opera citata, pag. 101.
[6] Mercator nel 1.563 visitò in Egitto la Grande Piramide, e passò molti anni della sua vita ad accumulare libri e antiche carte geografiche.
[7] Questo fatto è documentato dal ritrovamento di monete e iscrizioni fenicie ritrovabili sia nel Nord sia nel Sud dell'America.
TESTIMONIANZE ARCHEOLOGICHE  ANTECEDENTI AL TEMPO DEI TEMPLARI
 
Esistono una serie d’indizi archeologici e storici interessanti a sostegno che l’America fosse conosciuta prima di Colombo ma oggi possiamo avanzare l’ipotesi che già gli antichi egizi ebbero rapporti commerciali con l’America (forse vi giunsero con le loro navi, oppure ricevettero merci portate da altri popoli che avevano rapporti con i pre-colombiani). Tali indizi sono molto consistenti e il giornalista Adriano Forgione li ha personalmente individuati tra reperti ufficiali conservati al Museo del Cairo. Nella sezione del museo destinata al periodo amarniano e al faraone Akhenaton vi è una teca con piccoli oggetti in faience trovati nelle tombe amarniane (1352-1295 a.C.). Alcuni sono certamente delle pigne ma due piccoli oggetti di colore verde, lunghi solo un paio di centimetri, riportano un lungo ciuffo di colore scuro. È chiaro e lampante che si tratti di ananas, perché le pigne non presentano tale ciuffo essendo un frutto di alberi di conifere e non un frutto di una pianta grassa che è originaria del Sud-America e portata in Europa ufficialmente solo dopo Cristoforo Colombo.
Figura 1. Ananas e pigne al Museo Egizio del Cairo
 
A. Forgione invita a osservare la direzione delle “scaglie”:
 
  1. Nella pigna queste puntano verso il basso e ciò è ben riprodotto anche nelle pigne di faience[1] egizie poste nella bacheca.
  2. Nell’ananas le scaglie puntano naturalmente verso l’alto e questo è quanto si vede dai due piccoli ananas di faience egiziani (ve ne è forse un terzo, più grande, anch’esso di colore verde ma sembra aver perso il ciuffo).
 
Il colore verde è naturale per gli ananas colti acerbi. Cosa ci fanno degli ananas in Egitto se le culture d’Egitto e del Sudamerica mai vennero ufficialmente a contatto?[2]  Questi reperti risalgono a circa 1300 anni prima di Cristo e sono osservabili oggi al Museo del Cairo.
 
Nel 1984 il giornale Cairo Times pubblicò la notizia del ritrovamento di ossa di canguro vicino l’Oasi di Siwa[3]. Nel complesso funerario del Faraone Unas (VI dinastia), nella Necropoli di Saqquara, si sono scoperte scene di caccia con diversi animali, tra cui incredibilmente si riscontrano canguri. Disegni di canguri si trovano poi a Tell al-Amarna, la capitale costruita da Akhenaton e abbandonata dopo di lui, durante il regno del figlio Tutankhamon. In Australia nel Queensland sono stati rinvenuti numerosi scarabei sacri egiziani e la statua di un babbuino, animale sconosciuto da queste parti ma ben noto agli Egiziani che lo impiegano (insieme all’Ibis) come simbolo del dio saggezza Thot. Nel 1963 venne dissepolta una pila di monete egiziane, risalenti a 4000 anni fa, in un campo ai confini del deserto australiano. Nel Museo di Katoomba si possono osservare monete egizie e romane rinvenute in diversi punti dell’Australia. Sulle rocce di un monte nel Parco Nazionale della Valle del Cacciatore a nord di Sidney compaiono più di 250 geroglifici, tra cui si vede Anubis; spicca tra essi un cartiglio con il nome di Djef-Ra (Diodefre), figlio di Khufu e nipote di Snefru, il ché collocherebbe l'evento durante l’Antico Regno e più esattamente durante la IV dinastia. I geroglifici danno conto di una spedizione al comando di Djes- Djes-Eb, un nobile egiziano che insieme al suo equipaggio sarebbe naufragato in terre straniere, dove dopo molte calamità sarebbe morto per il morso di un serpente velenoso[4].
Figura 2. Geroglifici egizi in Australia
 
Dopo gli Egizi a che i Romani avevano una flotta che varcava periodicamente le Colonne d’Ercole. I Romani avevano un porto commerciale in India, Arikamedu, dove ogni anno, in età Imperiale, approdavano 150 navi mercantili scortate da navi militari romane. Sulla tomba di Augusto, a Largo Augusto Imperatore a Roma, è scritto: “Incrementò i traffici con l’India”. Le navi romane giunsero in Cina. Sappiamo che San Paolo andò in Cuna a predicare il Cristianesimo, e a Canton è stata trovata un’agenzia di cambio del II secolo d. C. Sappiamo che navi romane giunsero in Indonesia dove si procuravano il pepe (che valeva più dell’oro) e spezie. Tracce della presenza romana sono state trovate in Corea, in Nuova Zelanda, e sappiamo che raggiunsero l’Australia. È certo che circumnavigarono l’Africa e a Nord sottomisero le Orcadi e si spinsero fino in Islanda. Tiberio, per esempio navigò con la sua flotta lungo tutto il mar Baltico. Sappiamo che avevano un porto alle Isole Fortunate (le Canarie) e a Madeira. Ora, poiché erano a conoscenza che il mondo è sferico[5] e che navigando lungo un parallelo si deve giungere dalla parte opposta allo stesso luogo, cosa li doveva fermare? D’altro canto come avrebbe potuto l’Imperatore Giuliano affermare che “l’Oceano Atlantico è più grande del Mar Mediteranno, ma al pari di esso è stato completamente esplorato ed è sotto il dominio di Roma[6]?” Né il Mar Rosso né tanto meno le Colonne d’Ercole costituivano un tabù per le flotte militari e civili romane che le varcavano regolarmente, avendo ereditato dalla sconfitta Cartagine le rotte in direzione delle coste africane occidentali e delle Isole Fortunate.  «... Luciano ci ha lasciato la descrizione di una nave romana lunga 54 metri, larga 14 e con un dislocamento di 1.000 tonnellate nella quale l'albero di maestra si trovava al centro dello scafo, portava una vela quadrata, raddoppiata da una seconda vela superiore e la poppa e la prua erano rialzate... », riporta Elio Cadelo a p. 20 del suo volume “Quando i Romani andavano in America”. Le rotte commerciali, spiega Elio Cadelo, erano segretissime e le mappe non venivano diffuse, avendo un enorme valore economico per i loro proprietari che potevano così avere l’esclusiva per importazioni di prodotti provenienti da terre sconosciute. E poi, come scrive nella sua prefazione l’astrofisico Giovanni F. Bignami, c’è il paradosso di Cristoforo Colombo: “L’importante, per avere il merito di una grande scoperta, è essere l’ultimo a farla, non il primo“.
 
In quel museo a cielo aperto che è Pompei, entrando nella Casa dell’Efebo, sul larario a destra, è raffigurata una scena misterica di sacrificio: il Genio sacrificatore è rappresentato nell’atto di fare un’inconsueta offerta, quella di un frutto di ananas.
 
L’ananas era sconosciuto sino alla scoperta ufficiale dell’America: a Cristoforo Colombo gli fu offerto nel 1493 nell’isola di Guadalupe. Dopo di lui esploratori spagnoli e portoghesi ne riferirono l’esistenza nelle loro memorie di viaggio. In un dipinto conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, sono rappresentati alcuni rametti fogliati con frutti di mango e, in un altro dipinto, è riconoscibile un frutto ovoide di anona squamosa[7]. Occorre ricordare che il mango è originario dell’Asia meridionale, mentre l’ananas e l’anona sono originari dell’America tropicale. Nel Museo del Palazzo Massimo alle Terme di Roma si può fare una scoperta incredibile. Su un pavimento a mosaico del secondo piano, nella galleria dedicata agli affreschi, mosaici e stucchi del mondo classico, si nota qualcosa di molto particolare. Il mosaico datato agli inizi del I secolo dopo Cristo, riproduce un cesto di frutta che nasconde un vero mistero. In esso, sono riprodotti partendo da sinistra, alcuni fichi, delle mele cotogne, un grappolo di uva nera, alcune melagrane e un alimento impossibile: un ananas. Infine conservata al Musée d’Art et d’Histoire di Ginevra ( III secolo d.C.) vi è la scultura di un fanciullo con un ananas in mano. E in altri mosaici e dipinti appaiono frutti originari delle Americhe, quali l’anona. Come potevano i Romani conoscere tali frutti, se non avessero avuto contatti, ancorché sporadici e occasionali, con il nuovo continente?
Figura 3.Pompei affresco con ananas - Mosaico antica Roma con ananas
 
Gli scalpellini che hanno riprodotto gli ananas sulle chiese templari non videro certamente questi reperti storici, rappresentano due visioni separate effettuate in tempi diversi.
 
Nel 1933 nel sito archeologico di Calixtlahuaca in Messico all’interno di una tomba, fu ritrovata una testina di 2,5 cm di uomo barbuto, con berretto tronco-conico, sicuramente occidentale, non di un indios, perché gli amerindi non hanno barbe fluenti, al massimo il loro mento è ornato da radi e corti ciuffetti arricciati. La testa fu trovata in un edificio o il cui ultimo rifacimento risaliva a un periodo compreso tra il 1476 e il 1510, anno in cui l’edificio fu abbandonato per sempre. Si pensò che potesse essere stata trasportata in quel luogo dagli spagnoli o da altri in età recente, ma sembra che il santuario entro cui fu scoperta fosse rimasto inviolato dai Conquistadores. L’archeologo Garcia Payon, che trovò il reperto, scrisse chiaramente nella sua relazione di scavo che nella struttura non vi erano segni di “intrusioni” successive alla sua realizzazione e che i pavimenti che si sovrapponevano e “sigillavano” le due tombe, erano assolutamente intatti.
Figura 4. Calixtlahuaca Testa uomo barbuto
 
La testa secondo alcuni è attribuibile per caratteri stilistici alla fine del II secolo, secondo altri ricercatori è vichinga o celtica. La prova della termoluminescenza eseguita nel 1995 l’ha datata tra il IX sec. a. C. e la metà del XIII d. C., quindi prima di Colombo. Il copricapo conico assomiglia molto a un pileo[8], cioè un berretto frigio senza punta ripiegata.
 
Uno dei segni di riconoscimento dei Magi della Persia (o Frigia) e poi dei Maestri d’Opera è il cosiddetto berretto frigio[9]. I Dioscuri erano in genere rappresentati con una stella sopra la testa e con il pileo.
Figura 5. Copricapo conico di uno dei Dioscuri
 
Veniva usato in particolare da marinai, pescatori e in generale lavoratori manuali. Dal pileo deriva lo zucchetto dagli ecclesiastici, in quanto pescatori di anime. Potrebbe essere dunque la rappresentazione di un marinaio con la barba, cioè di un europeo venuto dal Mare Atlantico. Non un marinaio qualunque, ma un personaggio di spicco.  Si racconta che nell’XI secolo uno straniero, un uomo bianco che portava la barba approdò nello Yucatan, scrive Louis  Charpentier nei “I misteri dei Templari”, che aveva il nome di Quetzalcoatl (uccello serpente), e in lingua maya, quello di Kukulkan (il serpente piumato) Fatto prigioniero fu rinchiuso in un pozzo, dove riuscì a sopravvivere e perciò fu considerato come inviato dalla divinità. Sappiamo che i Templari avevano l’obbligo di portare la barba e ipotizzando che questo “bianco barbuto” avesse superato una durissima prova come il sopravvivere dentro un pozzo, cioè una prova iniziatica, allora perché non potesse essere ritenuto l’inviato del leggendario dio Kukulkan?
Figura 6. Bassorilievo Tempio dell’uomo barbuto
 
Anche il bassorilievo nel sito di Chichén del Tempio dell’uomo barbuto fa molto discutere, non è un amerindo  e inoltre, i tratti del personaggio raffigurato sembrano caucasici. Dato che il campo è stato costruito al più tardi nel XII sec. (sembra sia stato dedicato nel 1142), questo bassorilievo starebbe a dimostrare che qualche europeo è giunto costaggiù ben prima di Colombo[10].
 
Per confondere ancore l’ortodossia dell’archeologi, nel sito archeologico di Calixtlahuaca di fronte al Tempio di Quetzalcoatl vi è un altare a croce “egizia” detto Tzompantli, la particolarità di questo altare azteco è che ha la forma di un Ankh egizio (una forma di croce, una T con un ovale che ricorda un uomo con le braccia aperte).

Figura 7. Calixtlahuaca Ankh egizio
 
Studiosi moderni, quali Valerio Massimo Manfredi e Lucio Russo, sostengono che le “Isole Fortunate” dalle quali abbiamo preso le mosse nel nostro discorso sulle isole Canarie, sarebbero da ricercare molto più a ovest di queste isole, addirittura nelle Antille, sulle quali dunque antichi navigatori (greci, fenici, cartaginesi) sarebbero approdati, pur senza essersi resi conto di essere giunti nei pressi di un nuovo continente.

[1] Con il termine faience si usa normalmente indicare un impasto di terra, più o meno argillosa, ricoperto di smalto.
[2] http://www.terraincognitaweb.com/gli-egizi-in-america-lo-provano-ananas-e-mais/ Adriano Forgione
[3] Vedi  Lost cities of ancient Lemuria & the Pacific di David Hatcher Childress.
[4] Diego Marini http://stopilluminati.weebly.com/egizi-in-australia.htlm
[5] Cicerone, Plinio, Tolomeo, Seneca, Strabone, Plutarco, Diodoro Siculo e Giulio Cesare, e prima ancora i Pitagorici, sapevano che il mondo fosse sferico – che fosse una sfera perfetta – e che ruotasse intorno al Sole. D’altro canto, spiegano, molto bene che il giorno e la notte dipendono dal fenomeno di rotazione.
[6] Elio Cadelo, “Quando i Romani andavano in America”, con la prefazione dell’astrofisico Giovanni Bignami, Edizioni Palombi.  http://www.storiainrete.com/2133/storia-antica/i-romani-arrivarono-in-america-e-tornarono-pure/
[7] D. Casella Rivista di ortoflorofrutticoltura italiana.  Vol. 40, No. 3/4 (Marzo-Aprile 1956), pp. 117-133. A proposito di raffigurazioni di ananas, mango e annona squamosa in dipinti pompeiani.  
[8] Per lo più è allungato a cono, altre volte è ovale o a semplice calotta, la punta del cono è tondeggiante, in genere era di feltro: è stato considerato un simbolo di libertà.
[9] In realtà era il Pater, cioè il celebrante i misteri mitraici colui il quale indossava il rosso cappello frigio. Lo zucchetto rosso dei cardinali è una forma ridotta. Anche la tiara papale è un copricapo conico.
[10] http://www.sbresearchgroup.eu/index.php/it/articoli-scientifici/240-missione-nello-yucatan-messicano.
IL MISTERO DEI ROTOLI DELLA BIBLIOTECA DI ALESSANDRIA
 
All’inizio del III Secolo a.C. Tolomeo I, grande cultore delle arti letterarie, egli intuì quanto fosse importante preservare, ma allo stesso tempo mettere a disposizione dei dotti, tutto il sapere dell’umanità, anche al fine di tramandarlo ai posteri.
 
La Biblioteca e il Museo furono costruiti molto vicini l’una all’altro, i testi erano materialmente raccolti nella Biblioteca, mentre nel Museo erano redatte le rispettive relazioni critiche; lo scopo iniziale era quello di raccogliere i soli testi greci, ma ben presto la collezione si arricchì di opere che spaziavano in ogni campo e che provenivano da ogni parte del mondo; in virtù della sua enorme popolarità la Biblioteca fu ingrandita, fino ad avere dieci enormi sale e molte altre salette più piccole riservate agli studiosi. La famosa Biblioteca Alessandrina, la “meraviglia dei secoli, ” fu fondata da Tolomeo Filadelfo; che parecchi dei suoi manoscritti erano stati accuratamente copiati dai testi ieratici e dalle più antiche pergamene caldee, fenicie, persiane, ecc; e che queste trascrizioni e copie ammontavano a oltre 100.000 rotoli, come affermano Giuseppe Flavio e Strabone.
Figura 1. Interno dell'antica Biblioteca di Alessandria secondo un'incisione ottocentesca (Wikipedia)
 
Divenne in breve tappa obbligata per gli studiosi, la frequentarono assiduamente Euclide, il padre della geometria, Aristarco di Samo ed Erone di Alessandria; giunta al massimo del proprio splendore accadde, però l’imprevisto, i romani di Giulio Cesare[1] incendiarono una delle sezioni della Biblioteca trasformando in cenere circa quarantamila rotoli. Seguirono gli incendi ad opera di Zenobia, sovrana di Paimyra, di Diocleziano nel 295 d.C., fino alla completa distruzione da parte del Generale Amr Ibnel-as, agli ordini del Califfo Omar I.
 
Tra i libri contenuti nella Biblioteca, parte dei quali, furono probabilmente sottratti all’incendio, ma andati ugualmente perduti, primeggiava una Storia del Mondo, opera del sacerdote Babilonese Beroso, oltre che riportare avvenimenti accaduti prima del diluvio universale. Era conservata anche l’intera opera di Manetone, il sacerdote egizio vissuto ai tempi di Tolomeo I e, secondo la tradizione, in possesso del favoloso Libro di Toth; per non parlare poi dei testi del fenicio Moco, dove si parlava di teoria atomica; oltre a rarissimi libri provenienti dall’india e numerosi manoscritti alchemici. Per conquistare i favori di Cleopatra, Marco Antonio saccheggiò la Biblioteca di Pergamo, Asia Minore, che conteneva 200.000 volumi, e li portò ad Alessandria per ricostituire il fondo bibliotecario.
 
Prima ancora era stata incendiata nell’83 a.C. dai Romani comandati da Scipione Emiliano detto l’Africano, la Biblioteca di Cartagine in cui erano conservati un’infinità di manoscritti, papiri, tavolette cuneiformi, registri. I Cartaginesi si consideravano discendenti dai Tirreni, misterioso popolo, che anticamente aveva dominato le acque del Mediterraneo. Erodoto nel IV Libro della sua Storia scriveva che i Cartaginesi intessevano commerci con popoli che vivevano di là dalle Colonne d’Ercole. Nel 450 a.C. l’ammiraglio cartaginese Annone fece vela in direzione dell’Africa occidentale, del Niger. La biblioteca di Cartagine contenente 500.000 rotoli era seconda solamente a quella di Alessandria e certamente conservava tra i suoi scaffali documenti molto antichi. Eusebio sostenne che Cartagine fu fondata 133 anni prima della distruzione di Troia. Mentre Roma rappresentava una razza relativamente giovane dedita alla guerra, mentre Cartagine rappresentava un’antichissima e nobilissima dedita alle scienze e alla speculazione filosofica, erede di conoscenze più antiche.
 
L’affermazione del dotto gesuita Padre Kircher che tutti i frammenti noti come opere di Ermete Trismegisto, Beroso, Ferecide di Siro, etc., erano rotoli scampati al fuoco che aveva divorato i Volumi della grande Biblioteca di Alessandria, fu semplicemente derisa. E neppure molti dottissimi copti disseminati in tutto l’Oriente, in Asia Minore, in Egitto e in Palestina, credono alla totale distruzione delle biblioteche successive. Ad esempio essi sostengono che neppure un volume fu distrutto della biblioteca di Attalo III di Pergamo, donata da Antonio a Cleopatra. H. P. Blavatsky scrive in Iside Svelata delle tradizioni che narrano di migliaia antiche pergamene salvate dall’incendio della Biblioteca di Alessandria ordinato da Giulio Cesare. Nel suo libro Iside Svelata H. P. Blavatsky afferma che un monastero greco (Monte Athos) possiede un manoscritto molto raro di Theodas, scriba della celebre Biblioteca di Alessandria, e sostiene di aver visto una copia di quel manoscritto nelle mani di un monaco. In quel documento si direbbe tra l’altro che poco prima dell’arrivo di G. Cesare in Egitto la Biblioteca era sottoposta a dei lavori di restauro e che precedentemente tutte le pergamene più preziose erano state trasferite nella casa di uno dei bibliotecari … Grazie invece agli sforzi dei bibliotecari, che in tempo di guerra si aspettavano il peggio, gran parte dei documenti si sarebbe salvata. Il monaco del monte Athos … disse che quando fosse arrivato il momento molto avrebbero potuto esaminare quell’antico rapporto sulla Biblioteca di Alessandria, che avrebbe svelato il luogo dove furono nascosti i preziosi rotoli … si sarebbe trattato di migliaia di libri, scelti e raccolti soprattutto in Asia. Inventava o diceva la verità?[2] L’autrice prosegue la sua narrazione sui rotoli non bruciati della Biblioteca di Alessandria.

Vi sono strane tradizioni correnti in varie parti dell’Oriente — per esempio sul Monte Athos e nel deserto di Nitria — fra certi monaci e certi dotti rabbini della Palestina che passano la vita commentando il Talmud. Esse dicono che non tutti i rotoli e manoscritti che, secondo la storia furono bruciati da Cesare, dalle masse cristiane nel 389 e dal condottiero arabo Almud, perirono come generalmente si crede. Secondo esse, al tempo della contesa per il trono fra Cleopatra e suo fratello Dionisio Tolomeo, nel 51 a.C., il Bruckion, che conteneva più di settecentomila rotoli rilegati in legno e pergamena a prova di fuoco, veniva restaurato, e gran parte dei manoscritti originali, considerati fra i più preziosi e unici, erano stati immagazzinati nelle case dei bibliotecari. Poiché il fuoco che consumò il resto fu provocato da un incidente, nessuna precauzione era stata presa, ma varie ore passarono tra il momento in cui la flotta venne incendiata per ordine di Cesare e quello in cui i primi edifici situati presso il porto presero fuoco a loro volta; e tutti i bibliotecari, aiutati da varie centinaia di schiavi addetti al museo, riuscirono a mettere in salvo i rotoli più preziosi. La pergamena era così solida e perfetta che, mentre in alcuni rotoli le pagine interne e la legatura di legno furono ridotte in cenere, la legatura di pergamena di altri rimase illesa. Questi particolari furono scritti in greco, in latino e in dialetto caldeo-siriaco da un dotto giovane chiamato Theodas, uno degli scribi impiegati nel museo.
 
Si dice che uno di questi manoscritti sia stato conservato fino a oggi in un convento greco; e la persona che ci ha narrato la tradizione lo ha visto. Mi ha detto che molti altri lo vedranno e sapranno dove cercare importanti documenti quando una certa profezia si sarà avverata, aggiungendo che la maggior parte di queste opere si può trovare in Tartaria e in India. Il monaco ci mostrò una copia dell’originale, che naturalmente non potemmo leggere, perché conosciamo assai poco le lingue morte. Ma fummo particolarmente colpiti dalla vivace e pittoresca traduzione fatta dal santo padre, tanto che ricordiamo perfettamente qualche curioso passo che, se la memoria non ci inganna, suona così: “Quando la regina del sole (Cleopatra) fu riportata nella città semidistrutta, dopo che il fuoco ebbe divorato la Gloria del mondo, e quando ella vide i mucchi di libri, o rotoli, che coprivano la strada, e si accorse che l’interno di essi era perduto e restavano solo le indistruttibili rilegature, pianse di rabbia e maledisse l’avarizia dei suoi padri che non avevano usato la costosa pergamena reale per l’interno dei preziosi rotoli, ma solo per l’esterno”. Inoltre il nostro autore, Theodas, deride bonariamente la regina, la quale credeva che l’intera biblioteca fosse bruciata, mentre in realtà centinaia e migliaia dei libri più rari erano al sicuro nella sua casa e in quelle di altri scribi, bibliotecari, studiosi e filosofi.
 
Le affermazioni del dotto Theodas che i rotoli più rari erano stati messi al sicuro nelle abitazioni degli scribi e degli studiosi alessandrini, aprono all’ipotesi che gli antichi documenti siano stati salvati e consultati molti secoli dopo. I Templari sicuramente entrarono in possesso di antichi documenti, tra cui le carte nautiche.
 
Che cosa intendeva l’ammiraglio Piri Reis a quando si riferiva a carte disegnate ai tempi di Alessandro Magno? Si rifaceva forse a quelle più antiche conservate nelle biblioteche di Alessandria e Cartagine e scampate alla distruzione causata dall’incendio voluto da Giulio Cesare?  Piri Reis discendeva da una famiglia di navigatori turchi, conosceva e parlava correntemente il greco, lo spagnolo, l’italiano e il portoghese e quindi aveva il modo e la capacità per consultare le mappe esistenti alla sua epoca e poteva fare una sintesi di tutte le conoscenze geografiche del suo tempo.
 
Piri Reis discendeva da una famiglia di navigatori turchi, conosceva e parlava correntemente il greco, lo spagnolo, l’italiano e il portoghese e quindi aveva il modo e la capacità per consultare le mappe esistenti alla sua epoca e poteva fare una sintesi di tutte le conoscenze geografiche del suo tempo. Nessun cartografo dell’antichità da Eratostene a Claudio Tolomeo (II secolo d.C.) né il contemporaneo Pomponio Melo hanno rappresentato l’America e l’Antartide. Piri Reis invece sì anche se la sua carta ci è pervenuto solo in parte arrivando a rappresentare l’America del Sud e a riprodurre un lama e un Puma, animali all’epoca sconosciuti in Europa. Tuttavia guardando le due carte del mondo da lui disegnate viene da chiedersi da dove possa aver tratto alcuni dati relativi alle coste. Lui asseriva di averli ricavati da un documento risalente ai tempi di Alessandro Magno, cioè dalla Biblioteca di Alessandria d’Egitto.


[1]  Qualche decennio dopo, Giulio Cesare ordinò la distruzione delle biblioteche dei Druidi celtici attraverso tutta la Gallia, che si ritiene comprendessero 100.000 rotoli di pergamena.
[2] A. Tomas, I segreti dell’Atlantide, p.116, Oscar Mondadori.
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